n.155/91Reg. Gen.

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

Il giorno 20 del mese di novembre millenovecento92

 

IL TRIBUNALE CIVILE E PENALE DI TORINO

 

Sezione quarta penale

 

composta dai signori Magistrati:

 

1)      Dott. QUAINI MARCO                                           Presidente

2)      Dott. STRATA IRENE                                             Giudice

3)      Dott. PERNA DONATELLA                                   Giudice

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

nella causa penale di primo grado

 

CONTRO

 

1)       SURACI Giuseppe, (nato a…)                                LIBERO PRESENTE

2)       GUADAGNI Salvatore (nato a …)                         LIBERO PRESENTE

3)       VULLO Graziella (nata a …)                                   LIBERA PRESENTE

4)       CONDEMI Marcello (nato a …)                            LIBERO PRESENTE

 

 

 

IMPUTATI

 

Del delitto di cui agli artt. 113, 449, 423, 589 primo e terzo comma c.p. , perché nelle rispettive qualità SURACI Giuseppe di direttore della casa circondariale "Le Vallette" di Torino con compiti di funzionario delegato alla direzione del carcere con  riferimento alla sicurezza ed al controllo del materiale carcerario tramite ricognizioni periodiche per rilevarne fra l'altro lo stato di conservazione, VULLO Graziella e CONDEMI Marcello di contabile del materiale e di ragioniere capo con funzioni di gestione del materiale la prima e di controllo sulla migliore possibile conservazione del materiale mobile esistente nello stabilimento il secondo, GUADAGNI Salvatore di maresciallo comandante degli agenti di custodia, per negligenza ed imprudenza consistite nell'autorizzare, decidere o consentire la collocazione di oltre 800 materassi ricoperti da protezione plastica sotto il porticato del braccio di detenzione femminile e dunque in luogo per sua natura non sicuro con riferimento alla possibilità di eventi dannosi aventi ad oggetto i materassi, cagionabili anche da persone che avessero accesso al luogo e perfino dalla stesse detenute, o comunque nel non verificare la collocazione (in mancanza di locali destinati a magazzino) dell'imponente fornitura arrivata disponendone l'immediato spostamento in locali vuoti pur esistenti in altra parte dell'edificio, al di fuori della cinta carceraria o comunque non accessibili ai detenuti, cagionavano l'incendio delle lastre di resina propagatosi dall'involucro di polietilene acceso verosimilmente da un oggetto infiammato caduto dalle finestre delle celle stesse, con conseguente alla costruzione di fumi caldi ad elevata densità che determinavano la frantumazione dei vetri e la massiccia invasione delle celle; e così cagionando a BUZZEGOLI Ivana, CAPOGRECO Rosa, CRAVERO Paola, DENTICO Lauretta, DE SIMONE Lidia, DRAGUTINOVIC Morsula, HROVAT Editta, PALLA Beatrice e TRAIKOVIC Radica (alias VERBANOVIC Vesna) tutte ristrette nel braccio, nonché alle vigilatrici CASAZZA Maria Grazia, SISCA Rosetta gravissime lesioni personali dalle quali conseguiva in pochi minuti la morte, avvenuta per PALLA Beatrice in data 23.6.89.

In Torino, nella notte tra il 3 ed il 4 giugno 1989.

 

IN FATTO E IN DIRITTO

 

Alle 23.19 della sera del 3.6.89 al centralino del Comando provinciale dei Vigili del Fuoco di Torino pervenne una telefonata nel corso della quale una persona, qualificatasi per De Melas e successivamente non identificata, sollecitò un intervento per l'incendio di un'autovettura all'interno del carcere "Le Vallette" di Torino.

Una prima squadra composta da 14 vigili partì immediatamente e fu sul posto alle 23.25. Fu subito chiaro che l'incendio, che presentava un fronte di circa dieci mt. ed era divampato sotto il porticato della palazzina in cui alloggiavano le detenute, non riguardava affatto un'autovettura, ma del materiale plastico che il calore aveva decomposto in modo tale da non poter essere subito riconosciuto.

L'incendio aveva provocato una notevole quantità di fumi che avevano invaso i piani superiori della palazzina nella quale si trovavano ristrette 96 detenute sotto il controllo di 7 vigilatrici.

Considerata la gravità della situazione, venne chiesto l'intervento di altre squadre e si dette inizio all'opera di spegnimento del fuoco, che venne domato nel corso di pochi minuti.

Immediatamente iniziò l'opera di soccorso all'interno del padiglione femminile, proseguita con l'intervento di altre due squadre frattanto sopraggiunte.

Dentro la palazzina furono rinvenute due vittime sulla seconda rampa di scale, due vittime nell'atrio del primo piano, due in fondo al corridoio dell'atrio.

Altre due vittime furono rinvenute al secondo piano, nell'atrio ed in fondo al corridoio, ed infine altri corpi inanimati di donne vennero rinvenuti in alcune celle del primo e del secondo piano.

Contemporaneamente si svolse l'evacuazione dell'intero edificio, peraltro ostacolata dalla difficoltà di reperire le chiavi delle celle; al termine delle operazioni furono poste in salvo, anche con l'ausilio del personale carcerario, tutte le altre donne ed un bambino, figlio di una delle detenute; 24 furono ricoverate in vari ospedali cittadini per intossicazione da ossido di carbonio e 6 agenti di custodia e 2 vigili del fuoco riportarono lesioni durante l'opera di salvataggio.

Successivamente le vittime furono identificate nelle detenute BUZZEGOLI Ivana, CAPOGRECO Rosa, CRAVERO Paola, DENTICO Lauretta, DE SIMONE Lidia, DRAGUTINOVIC Morsula, HROVAT Editta, TRAIKOVIC Radica (alias VERBANOVIC Vesna), tutte in età compresa tra i 19 e 41 anni, e nelle vigilatrici CASAZZA Maria Grazia e SISCA Rosetta di 37 e 28 anni, mentre un'altra detenuta ricoverata in ospedale e precisamente PALLA Beatrice di 23 anni morì 20 giorni dopo a causa delle lesioni riportate.

Alle ore 0.30 di quella notte il P.M. dott.ssa D'ALOISIO recatasi sul posto ad incendio ormai domato, constatò che sotto il porticato dove era divampato il fuoco, vi erano residui di materiale combusto in forma di cenere solida e di sostanza gommosa. A ridosso del muro erano ancora visibili residui non completamente bruciati di materassi identici ad altri che erano stati accatastati al centro del cortile prospiciente la palazzina.

Nella parte del porticato rimasto indenne dal fuoco erano ammassati piccoli televisori e materiale metallico.

La facciata nord della palazzina dove si aprono le finestre di alcune celle era completamente annerita dal fumo e, come risulta anche dalla documentazione fotografica agli atti, i vetri originariamente presenti dietro le sbarre erano rotti e le stesse grate notevolmente deformate dal calore.

All'interno dell'edificio le plafoniere di illuminazione risultavano fuse o totalmente distrutte, deformati gli apparecchi televisivi presenti, e tutti i locali, sia al primo che al secondo piano, presentavano depositi di residui carboniosi alle pareti e al soffitto.

 

Il P.M. avviò immediatamente le indagini nel corso delle quali fu presto accertato che il materiale bruciato era costituito da 848 materassi, parte di una fornitura consegnata due settimane prima al carcere; tali materassi erano stati accatastati sotto il porticato del padiglione femminile in attesa di essere collocati nelle celle, in sostituzione di quelli vecchi che stavano per perdere le qualità ignifughe in quanto prossimi alla scadenza.

Più precisamente, i materassi coinvolti nell'incendio erano stati consegnati in due "tranches" di 420 e 428 unità, rispettivamente il 16 ed il 18 maggio 1989, in esecuzione di un apposito contratto di appalto del 15.10.88 intercorso tra la ditta fornitrice, la "ADRIATICARESINE" di GAMBINO Francesco e il Direttore dell'Ufficio IX - Reparto contratti della Direzione Generale degli Istituti di Prevenzione e pena del Ministero di Grazia e Giustizia.

