I FUOCHI DI SAN ANDREA

di Giuseppe d'Errico

 

Oh! i fuochi di Sant'Andrea. Li sognavamo altorosseggianti, sin dall'inizio dell'autunno ed ogni anno li immaginavamo più grandi, più forti, più belli.

Raccoglievamo per l'intero mese di novembre sterpi e vecchie cassette di legno, sedie sgangherate e ciocchi abbandonati lungo le siepi, fascine offerteci per farci chetare e smettere di richiederle e per al lontanarci al tempo stesso dalla tentazione di sottrarle di nascosto; cassapanche tarlate ed ormai inservibili, tutto ciò che potesse ardere senza difficoltà e il più a lungo possibile. Non mancavano i vecchi giornali e, cosa gradita che ci sembrava quasi una giusta rivincita, i vecchi quaderni di scuola, scarabocchiati e bisunti, sgualciti e dalle copertine sbiadite, che bruciavano silenziosi, contorcendo e ritraendo le pagine in un tentativo vano di sottrarle all'ardore edace della fiamma che le assaliva.

Di tutto questo armamentario si faceva un gran mucchio, quasi una pira votata a struggere solo se stessa. La si componeva nel bel mezzo di una piazza o di uno slargo della via e le si faceva festa all'intorno, noi ragazzi saltando e vociando in frotta, gli adulti trattenendo la gioiosa serenità da cui si sentivano invadere e cui volentieri nel segreto dell'anima si abbandonavano.

Prima di darle fuoco, la pira la si vedeva delinearsi, accrescersi con l'apporto di quanto si riusciva a racimolare all'ultimo momento, e via via assumere la forma di un cono dal vertice alto-svettante su cui si infiggeva un vessillo a guisa di ban diera, oppure uno sgabello come a richiamarvi qualcuno che, invisibile, vi si sarebbe seduto, re della vampalerià" , ossia della vampa all'aria, della vampa spaziante libera in alto con le sue lingue rosseggianti, libranti in cima fugaci pennacchi di fumo.

Quando, infine, tutto era pronto e le ombre della sera del 30 novembre, ultimo giorno del mese, si erano ormai infittite, come ad un cenno convenuto, tra l'attesa trepidante di tutti gli astanti, il cui numero era venuto crescendo, il più autorevole tra i ragazzi promotori dava fuoco ad un cencio o ad un giornale. Assicuratosi che la fiamma si fosse ad essi ben radicata, passandovi dall'esile fiammifero da cui era nata, li accostava alla catasta e tutti trattenevamo il fiato nel seguirne la sorte. Rara mente accadeva che si spegnessero e si dovesse riaccenderli o sostituirli: quasi sempre invece la fiamma, innestatasi al centro del mucchio di legna, vi si nascondeva per un po', quasi minacciando di soffocare, poi faceva capolino tra gli sterpi e le fess ure, acquistava piano piano vigore e luci, sbisciando da molte parti, si comunicava all'intorno con un crepitio crescente, si slanciava caprioleggiando sempre più in alto, lambiva il vessillo e si ritraeva, ripigliava lena e lo circondava, tra sbuffi di fumo l'assaliva infine, decisa, e l'incendiava. A questo punto, sempre più rapidamente, tutta la pira bruciava e le vampe si susseguivano nelle più varie direzioni, si richiamavano, si fondevano contorcendosi, sino a quando divenivano una fiamma sola troneggiante regale, senza più ostacoli, in uno spasimo crescente di bagliori sfrangiantisi in alto in miriadi di scintille.

I quaderni allora si sfogliavano ardendo e disperdendo al venticello della sera le loro fragili ceneri nerastre; gli sterpi giochere lloni, scoppiettando ilari dopo aver brillato per un poco, ricadevano su se stessi spezzettandosi; le fascine erano un rogo intenso che si nutriva della fiamma altrui dopo aver in breve consumato la propria; cassapanche, sedie e sgabelli si mescolavano ar dendo in forme sempre diverse ed unitariamente si confondevano; il vessillo scivolava sempre più in basso tra un nugolo di scintille festose; i ciocchi, che erano alla base della pira, ardevano silenziosi e robusti: cangianti splendori di fuoco ne delineavano ancora i nodi e la scorza rugosa.

Noi ragazzi ci ritraevamo, un po' per ammirare meglio la nostra opera, un po' per il calore che si faceva sempre più intenso. Il cuore ci batteva forte nel petto. Eravamo felici senza riserve od incertezze. Ci applaudivamo. Volava mo in alto noi pure con le fiamme, sia che le stelle brillassero tremule sia che una pioggia minuta e insistente minacciasse invano di spegnere il nostro fuoco. Ci congratulavamo a vicenda, rossi in viso del riverbero delle fiamme; ci additavamo la sorte degli oggetti che avevamo raccolto e che facevano parte dell'unico mucchio ardente di cui condividevano la sorte; sognavamo per un poco che la vampa generosa di luce e di calore potesse durare per sempre. Ma non era cosi.

Via via che il tempo passava, infatti, la fiamma calava in altezza e si ritraeva in se stessa, serrandosi i tizzoni ardenti l'uno sull'altro in rapide cascate di fuoco. Noi ragazzi vocianti le ci avvicinavamo e, dopo averne ammirato da lontano, prima, la spavalda, lib era bellezza, ne godevamo ora il robusto calore che durava ed invitava non solo a riscaldarsi ma a cuocere semplici colazioni sulla cenere rosseggiante, mentre le madri ci raccomandavano la prudenza e ci aiutavano alla bisogna, con un sorriso.

I fuochi ardevano a lungo in tutto il paese e non mancava chi, passando dall'uno all'altro, fungeva da cronista stimandoli e comparandoli in una graduatoria che faceva da classifica per una sconosciuta, comune giuria.

Ogni quartiere aveva il suo fuoco e, pure se non lo si diceva, c'era come una gara a chi tra essi desse vita alla "vampaleria" più bella e più grande.

Poi, al cadere della notte, il fuoco veniva illanguidendosi. Le lingue delle fiamme erano sempre più piccole e più esili, sino a quando ormai non si levavano del tutto. Pure il fuoco robusto dei ciocchi dava segni di cedimento e il vivo di esso si rintanava sempre più nel loro cuore nascosto. La cenere veniva ingrigendo quanto era arso; gli ultimi pezzi di legno scampat\'ed all'incendio e raccolti qua e là, li accostavamo al fuoco che, riprendendosi, in breve li assaliva consumandoli. Della fiammata ammirata ed applaudita, sognata e desiderata, temuta ed amata, restava negli occhi l'immagine di una realtà ormai scomparsa.

Ci si scambiava giudizi e apprezzamenti su quello che eravamo riusciti a fare, consigli e disegni per la vampaleria che già progettavamo per l'anno venturo. Ci si stringeva infine la mano e si andava verso casa tutti a nostro modo vincitori.

Era ormai tardi. A guardarci indietro, nella piazza restava un mucchio di cenere calda che nascondeva in sé l'ultimo fuoco.

La festa era finita. Il santo era stato onorato.

Stanchi andavamo a letto, accaldati. Avevamo in cuore una gioia serena e soddisfatta.

Giuseppe d'Errico

 

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A cura dell'ing. Michele Zarrella