UN MAZZOLINO DI ASPARAGI

di GIUSEPPE d'ERRICO

Quell'anno, il 1960, marzo era davvero pazzerello. Dopo un inverno freddo e nevoso, a tratti pareva proprio che la primavera fosse arrivata. Ma le giornate di sole non duravano a lungo. Le nubi all'improvviso ricoprivano il cielo ed una pioggia minuta ed insistente bagnava i campi, le case te la sentivi fredda nelle ossa e quasi sembrava ti penetrasse nel cuore.

Giovane professore, con i miei alunni mi sentivo io pure ancora fanciullo, e , come essi, sognavo lunghe passeggiate per le assolate vie di campagna, profumo di mammole lungo i sentieri,dopo il lungo freddo che avevamo sofferto, il bianco incanto delle margherite disseminate per i prati verdeggianti.

Gli alberi rifiorivano, ed io li sentivo amici, fanciulli essi pure, sorridenti alle prime brezze primaverili. Si poteva proprio sperare che ci sarebbe stato sempre il sole, ed invece.

Come a sfatare le nostre illusioni ed a ricordarci che non era finito davvero, tornava improvviso l'inverno con i soffi gel idi della tramontana, con gli scrosci violenti di pioggia, con le nebbie mattutine che stentavano a dissolversi sotto i raggi di un sole incerto e malato. E ci riassaliva la delusione.

Si avvicinava la festa di S. Giuseppe, alle soglie della primavera, e, forse proprio per il desiderio sempre più vivo di belle giornate di sole e per la delusione sempre più sovente sofferta di giornate umide e piovose, in classe la vivacità era cresciuta, come per una sorta di reazione. Ma non doveva trattarsi solo di questo. Lo intuivo da un frequente ammiccare di occhi e d i sorrisi, da uno scambio furtivo di rapidi messaggi verbali dall'essere guardato sovente in modo tutt'affatto particolare.

I Giuseppe e le Giuseppine, poi, che erano in classe, avvicinandosi il nostro comune onomastico, ostentavano una familiarità nei miei confronti, prima sconosciuta. Io ne sorridevo dialogando con loro o facevo finta di non averlo notato.

La vigilia della festa, il 18 marzo, quale sorpresa, entrando in classe! Sulla lavagna, a lettere cubitali, era stata scritta la parola "auguri", e sulla cattedra erano ammucchiati alla rinfusa tanti piccoli regali.

C'erano mazzolini di mammole, i miei fiori preferiti (e chissà mai come i miei alunni erano venuti a saperlo), cioccolatine e caramelle, alcune mele lustre rosse, bigliettini con varie frasi augurali, ed una penna biro bicolore.

Quando entrai, un grande applauso si levò, che mi commosse. Ringraziai i miei alunni, guardandoli in viso uno per uno, e strinsi loro la mano, passando tra i banchi. Poi ritornai alla cattedra, vi feci un po' di spazio per poggiarvi il registro, lo aprii e mi accinsi all'appello.

S'era levato intanto un gran vento che sbatteva sui vetri della finestra la pioggia che a scrosci veniva giù da nuvole nerastre che si inseguivano veloci nel cielo.

La scuola media in cui insegnavo, era ospitata nel convento dei PP. Cappuccini, e l'aula della mia classe, posta all'ultimo piano, si trovava particolarmente esposta ai quattro venti. Serrammo meglio che potemmo le imposte, cercammo con stracci di chiudere o almeno di schermare ogni fessura, e, dopo aver commentato, con misto di amarezza e di ironia, che la primavera non era proprio vicina, nonostante il calendario ci dicesse il contrario, di nuovo ci accingevamo a fare l'appello e ad iniziare le lezioni, quando la porta si aprì ed entrò Luigi. \par Ne avevo notato l'assenza, l'unica in classe, ma il compagno di banco non aveva saputo spigarla.\line Ora Luigi era entrato, zuppo d'acqua, con pochi libri, che era solito portare, riparati sotto il cappottino grigio un po' liso e dai pochi bottoni, le scarpe tutte inzaccherate di franchigia giallastra, il berretto messo a sghimbescio, e l'ombrello mezzo sconquassato, che sembrava una fontanella.\line Ad un primo moto di riso era subentrato nei compagni un silenzio affettuoso, e qualcuno di essi ora invitava Luigino, come solevano chiamarlo, a prendere posto vicino alla stufa, per asciugarsi un poco. \par Ma Luigino, prima di accettare l'invito, poggò in un angolo quello che restava del suo vecchio ombrello, pose sul suo banco i pochi libri e quaderni che aveva portato, con un sorriso si avvicinò rapido alla cattedra, e, guardandomi in volto come non soleva fare, stese timidamente la mano ad offrirmi il suo dono.\line - Professo', eccovi il mio mazzolino di asparagi, con tanti auguri per San Giuseppe. Li ho raccolti io. Stamattina. Prima di venire a scuola.Sono freschi. Nella mia campagna non son ancora nate le viole e non ve le ho potuto regalare. Ma vi voglio bene ugualmente. \par Luigi era piccolo e minuto di statura, bruno e con due occhi neri come il carbone. Non si metteva mai in mostra e non mi accadeva di notarlo fra i suoi compagni che erano tutti più vivaci ed intraprendenti di lui. Ora che parlava velocemente, come se avesse paura di vedersi scappar via le parole che aveva in animo di dire, mi parve di vederlo davvero, per la prima volta.

Presi dalle sue mani il "mazzolino" di asparagi e lo tenni tra le mie, come se fosse di fiori. Poi lo posai sulla cattedra, andai vicino a Luigi e gli carezzai la fronte.

Diversa mente da quasi tutti i suoi compagni, Luigi non aveva mai portao una sciarpa. Se ne avesse avuto una, ora essa gli sarebbe potuta essere utile per asciugarsi la nuca e riparala dal collo bagnato della camicia. Io solevo portarne una giallina che non mi toglievo mai, freddoloso come sono. Ma non esitai. Me la tolsi e gliela posi intorno al collo.

Luigi mi guardò sorpreso e tentò di schermirsi.

- Ma perché , professo'. Non dovete. Ma che fate mai. Adesso si bagna tutta essa pure. Non ve la potete più mettere.

Poi, come a sottrarsi dall'attenzione dei compagni, accettò il dono dicendomi:

- Ve la porterò domani,anzi dopodomani, perché domani è festa. Ve la riporterò pulita ed asciutta.

Gli dissi che i doni fati con amore, non si devono restituire mai. Ma non mi sembrò convinto.

Nei giorni seguenti, però , non si separò mai da quella sciarpetta, né tentò più di restituirmela. La porta sempre con sé, su ogni vestito, con o senza il cappotto.

E venne maggio, e con esso vennero le vere giornate di primavera. Talora si sudava, anche senza muoversi, nell'aula esposta al sole. Ma Luigi continuava ad indossare la sciarpa.

A chi gli chiedeva, con un pizzico di ironia, se avesse freddo, egli rispondeva solo con un sorriso.\line Uno degli ultimi giorni di lezione, glielo chiesi io. E Luigi, lisciandosi la sciarpa con le mani e stringendosela al petto, mi rispose, senza guardarmi in volto: - Essa mi carezza.

Gli sorrisi commosso e gli feci io una carezza.

Non ho più visto Luigi da allora né so dove egli viva; ma quelle parole ancora oggi mi sono dolci al cuore, esse sì, come una carezza di cui non mi sono mai stancato di ringraziarlo.

 

Giuseppe d' Errico .

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A cura dell'ing. Zarrella Michele