Tale contratto , stipulato per soddisfare le esigenze di tutte le carceri italiane, prevedeva appunto l'invio di mille unità al carcere "Le Vallette" di Torino.

Degli 848 materassi consegnati, solo 60 si salvarono dall'incendio e posti sotto sequestro dal P.M. furono oggetto di apposita perizia tecnica volta ad accertare le caratteristiche ignifughe dei materassi oltre alle cause e modalità dell'incendio.

 

Quanto alla ricostruzione della dinamica dei fatti, una prima indicazione fu offerta dal maresciallo GUADAGNI Salvatore, comandante degli agenti di custodia del carcere, il quale nella relazione di servizio presentata al direttore del carcere dott. SURACI Giuseppe in data 3.6.89, dichiarò che da sommarie indagini svolte, con tutta probabilità la causa dell'incendio andava ricondotta "alla possibilità che qualche detenuta avesse incautamente lasciato cadere fogli incendiati o analoghi artifizi che spesso servono da segnalazioni con le sezioni maschili".

Il 10.6.89 il P.M. eseguì un'ispezione nel carcere "Le Vallette" al fine di visionare tutti i locali adibiti a magazzino o deposito per destinazione originaria o necessità sopravvenuta, nonché tutti i locali vuoti all'interno della struttura.

(analoga indagine venne condotta lo stesso giorno presso il carcer "Le Nuove").

Al termine delle operazioni risultarono pressoché vuoti 32 piccolissimi locali privi di luce annessi alla barberia (solitamente utilizzati per il deposito delle brande e dei materassi dei detenuti in uscita), ed un vasto locale sottostante la seconda caserma degli agenti di custodia, da poco vuotato e sottoposto a perizia antincendio perché a rischi specifico in quanto destinato ad autorimessa.

Frattanto fu data comunicazione giudiziaria in ordine ai reati di cui agli artt. 449 e 589 c.p. al direttore del carcere "Le Vallette" dott. Giuseppe Suraci, al maresciallo comandante Salvatore Guadagni e, sulla base di quanto emerso dall'inchiesta amministrativa conclusa il 16.6.89, tale comunicazione fu estesa altresì al ragioniere capo del carcere Marcello Condemi e alla ragioniera contabile del materiale Graziella Vullo (che all'epoca del fatto sostituiva la ragioniera titolare Scannella).

Analoga comunicazione giudiziaria fu inviata a MARCELLO Giuseppe, ispettore degli istituti di prevenzione e pena per adulti dei distretti di Genova e Torino e a GAMBINO Francesco, titolare della ditta "ADRATICA RESINE" fornitrice dei materassi.

Nelle more del procedimento si costituirono parti civili i prossimi congiunti della vittime BUZZEGOLI Ivana, CAPOGRECO Rosa, DENTICO Lauretta, HROVAT Editta, CASAZZA Maria Grazia.

Dalla perizia collegiale medico-legale frattanto disposta risultò che la causa della morte delle 11 vittime era attribuibile al combinarsi di azioni tossiche dovute all'ossido di carbonio e asfittiche, dovute all'inalazione nelle vie aeree di materiale carbonioso, e dunque certamente all'azione di fumi tossici sprigionati dai materassi durante l'incendio.

 

Successivamente, sulla base delle dichiarazioni rese dagli indiziati e delle deposizioni testimoniali raccolte dal P.M. presso il personale di custodia e presso le detenute, cominciò a prendere forma una possibile ricostruzione degli avvenimenti che avevano preceduto lo scoppio dell'incendio.

In particolare, la ragioniera Graziella Vullo sentita il 21.4.90, ammise di aver disposto lei stessa la collocazione dei materassi sotto il porticato del padiglione femminile, ma negò risolutamente di averlo fatto di propria iniziativa.

La donna, in servizio presso "Le Vallette" da soli 4 mesi ed in sostituzione di una collega in congedo per maternità, precisò che la struttura carceraria era completamente priva di idonei magazzini e pertanto da tempo era invalso l'uso di stipare il materiale in arrivo sotto i porticati dei padiglioni a cusa della cronica mancanza di spazio.

Aggiunse la Vullo che, quando arrivò la lettera del Ministero (c.d. ministeriale) che preannunciava l'invio dei mille materassi si recò presso l'ufficio del direttore per discutere della loro collocazione; infatti, non essendovi magazzini disponibili sarebbe stato necessario trovare una sistemazione altrove e tale decisione poteva essere adottata solo dal direttore o dal maresciallo Guadagni che conoscevano la struttura del carcere e ne avevano la gestione.

Vi fu pertanto in quell'occasione un incontro presso l'ufficio del direttore, ed in presenza di questi e del maresciallo Guadagni si discusse dell'arrivo dei materassi. Nel primo interrogatorio la donna affermò di non ricordare se era stato il maresciallo o il direttore a decidere la sistemazione del materiale sotto il porticato del padiglione femminile; nel secondo invece dichiarò che in quell'incontro nessuna risoluzione fu presa ed ogni decisione rimandata.

Successivamente, continua la VULLO, il giorno della consegna della fornitura, recatasi nuovamente dal direttore incontrò lungo la strada il Guadagni, al quale chiese dove mettere il materiale; fu lo stesso GUADAGNI che le indicò i porticati sotto il padiglione femminile o sotto il padiglione " C " non essendovi spazio al trove.

Fu così che la VULLO, con l'aiuto degli agenti Mulas e Tabacco dei quali aveva chiesto la collaborazione al maresciallo GUADAGNI, fece scaricare e depositare i materassi sotto il porticato del padiglione femminile.

Il 18-12-1990, interrogata dal P. M. circa l'uso delle detenute di fare segnalazioni luminose con carte infuocate ai detenuti ristretti nel padiglione di fronte, la VULLO dichiarò di non esserne mai stata a conoscenza, anche perché terminando di lavorare alle 14,00, non poteva sapere quello che accadeva nel carcere durante le ore notturne.

Le dichiarazioni della VULLO trovano solo in parte riscontro in quanto affermò il maresciallo GUADAGNI negli interrogatori dell'8-6-1989, del 6-6-1990 e del 21-12-1990.

In quella sede il maresciallo ammise soltanto di aver appreso dell'arrivo dei materassi in occasione di un incontro presso l'ufficio del direttore. Negò decisamente di aver discusso della loro sistemazione, di avere incontrato la VULLO il giorno della consegna, di averle suggerito la collocazione sotto i porticati, di averle inviato gli agenti Mulas e Tabacco per le operazioni di stivaggio, ed insomma di avere deciso alcunchè.

Aggiunse di non aver saputo più nulla dei materassi fino al giorno in cui li vide già accatastati sotto il porticato, dove peraltro ritenne logico che finissero, data la mancanza di locali.

Negli interrogatori il maresciallo si limitò ad una minuziosa e puntigliosa elencazione delle proprie competenze, che non avevano alcun riguardo alla gestione e collocazione del materiale in arrivo al carcere, di cui unica responsabile era la ragioniera VULLO, per legge suo superiore gerarchico.

Peraltro, neppure la custodia e il controllo delle detenute erano di sua competenza, ma a norma del regolamento penitenziario della vigilatrice capo, tale suor Lucia ARMATI.

Quanto alle segnalazioni fatte con il fuoco tra i bracci di detenzione, il maresciallo affermò di non averne saputo nulla, altrimenti ne sarebbe stato avvertito il direttore come in una precedente occasione in cui, a seguito del gran vociare tra i vari padiglioni con notevole disturbo per gli operatori ed il personale, vi era stata una segnalazione in merito, ed il direttore aveva assunto adeguati provvedimenti.

Il dott. SURACI, direttore del carcere, sentito a più riprese il 23.10.89, il 12.06.90 e il 21.12.90 negò decisamente che nel suo ufficio ed in sua presenza si fosse mai svolto un incontro con la VULLO ed il GUADAGNI in ordine al problema della collocazione dei materassi. Sapeva che sarebbero dovuti arrivare in quanto ne aveva sollecitato l'ordinazione (poiché quelli in uso erano prossimi alla scadenza) ed aveva smistato egli stesso alla ragioneria, dopo averla siglata, la ministeriale che ne preannunciava l'arrivo.

Tuttavia, non ne aveva saputo più nulla né aveva visto dove erano stati collocati, poiché in quei giorni era spesso impegnato ad Aosta quale membro di commissione di un concorso.

D'altro canto, puntualizzò il SURACI, è la ragioneria che si occupa della gestione e della sistemazione dei materiali pericolosi, e sarebbe assurdo, con tutto ciò che quotidianamente arriva in un carcere, che ci si rivolgesse al direttore ad ogni consegna; tant'è vero che la contabile del materiale non ha alcun obbligo di informare il direttore che una fornitura è stata consegnata.

Peraltro, dichiarò sempre il SURACI, nel carcere vi era una carenza totale di magazzini, che egli aveva più volte segnalato al ministero chiedendo provvedimenti in merito, ed era per queste ragioni che da tempo si solevano adibire a deposito del materiale i porticati.

Anche nel caso dei materassi, ammise il SURACI, aveva immaginato che sarebbero stati posti sotto i porticati; tuttavia, se fosse stato informato del luogo prescelto (il porticato del padiglione femminile), si sarebbe senz'altro opposto in quanto là vicino si trova una SERRA di ROSE, orgoglio del carcere e meta obbligata di coloro che vengono in visita alle "Vallette", e la vista dei materassi avrebbe certamente danneggiato l'immagine della struttura.

Interrogato circa le funzioni dei dipendenti della struttura carceraria, il SURACI affermò che la VULLO, pur avendo il compito di sistemare e conservare il materiale, qualora avesse avuto bisogno di reperire spazi all'interno della cinta carceraria data l'assenza di magazzini, avrebbe dovuto senz'altro rivolgersi al maresciallo GUADAGNI, l'unico a conoscenza della struttura interna del carcere e di cosa si trovasse nei vari locali. Aggiunse che probabilmente i locali annessi alle barberie non erano stati utilizzati per evitare che la VULLO dovesse attraversare ad ogni prelievo i bracci detentivi; quanto al carcere delle "Nuove", era impensabile una sua utilizzazione come magazzino trattandosi di struttura dissestata ed in disuso; anche il locale con futura destinazione ad autorimessa andava scartato perché qualificato a rischio specifico e sotto perizia antincendio.

In ordine alle segnalazioni con il fuoco tra i bracci detentivi, il SURACI dichiarò che nessuno gliene aveva mai dato notizia, neppure informalmente, altrimenti sarebbe sicuramente intervenuto come era già accaduto in occasione di altri diversi episodi .Infine, precisando le competenze sulla custodia ed il controllo delle detenute, il SURACI affermò che suor Lucia ARMATI, pur essendo nominalmente la vigilatrice-capo del settore femminile, aveva chiesto di essere esautorata da tali funzioni e di fatto non le esercitava, preferendo dedicarsi all'assistenza religiosa delle detenute piuttosto che alla loro sorveglianza.

Peraltro, nonostante egli avesse riproposto al Ministero, anche in epoca successiva all'incendio,il problema del controllo delle detenute, non venne adottata alcuna formale soluzione, e gli fu risposto che le funzioni di custodia dovevano essere demandate al maresciallo comandante senza distinzioni tra uomini e donne.

Il ragioniere capo CONDEMI, superiore gerarchico della VULLO con funzioni di revisione e controllo sull'operato di questa, sentito in due occasioni, il 21.04.90 ed il 21.12.90, escluse assolutamente di aver deciso la collocazione dei materassi o comunque di aver partecipato a tale decisione.

Ammise tuttavia di essere stato a conoscenza dell'arrivo della fornitura per aver letto la ministeriale pervenutagli dalla direzione del carcere, e di avere poi visto i materassi già accatastati sotto il porticato del padiglione femminile.

Aggiunse peraltro che, pur avendo poteri di supervisione e controllo sull'operato della VULLO in ordine alle modalità di conservazione del materiale, non trovò nulla da ridire sulla collocazione dei materassi, posto che di lì a poco sarebbero stati utilizzati, tenuto anche conto dell'assenza di magazzini all'interno del carcere.

Affermò inoltre che la soluzione adottata non gli sembrò per nulla pericolosa, in quanto sapeva che si trattava di materiale ignifugo.

Peraltro il CONDEMI confermò che, qualora fosse necessario collocare il materiale in un luogo posto entro la cinta carceraria e non destinato specificamente a magazzino, il contabile non può disporre autonomamente ma deve rivolgersi al direttore; negò altresì che tra il personale contabile e gli agenti di custodia vi fosse un rapporto di natura gerarchica.

Quanto poi alla possibile utilizzazione di altri locali vuoti per la collocazione dei materassi, il CONDEMI confermò che il vano sito sotto la caserma degli agenti di custodia era stata destinato ad autorimessa e si trattava di locale a rischio specifico di incendio, mentre gli altri locali non erano comunque destinati a magazzino.

Infine dichiarò di non aver mai saputo nulla di segnalazioni fatte con il fuoco dalle detenute anche perché terminava il lavoro alle 14.00 e quindi lasciava il carcere.

Nel corso delle indagini vennero anche sentiti, in qualità di testi, tra gli altri: suor Lucia ARMATI, superiora della sezione femminile, PINTOR Maria Grazia, all'epoca dei fatti vigilatrice penitenziaria presso il braccio femminile e GIGLIO Assunta, anch'essa vigilatrice.

Suor Lucia, nella deposizione del 05.10.90, dichiarò che era usanza di alcune detenute, in particolare delle zingare, segnalare la propria presenza ai detenuti maschi accendendo della carta o degli asciugamani che facevano volare fuori dalla finestra. Aggiunse la religiosa che, pur non avendo mai assistito di persona a simili episodi, spesso le capitava al mattino di trovare nel cortile pezzi di carta o stracci bruciati; tuttavia non aveva mai presentato un rapporto scritto al direttore, ritenendo che, data l'evidenza della cosa, il maresciallo GUADAGNI lo avesse già informato.

La PINTOR, sentita il 20.10.90, affermò di non aver mai visto detenute fare delle segnalazioni dalle celle utilizzando stracci infuocati, bensì accendini; di tale circostanza non ne sentì mai parlare, né da suor Lucia né dalle colleghe, e neppure riferì al direttore, limitandosi a richiamare le detenute. Quanto ai rapporti con suor Lucia ARMATI, la PINTOR dichiarò che suor Lucia non aveva la funzione di vigilatrice capo, e se sorgevano problemi ci si rivolgeva al direttore.

Anche GIGLIO Assunta, sentita il 20.10.90, dichiarò di avere visto spesso le detenute fare delle segnalazioni dalle celle usando sia accendini che pezzi di carta arrotolati e infuocati, che le donne sporgevano fuori dalla finestra e poi gettavano nel cortile. Aggiunse di non sapere se la cosa era stata segnalata al direttore.

La GIGLIO, in servizio la notte dell'incendio, fornì anche utili informazioni sulla dinamica dei fatti e sull'organizzazione interna del carcere, in particolare sul complicato sistema di apertura delle celle, in base al quale alle 22.00, dopo la chiusura delle porte blindate, la chiavi venivano custodite in una scrivania posta nella rotonda di ciascun piano.

Dopo la mezzanotte tutte le chiavi venivano portate alla rotonda del pianterreno e riposte in una bacheca chiusa a chiave.

Nel corso delle indagini vennero anche sentiti molti detenuti ristretti nel padiglione di fronte a quello femminile; numerosi di questi confermarono che vi era l'uso di comunicare con le detenute utilizzando degli accendini con i quali si tracciavano delle lettere nell'aria ma esclusero che si fosse mai ricorso a carte o stracci incendiati.

 

Frattanto, il 18.01.1990, venne depositata la perizia tecnica collegiale, nel corso della quale venne anche effettuata una prova di combustione su scala reale, utilizzando parte dei materassi rimasti indenni dal fuoco. Le conclusioni del collegio peritale possono così riassumersi:

 

1)  Analisi dei materiali costituenti i materassi.

 I materassi coinvolti nell'incendio risultarono costituiti da resina poliuretanica espansa; erano imballati singolarmente in un involucro di polietilene trasparente e quindi a gruppi di 4 - 5 in un secondo involucro di polietilene opaco, in accordo con il capitolato di fornitura.

Da un punto di vista delle proprietà ignifughe, i materassi erano caratterizzati da un modesto grado di ritardo alla fiamma, ma comunque conformi al capitolato di fornitura per quanto riguarda la loro reazione al fuoco e la composizione del materiale.

Bruciando svilupparono fumi altamente tossici per la contemporanea presenza di elevatissime quantità di fuliggine, contenenti acido cianidrico e acido cloridrico, elevatissime concentrazioni di anidride carbonica e di altre sostanze gassose.

In presenza di tali condizioni, la morte sopraggiunge nel giro di pochi minuti.

Per altro, il capitolato d'appalto allegato al contratto di fornitura della " ADRIATICA RESINE " si riferisce a " lastre di resina espansa per materassi per detenuti ininfiammabili ed autoestinguenti ", e contiene una clausola del seguente tenore: " non sarà ammessa alcuna tolleranza sulle condizioni tecniche, per quanto riguarda l'autoestinguenza, la prova dell'infiammabilità, l'opalescenza e la tossicità dei fumi "

Tuttavia, notano i periti, il capitolato in questione "risulta pericolosamente carente per quanto riguarda il grado di sicurezza dei materassi " , e ciò si ricava da alcune precise osservazioni:

a ) nel capitolato si dice che il materiale dovrà possedere le caratteristiche delle norme FAR 25853 PUNTO " B ", per quanto riguarda l'autoestinguenza.

b) Si specifica inoltre che " i gas di combustione non dovranno infiammarsi ".

Tali prescrizioni, affermano i periti, documentano " la scarsa familiarità dell'estensore del capitolato con i problemi della infiammabilità dei materiali polimerici " e " rivela una scarsa conoscenza del problema " ; infatti, le norme FAR sopra richiamate riguardano i requisiti che deve possedere il materiale antincendio negli aerei, laddove gli spazi sono così piccoli e i sistemi di sicurezza e rilevazioni sono così sofisticati che è possibile individuare un incendio nelle sue primissime fasi, quando le quantità di calore in gioco sono basse; le norme FAR invece sono del tutto inadeguate se riferite ad un carcere.

Quanto poi alla frase " i gas di combustione non dovranno infiammarsi ", si tratta di un'espressione priva di significato scientifico, in quanto i prodotti gassosi di una combustione completa non sono ulteriormente ossidabili e quindi infiammabili.

Inoltre, la prova di combustione su scala reale condotta su 30 materassi superstiti ha dimostrato che, a soli 57 secondi dall'innesco, le fiamme risultavano notevolmente sviluppate, e circa 4 minuti dopo, l'incendio poteva ritenersi divampante.

Emerge sempre dalla perizia che la scelta del poliuretano per la costruzione di materassi autoestinguenti si è rivelata da tempo particolarmente infelice, come dimostra una ricerca eseguita negli U.S.A. già nel lontano 1979, secondo la quale il poliuretano ( miscelato e non con altre sostanze ritardanti  alla fiamma ) possiede il più alto grado di pericolosità di incendio tra i così detti materiali autoestinguenti.

 

2) Sistemi di sicurezza e di allarme antincendio.

La struttura era dotata di impianto estinzione incendi con idranti a colonna, esterni agli edifici, ed idranti a muro all'interno. Fu accertato che nel carcere mancava un sistema di rilevazione ed intervento automatico di estinzione incendi.

I vani scala non erano a tenuta di fumo.

Nel vano scala principale era installato un generico sistema di allarme ad azionamento manuale, questo però era disattivato da tempo. Né all'interno delle celle, né in alcun altro luogo del braccio detentivo erano installati rilevatori di fumo o di fiamma. Infine, notano i periti, ogni cella era dotata di due porte ( cancello e blindo ), ad azionamento manuale con chiavi diverse, e mancava l'uscita dai corridoi all'estremo dei bracci.

 

3) Cause e dinamica dell'incendio.

Le cause furono individuate dai periti nei materiali di cui erano composti i materassi, facilmente combustibili, e nell'involucro di polietilene in cui erano avvolti, altamente infiammabile.

Fu sufficiente un debole innesco per provocare una fiamma localizzata che si estese poi a tutta la massa, ma fu ritenuto altamente improbabile che il fuoco fosse stato provocato da una cicca accesa, o da braci residue di altro fuoco, o da scintillio elettrico.

L'ipotesi suggerita è quella che si rivelò la più probabile fin dall'inizio delle indagini: infatti, affermano i periti, un oggetto infiammato, quale ad esempio un giornale acceso che fosse  finito sui materassi, avrebbe provocato l'incendio.

Una volta acceso in un punto, il fuoco si propagò rapidamente in tutte le direzioni, grazie al film di polietilene che avvolgeva i materassi.

Inoltre, la presenza di una leggera brezza favorì certamente la combustione ed il propagarsi delle fiamme, e già a qualche minuto dall'innesco, si aveva un rilevantissimo sviluppo di fumi altamente tossici. Tali fumi densi e caldissimi, risalirono rapidamente lungo il porticato, molto prima che il fuoco assumesse le caratteristiche di " vampata ", e cioè dopo 5 minuti dall'innesco. Per " effetto camino " il fumo penetrò lungo la scala principale ed invase in breve le celle sovrastanti il porticato, frantumando i vetri delle finestre a causa dell'elevatissima temperatura. Un contributo non trascurabile alla penetrazione del fumo nelle celle è attribuibile infine alla presenza di mensole orizzontali sopra le finestre, che ostacolarono il flusso naturale verso l'alto.

 

Terminata l'istruzione sommaria, il P.M. in data 26. 01. 91 presentò al Giudice Istruttore le proprie conclusioni, chiedendo il rinvio a giudizio di SURACI Giuseppe, GUADAGN Salvatore, CONDEMI Marcello e VULLO Graziella per i reati di cui agli artt 449 e 589 c.p. ( e sentenza di non luogo a procedere per intervenuta amnistia in ordine al reato di cui all'art. 590 c.p.), nonché sentenza di non doversi procedere nei confronti di MARCELLO Giuseppe per non aver commesso il fatto, e decreto di archiviazione degli atti nei confronti di GAMBINO Francesco.

Il Giudice Istruttore, con sentenza - ordinanza del 10. 04. 91, sulle difformi conclusioni del P.M. rigettò la richiesta di archiviazione nei confronti di GAMBINO Francesco ordinando la trasmissione degli atti al Procuratore della Repubblica per quanto di sua competenza; sulle conformi richieste avanzate dal P.M., dichiarò non doversi procedere nei confronti di MARCELLO Giuseppe in ordine ai reati a lui ascritti e non doversi procedere contro SURACI, GUADAGNI, VULLO e CONDEMI per il reato di cui all'art. 590 c.p. per essere lo stesso estinto per intervenuta amnistia; con il medesimo provvedimento ordinò il rinvio a giudizio dinanzi a questo Tribunale di SURACI Giuseppe, GUADAGNI Salvatore, CONDEMI Marcello e VULLO Graziella per i reati di cui in epigrafe.

All'udienza del 27.1.92 si costituirono parti civili  altri congiunti delle vittime DENTICO Loreta, HROVAT Editta e Capogreco Rosa , ed il Tribunale rinviò il processo al 9.11.92 al fine di consentire la definizione delle trattative in corso tra il Ministero di Grazia e Giustizia e i familiari delle vittime in ordine al risarcimento dei danni patiti per la perdita delle loro congiunte.

All 'udienza del 9.11.92 gli imputati SURACI Giuseppe ,GUADAGNI Salvatore ,VULLO Graziella e CONDEMI Marcello chiesero di essere ammessi al giudizio abbreviato a norma dell'art. 247 disp. trans. c.p.p.; il P.M. si riservò di prestare il proprio consenso entro i successivi 5 giorni, e il processo fu rinviato al 17.11.92.

Il 14.11.92 il P.M. fece pervenire il proprio consenso scritto al rito abbreviato e all'udienza del 17.11.92, ritiratesi le parti civili dal processo, il Tribunale, ritenuto di poter decidere allo stato degli atti, ordinò la prosecuzione del giudizio nelle forme del rito abbreviato.

Successivamente il P.M. pronunciò la propria requisitoria e dopo l'interrogatorio degli imputati, ebbe luogo la discussione finale in esito alla quale P.M. e difensori conclusero come da verbale di udienza allegato.

 

I fatti oggetto del presente giudizio, tristi e dolorosi poiché quella tragica notte del 3 giugno 1989 persero la vita , soffocate dal fumo 11 persone, pongono altresì delicatissimi problemi da sempre al centro del dibattito dottrinale e giurisprudenziale.

Pertanto, in via preliminare, si ritiene opportuno illustrare la struttura del delitto colposo contestato agli attuali imputati, secondo l’opinione più seguita in giurisprudenza e dottrina.

A norma dell’art.43 c.p. il delitto “ è colposo, o contro l’intenzione, quando l’ evento, anche se prevenuto, non è voluto dall'agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.”

Ne consegue che la responsabilità colposa consiste nella realizzazione involontaria di un fatto di reato attraverso la violazione di regole doverose di condotta, fatto che l’agente poteva evitare mediante l’osservanza, che poteva da lui pretendersi, di tali regole.

Pertanto, seguendo un’impostazione teorica che abbia soprattutto il pregio della chiarezza in una materia di per sè delicata e complessa, gli elementi costitutivi della colpa nel reato colposo possono così riassumersi:

1) Mancanza di volontà del fatto materiale tipico;

2) Inosservanza delle norme cautelari di condotta, volte a prevenire il verificarsi di eventi del tipo di quello in concreto verificatosi;

3) Attribuibilità di tale inosservanza al soggetto agente, nel senso che a questi possa muoversi un rimprovero per non aver attivato i propri poteri di controllo adottando un comportamento conforme alla norma cautelare di condotta, poteri che poteva e doveva attivare al fine di evitare l' evento dannoso.

Mentre il concetto sub 1) è di tutta evidenza e non presenta particolari problemi, è opportuno precisare i concetti di cui ai punti 2) e 3) per le implicazioni che comportano nel presente giudizio.

In ordine al punto 2) si osserva che la responsabilità colposa trova il suo fondamento nell'inosservanza di norme cautelari di condotta, volte a prevenire il verificarsi di determinati eventi dannosi.

Infatti, non qualsiasi evento derivante dalla violazione di una norma cautelare potrà essere imputato all'agente, ma solo l'evento del tipo di quelli che la norma violata tende a prevenire.

Le norme prudenziali possono avere una fonte sociale o giuridica, e su questa base si opera la nota distinzione tra colpa generica e specifica, nel senso che ricorre la colpa generica quando siano state violate regole di diligenza, prudenza o perizia, mentre ricorre la colpa specifica allorchè siano state violate regole giuridiche o scritte, il cui contenuto è dettato una volta e per tutte dall'autorità che pone la regola stessa.

Le regole di diligenza, prudenza e perizia sono regole di esperienza, elaborate sulla base di situazioni di pericolo da tempo sperimentate, e adottando le quali l' evento lesivo è prevenibile ed evitabile.

E' noto che l'individuazione della responsabilità colposa è più semplice nel caso in cui sia stata violata una norma precauzionale legalmente predeterminata, mentre nel caso dell'inosservanza di una generica misura cautelare, rimane affidato al giudice accertare se vi è stato un comportamento illecito, nel rispetto del principio di tassatività della norma penale.

A tal fine, la misura della diligenza, della prudenza e della perizia richieste, deve essere valutata sulla base del parametro oggettivo dell' "homo eiusdem condicionis et professionis", vale a dire con riferimento al modello di agente che svolga lo stesso ufficio, la stessa professione, lo stesso mestiere dell'agente concreto.

Ciò comporta che gli standards obbiettivi di diligenza variano a seconda della sfera sociale e professionale di appartenenza dell'agente concreto, tenendo però conto di sue eventuali conoscenze superiori rispetto a quelle del tipo di appartenenza, poiché in tal caso sarà esigibile una diligenza maggiore.

 

Finora si è parlato di norme a contenuto cautelare, di obbligo di diligenza come obbligo di conformare il proprio comportamento alla norma cautelare, e di "agente modello" come parametro per valutare se la condotta concretamente tenuta sia quella dovuta.

Ma è di tutta evidenza che si potrà muovere un rimprovero all'agente per non aver osservato la regola di condotta solo se tale osservanza poteva da lui pretendersi.

Da questo punto di vista è insostituibile il criterio della prevedibilità del pericolo, perché solo se una situazione di pericolo è prevedibile sorge l'obbligo di comportarsi prudentemente, ma soprattutto è possibile individuare la regola cautelare da adottare per scongiurare il verificarsi dell'evento lesivo.

Infatti non è pensabile immaginare una regola cautelare che preesista al giudizio di prevedibilità: è di elementare comprensione e accade continuamente nella vita di ciascuno, che prima ci si renda conto della situazione in cui si opera, e poi ci si regoli di conseguenza.

Ciò significa che non ha alcun senso parlare di norma cautelare astrattamente intesa se non ci si rappresenta ( o non sia possibile rappresentarsi ) la situazione in base alla quale tale regola deve essere adottata.

Sotto questo profilo, è indubbio che la prevedibilità del pericolo deve essere accertata con un giudizio ex ante ed in concreto, tenendo conto di tutte le circostanze in cui il soggetto si è trovato ad operare e delle conoscenze in suo possesso.

Una volta accertata la situazione oggettiva e soggettiva in cui si trovava l'agente concreto, dovrà valutarsi se la condotta da questi tenuta sia stata conforme al parametro dell'agente modello eiusdem condicionis et professionis.

Se si prescindesse dal criterio della prevedibilità del pericolo, la norma cautelare avrebbe a contenuto l'obbligo di fare tutto quanto è assolutamente necessario ad impedire l'evento, quasi a vietare puramente e semplicemente la causazione di un certo risultato, e la naturale conclusione di un simile ragionamento sarebbe l'attribuzione del fatto al soggetto sulla base del mero nesso di causalità materiale tra condotta ed evento, in definitiva a titolo di responsabilità oggettiva.

Orbene, dato per acquisito che il ricorso al criterio della prevedibilità (o rappresentabilità) del pericolo è irrinunciabile ai fini dell'imputazione colposa, si pone il problema della "descrizione dell'evento prevedibile", di stabilire cioè se l'agente concreto debba prevedere l'evento così come storicamente si è verificato, o più semplicemente, un evento del genere di quello prodottosi.

A questo riguardo va precisato che nel giudizio di prevedibilità non deve necessariamente rientrare l'evento così come si è storicamente verificato, con tutte le sue modalità attuative, essendo sufficiente che un fatto simile a quello accaduto fosse prevedibile.

Occorre cioè operare una generalizzazione dell'evento così come si è determinato, ed accertare se l'agente concreto, nella situazione in cui si trovò ad operare, poteva e doveva prospettarsi la verificazione di un evento simile a quello prodottosi, come conseguenza possibile della propria condotta (cfr. Ap. Milano, 28. 1. 80, Imp. Orefice e altri).

 

Sulla base dei criteri di valutazione sopra esposti, verranno di seguito esaminate le posizioni dei singoli imputati.

 

1) VULLO  Graziella è accusata di aver colposamente cagionato l'incendio e dunque la morte delle 11 persone poiché, in qualità di contabile del materiale, ordinò la collocazione degli 800 materassi andati a fuoco sotto il porticato del braccio di detenzione femminile.

Prima di valutare se la sistemazione del materiale in quel luogo fosse o meno una soluzione necessitata, occorre accertare in base ai predetti criteri di valutazione, se possa muoversi alla VULLO un rimprovero per non essersi prospettata, nel momento in cui agì, che i materassi avrebbero potuto incendiarsi e provocare la morte di qualcuno.                

Era prevedibile l'incendio da parte della VULLO e pertanto il suo comportamento fu penalmente imprudente nel collocare i materassi sotto il porticato del padiglione femminile?                                                        Sicuramente no, poiché del tutto imprevedibili erano sia l'evento incendio, sia le particolari modalità che lo determinarono.

Infatti, per quanto possa ritenersi astrattamente prevedibile l'evento incendio all'interno di un carcere, certamente non lo è l'incendio di materassi ignifughi, di materiale cioè che, per definizione, non deve incendiarsi.

In tale situazione concreta, che escludeva la sussistenza del pericolo dell'incendio, alla VULLO non può essere attribuita la mancata rappresentazione della possibilità dell'evento quale conseguenza della propria condotta.

Del resto, come affermano i periti, i materassi in oggetto "non sono ignifughi nel senso vero e corrente del termine, cioè nell'accezione di non combustibile", e anzi "bruciano abbastanza rapidamente in aria" e sono "assai modestamente ritardati alla fiamma" (cfr. perizia allegata).

Dunque, se per spiegare come sia possibile che materassi definiti ignifughi siano andati a fuoco, è stata necessaria una perizia ed una prova di combustione su scala reale, appare davvero irragionevole pretendere che la VULLO prevedesse ciò che solo una perizia, a fatto avvenuto, ha accertato.

Un'ulteriore considerazione relativa alle modalità di scoppio dell'incendio, porta ad escluderne la prevedibilità da parte della VULLO.

Infatti, scartate sulla base della perizia le ipotesi che a scatenare l'incendio siano state cicche accese, braci residue di altro fuoco o guasti elettrici, sembra certo (come è stato dimostrato anche nell'esperimento condotto dai periti) che l'innesco fu provocato da un oggetto acceso fatto cadere dall'alto sui materassi, probabilmente nel corso di quelle segnalazioni luminose che, come hanno riferito in istruttoria alcuni testi (cfr le deposizioni di suor Lucia ARMATI e della vigilatrice GIGLIO), le detenute si scambiavano con i detenuti del padiglione maschile.

Ora, tali modalità di sviluppo dell'incendio sono talmente particolari che non possono non influire in un giudizio di prevedibilità dell'evento, anche in termini di attualità e concretezza di un pericolo che non solo la VULLO, ma anche la persona più prudente e coscienziosa non poteva assolutamente prospettarsi, se all'oscuro dei sistemi praticati dalle detenute per comunicare con il padiglione maschile.

E negli atti del processo non vi è prova che la VULLO, occupata altrove alcuni giorni della settimana e impegnata alle Vallette fino alle 14.00, fosse al corrente dei pericolosi giochi con il fuoco praticati dalle detenute.

Per tali motivi dunque, non può ritenersi prevedibile l'evento quando tra questo ed il comportamento dell'agente si inseriscono azioni consapevoli o inconsapevoli di terzi non ragionevolmente prevedibili e probabili, che abbiano contribuito alla realizzazione del fatto.

Dopo quanto è stato esposto, è del tutto irrilevante valutare se la collocazione dei materassi sotto il porticato del padiglione femminile fu una soluzione necessitata (a causa della mancanza di idonei magazzini), o sarebbe stato possibile ed opportuno sistemare il materiale altrove.

In conclusione, VULLO Graziella deve essere assolta dai reati a lei ascritti perché il fatto non costituisce reato in quanto l'evento non era da lei prevedibile.

 

2) CONDEMI Marcello è imputato del delitto di cui agli artt. 113, 449, 423, 589 primo e terzo comma c.p. perché, in qualità di ragioniere capo decise  o comunque consentì la collocazione dei materassi sotto il porticato del padiglione femminile in tal modo cooperando alla condotta pericolosa della VULLO dalla quale derivarono l'incendio dei materassi e la morte di11 persone.

In via preliminare si osserva che gli artt. 729 e 730 del regolamento generale per gli stabilimenti carcerari (r. d. 1908 / 1920) riguardano le competenze del ragioniere capo e le sue responsabilità in ordine alla migliore conservazione del materiale all'interno del carcere; non sono dunque norme cautelari idonee a fondare una imputazione per omicidio colposo, in quanto non sono dirette a prevenire il verificarsi di danni alla persona.

Resta pertanto da vedere se il CONDEMI, nell'esercizio del suo potere di supervisione dell'operato della VULLO, abbia trasgredito una generica norma di diligenza non prospettandosi la possibilità di un incendio e non adottando opportune misure atte a scongiurare l'evento.

A dire il vero, dagli atti processuali non emerge con chiarezza se il CONDEMI partecipò alla decisione di collocare i materassi sotto il porticato; è certo invece che li vide già accatastati in quel luogo e non li fece rimuovere, pur avendone indubbiamente il potere essendo il superiore gerarchico della VULLO.

Pertanto, non vi è dubbio che dal punto di vista dell'accusa l'imputato cooperò moralmente alla condotta posta in essere dalla contabile del materiale: da tempo la giurisprudenza è concorde nell'escludere che la volontà di concorrere presupponga necessariamente un previo accordo, poiché è sufficiente che la coscienza del contributo fornito all'altrui condotta esista unilateralmente, come nel caso della semplice adesione all'opera di un altro che ne rimane ignaro.

(Naturalmente qui parliamo di cooperazione colposa, per cui il contributo materiale o morale del concorrente resta circoscritto alla condotta, mentre nessuno dei compartecipi vuole l'evento).

A questo riguardo è lo stesso CONDEMI che dichiara al P.M. di avere visionato la disposizione dei materassi sotto il porticato del padiglione femminile e di averla trovata "non del tutto inadeguata".

Tuttavia le considerazioni sopra svolte per la VULLO, valgono altresì per il ragionier CONDEMI, e conducono ad una pronuncia assolutoria anche nei suoi confronti.

Infatti, premesso che il carcere era in quel tempo sprovvisto di idonei magazzini e pertanto il materiale veniva conservato in depositi improvvisati, il problema non è stabilire se il CONDEMI sia penalmente responsabile per aver lasciato i materassi sotto il porticato anziché spostarli in altri locali (ad es. i locali annessi alla barberia) come sarebbe stato più opportuno.

I principi del diritto penale e un atteggiamento mentale corretto impongono di valutare il comportamento dell'imputato nel momento in cui agì, tenendo conto delle circostanze concrete e delle conoscenze in suo possesso, al fine di stabilire se l'evento era da questi prevedibile.

A tale proposito giova ricordare che, quando il P.M. gli chiese se non si era reso conto di aver creato una situazione di pericolo lasciando i materassi sotto il porticato, il CONDEMI rispose di non essersi prospettato pericolo alcuno poiché sapeva che i materassi erano ignifughi.

Pertanto sarebbe del tutto irragionevole pretendere che il CONDEMI prevedesse l'incendio di materiale che sapeva essere ininfiammabile.

Inoltre, il fatto che le detenute comunicassero con i detenuti del padiglione maschile servendosi di strcci e giornali infuocati, era di importanza decisiva ai fini di una valutazione della concretezza e dell'attualità del pericolo d'incendio sotto il porticato del padiglione femminile.

Non vi è prova che tale circostanza fosse nota al CONDEMI, il quale era impegnato alle Vallette fino alle 14.00 e poi lasciava il carcere, restando all'oscuro di quanto vi accadeva durante la sera.

Orbene, il fatto che il CONDEMI non sapesse delle segnalazioni fatte con il fuoco tra i bracci detentivi ha certamente influito sul giudizio di prevedibilità dell'evento che egli formulò tenendo presente una situazione di fatto solo in parte nota, ed in base alla quale l'eventualità di un incendio era del tutto improbabile, attese le caratteristiche ignifughe dei materassi.

Per quanto fin qui esposto è evidente che CONDEMI Marcello deve essere assolto dai reati a lui ascritti perché il fatto non costituisce reato in quanto non era da lui prevedibile.

 

3) GUADAGNI Salvatore è imputato dei reati di cui in epigrafe perché, in qualità di maresciallo comandante degli agenti di custodia, consentì la collocazione dei materassi sotto il porticato del padiglione femminile e comunque non ne dispose l'immediato spostamento altrove, così cagionando l'incendio e la conseguente morte per soffocamento da fumo di 11 persone.

Sia in istruttoria che in giudizio, ha formato oggetto di ampia indagine e di esame, la circostanza di un incontro tra la Vullo, il  Guadagni e il Suraci presso l'ufficio di questi, avente ad oggetto      il problema della collocazione dei materassi sotto il porticato del femminile. Su tale punto le dichiarazioni della Vullo e del Guadagni divergono da quelle del Suraci, poichè i primi affermano e il secondo nega che quell'incontro avvenne realmente; tuttavia, mentre il maresciallo o il direttore,nel corso di quell'incontro, a decidere di collocare i materassi sotto il sopracitato porticato, il Guadagni ha sempre negato che in quell'occasione sia stata presa qualsiasi risoluzione.

In realtà non ha molta importanza stabilire quando e da chi venne presa la fatale decisione, poiché il Guadagni (e naturalmente anche il direttore del carcere, come si dirà più avanti), aveva sicuramente il potere-dovere di revocarla qualora l'avessero ritenuta inopportuna.

Piuttosto si deve sottolineare che, sulla base dell'ordinamento penitenziario (L. 26.7.1975 n.354) e del relativo regolamento di esecuzione (L. 26.7.1975 n.431), è possibile desumere a carico dei dipendenti  dell'Amministrazione penitenziaria, un obbligo di tutela della vita e dell'incolumità personale dei detenuti e degli internati negli istituti di pena.

Tale obbligo di tutela configura una posizione di garanzia in capo agli addetti alla custodia, i quali sono  responsabili quando, a causa di loro colpevoli omissioni, si siano verificati eventi lesivi dell'integrità fisica dei detenuti loro affidati.

Dispone infatti l'art.40 cpv. c.p.:"non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo".

Secondo la concezione più moderna accolta in dottrina e giurisprudenza, il reato commissivo mediante omissione e un reato proprio, nel senso che può essere commesso non da chiunque, ma solo da determinati soggetti che sono costituiti dall'ordinamento garanti di beni di particolare rilievo quali la vita e l'integrità fisica, appartenenti a terzi incapaci in vita e l'integrità fisica, appartenenti a incapaci in tutto o in parte di proteggersi autonomamente.

Orbene in un carcere è inibita la possibilità di fuga, che è l'unica via di scampo di fronte ad un incendio; spetta pertanto a coloro che coordinano  il servizio di custodia salvaguardarne l'incolumità, poiché essi hanno il controllo delle fonti di pericolo dalle quali i detenuti, per le loro particolari condizioni di vita, non possono autonomamente difendersi. Non molto diversa è la situazione degli addetti alla custodia (agenti e vigilatrici) che, lavorando a stretto contatto con i detenuti, debbono operare osservando rigide misure di sicurezza, volte alla prevenzione di rivolte o evasioni, con grave limitazione della propria libertà di movimento.

Pertanto, nonostante i difensori del Guadagni si siano a lungo diffusi sulle competenze del maresciallo a norma di regolamento penitenziario per dimostrare che egli non era responsabile della sicurezza di coloro che si trovavano all'interno del braccio di detenzione femminile, non si può concordare con tale  impostazione.

Sostiene la difesa del Guadagni che egli era responsabile della sicurezza in ordine alla cinta esterna del carcere; all'interno era di sua competenza il controllo dei soli detenuti di sesso maschile, mentre il controllo delle detenute era affidato alla vigilatrice capo Suor Lucia Armati.

Tuttavia come è emerso dagli atti processuali ed in particolare dall'interrogatorio del dott. Suraci e dalla deposizione della vigilatrice Pintor, suor Lucia  non svolgeva  affatto funzioni di vigilatrice capo, essendone stata esonerata dietro sua richiesta per motivi religiosi.

Pertanto, punto di riferimento per il personale carcerario addetto alla custodia delle detenute non era certo suor Lucia Armati, bensì il maresciallo Guadagni, ed in ulteriore istanza il direttore del carcere Suraci.

D'altro canto tenuto conto della previsione generale dell'art.2 del regolamento di esecuzione, secondo cui "il servizio di sicurezza e di custodia", era logico e del tutto naturale che, mancando di fatto una vigilatrice capo, le funzioni di sorveglianza fossero concentrate a livello gerarchico nel maresciallo Guadagni, già responsabile della sicurezza dell'intero carcere.

Quanto poi alla scelta del luogo di sistemazione  dei materassi, non appare credibile che il maresciallo Guadagni non potesse sindacare la decisione della Vullo di collocarli sotto il porticato del padiglione femminile;infatti non era certo  questa o il Condemi ad avere la responsabilità della sicurezza della struttura carceraria, mentre spettava al Guadagni valutare tempi e modi di utilizzazione degli spazi reperibili all'interno del carcere  e non destinati a magazzino, attesa la suprema esigenza della sicurezza dell'intera struttura di cui appunto il maresciallo era garante.

Tale situazione di fatto e di diritto, consolidata da tempo, confermata dalle direttive ministeriali cui accenna il dott. Suraci nel proprio interrogatorio e fondata sulla generale previsione di cui agli artt.1-11 dell'ordinamento penitenziario e 2 del regolamento di esecuzione, porta a concludere che il maresciallo Guadagni  era titolare di una posizione di  garanzia in ordine all'integrità fisica dei detenuti (senza distinzione tra maschi e femmine) e del personale di custodia, e aveva dunque un obbligo giuridico di attivarsi per la tutela della loro incolumità personale.

Giova qui richiamare brevemente la struttura dell'illecito omissivo improprio contestato all'imputato, al fine di valutare eventuali profili di penale responsabilità a suo carico.

In estrema sintesi, gli elementi costitutivi della fattispecie omissiva impropria, quale risulta dall'innesto dell'art, 40 cpv. c.p.  sulle singole  fattispecie commissive di parte speciale , sono i seguenti:

1) la situazione tipica intesa come l'insieme delle circostanze di fatto che danno luogo ad una situazione di pericolo per il bene da proteggere e che dunque rendono attuale l'obbligo del garante di attivarsi.

Tale obbligo di attivarsi, che altro non è se non l'obbligo  di impedire l'evento, deve essere collegato ad una posizione di garanzia; va rilevato che non ogni obbligo penale o extra penale di attivarsi può convertirsi in un obbligo di impedire l'evento, ma solo quello che trova il suo fondamento in una posizione di garanzia.

Infatti il meccanismo di cui all'art. 40 c.p., in virtù del quale un evento (che nella fattispecie di parte speciale è cagionato mediante azione) viene attribuito ad un soggetto per non averlo impedito, non può operare per chiunque, pena il sacrificio della libertà di movimento di ciascuno, ma solo per il soggetto costituito garante.

2) l'evento naturalistico    descritto in una fattispecie commissiva-base di  parte speciale;

3) Il mancato compimento dell'azione  di impedimento  dell'evento ;

4) Il nesso di condizionamento tra la condotta omissiva e l'evento nel senso che, supponendo mentalmente compiuta l'azione doverosa omessa, l'evento viene meno (c.d. giudizio ipotetico o prognostico).

In caso di illecito omissivo improprio colposo, sulla posizione di garanzia come sopra descritta   si innesta un dovere di prudenza e diligenza, nel senso che il garante è tenuto a fare, per impedire la verificazione dell'evento,quanto gli è imposto dalla norma cautelare dettata dalla situazione concreta.

Orbene, il difetto di diligenza e dunque la colpa può riferirsi al mancato riconoscimento della situazione tipica di pericolo da parte  dell'ommittente, ed è  segnatamente sotto questo profilo che deve essere valutata la posizione del Guadagni.

A tale riguardo si osserva che l'imputato ben sapeva dove erano stati collocati i materassi, per averli visti già accatastati sotto il porticato del padiglione femminile.

Era sicuramente in suo potere rimuoverli, qualora avesse ritenuto quella collocazione pericolosa per l'incolumità delle detenute , ma non lo fece.

Anche in tal caso, per decidere se la condotta omissiva si pose in contrasto con il dovere oggettivo di diligenza è necessario rapportare il comportamento dell'agente concreto a modello di agente avveduto che, nella situazione data, sia in grado di riconoscere la situazione tipica di pericolo e agire nel modo richiesto dall'oridnamento.

A tal proposito il ricorso al criterio della prevedibilità dell'evento risulta ancora una volta insostituibile, perché solo in presenza di un evento prevedibile la situazione tipica di pericolo diventa riconoscibile dal garante, e scatta l'obbligo di attivarsi per impedire l'evento.

Un incendio è un evento tutt'altro che imprevedibile all'interno di un carcere, cosiderato che spesso i detenuti usano dar fuoco, in segno di protesta, ai mobili e alle suppellettili che si trovano nelle celle; appunto per questo i materassi che vengono dati loro in uso, o almeno dovrebbero essere, ignifughi.

Anzi, proprio i materassi che bruciarono, avrebbero dovuto  ben presto essere utilizzati dai detenuti all'interno delle celle secondo quanto disposto dal Ministero.

Orbene, non poteva ritenersi prevedibile, neppure alla stregua dell'agente modello, che prendessero fuoco materassi le cui caratteristiche di in infiammabilità e di sicurezza antincendio erano tali da destinarli addirittura all'uso degli stessi detenuti.

Tuttavia, la circostanza che i detenuti comunicassero tra loro servendosi di oggetti infuocati, avrebbe dovuto esser nota almeno al personale di custodia, e dunque al maresciallo Guadagni che ne era a capo; ed in effettti Suor Lucia Armati e la vigilatrice Giglio ne erano al corrente, anche se non ritennero di segnalarlo al direttore e al Guadagni.

Per altro lo stesso maresciallo Guadagni, nel rapporto sull'incendio recante la data del 3.6.89 e presentato al direttore del carcere, espone che: "da sommarie indagini, l'ipotesi più accreditata sulle cause dell'incendio, riconduce alla possibilità che qualche ristretta incautamente abbia lasciato cadere fogli incendiati o analoghi artifizi che spesso servono da segnalazioni con le sezioni maschili, che con probabilità hanno prodotto l'incendio".

Tuttavia, nell'interrogatorio reso in dibattimento il Guadagni ha affermato di non aver redatto il rapporto il 3.6.89 come sembrerebbe dalla data ivi apposta per errore, bensì la mattina del 4.6.89, e precisamente dopo aver appreso da Suor Lucia Armati il fatto che le detenute si servivano di fogli incendiati per comunicare con i detenuti della sezione maschile.

Si è più volte sottolineata l'importanza che gli imputati sapessero o potessero sapere delle segnalazioni fatte con il fuoco tra i bracci detentivi ai fini di un corretto giudizio di prevedibilità dell'incendio, che tenesse conto della reale situazione di fatto, e non di quella soltanto supposta.

Sotto questo profilo, sebbene non appaia del tutto credibile che il Guadagni ignorasse ogni cosa, come pure sostiene la difesa, non appare raggiunta la prova certa che l'imputato sapesse che le detenute lanciavano messaggi usando oggetti infiammati.

Infatti, da un lato le vigilatrici che sapevano hanno riferito che non informarono della cosa il Guadagni; dall'altro è probabile che se il maresciallo avesse saputo avrebbe certamente segnalato il fatto al direttore, come era già accaduto tempo addietro per un episodio di ben minore gravità, relativo alla confusione che facevano i detenuti parlandosi a voce alta da un capo all'altro dei bracci detentivi.

Dunque la circostanza che i materassi fossero ritenuti ignifughi e che l'imputato non sapesse dei segnali incendiari, rese imprevedibile l'incendio e dunque non riconoscible da parte del Guadagni la situazione tipica di pericolo in base alla quale egli avrebbe dovuto attivarsi.

In conclusione Guadagni Salvatore deve essere assolto perché il fatto non costituisce reato in quanto l'evento non era da lui prevedibile.

 

4) SURACI Giuseppe è imputato dei reati di cui in epigrafe perché, nella qualità di direttore del carcere "Le Vallette", autorizzò o comunque consentì, non ordinandone l'immediato spostamento, la collocazione dei materassi sotto il porticato del padiglione femminile, così cagionando l'incendio e la conseguente morte per soffocamento da fumo di 11 persone.

Molte delle considerazioni gia esposte nell'esame della posizione Guadagni valgono anche per il direttore del carcere Suraci, e pertanto qui ci si limiterà a brevi richiami almeno per quanto riguarda i profili normativi.

In primo luogo non vi è dubbio che anche Suraci fosse titolare di una posizione di garanzia in ordine alla vita e all'integrità fisica di detenuti e operatori carcerari; anch'egli aveva un obbligo giuridico di attivarsi per salvaguardare la loro incolumità personale riguardo a fonti di pericolo dalle quali gli stessi non potevano autonomamente difendersi a causa della limitata libertà di movimento e delle particolari condizioni di vita e di lavoro.

Tale posizione di garanzia ed il relativo obbligo impedire l'evento si fondano sulle generali previsioni di cui agli artt. 1-11 dell'odinamento penitenziario citato, nonché sull'art. 3 del relativo regolamento di esecuzione, secondo il  quale all'interno dell'istituto "il direttore provvede aol mantenimento della sicurezza, dell'ordine e della disciplina…".

Pertanto anche per Suraci si tratta di verificare se ricorrono gli estremi dell'illecito omissivo improprio colposo, applicando i criteri di valutazione sopra illustrati.

In particolare si deve accertare se la situazione tipica di pericolo, in presenza della quale diviene attuale l'obbligo del garante di attivarsi fosse dal Suraci conosciuta o conoscibile, e pertanto prevedibile l'evento, alla stregua dell'agente modello eiusdem condiciones et professionis.

Passando all'analisi dei fatti, sono necessarie alcune osservazioni che divergono dalle tesi difensive.

A proposito dell'incontro avvenuto nel suo ufficio con la Vullo e il Guadagni per discutere della collocazione dei materassi, il Suraci afferma di non serbarne alcun ricordo; sapeva però che la fornitura era in arrivo, poiché siglò la "ministeriale" che ne comunicava l'invio e la trasmise all'ufficio di ragioneria.

E' stato accertato che il giorno in cui arrivarono i materassi il Suraci non era in sede perché impegnato altrove, e pertanto non vide dove furono collocati, né fu informato in seguito del loro arrivo e del luogo dove erano stati sistemati.

Sostiene infatti la difesa che gestione e sistemazione del materiale sono di esclusiva competenza della ragioneria, e sarebbe assurdo che il direttore fosse incomodato ad ogni consegna di merce.

Tuttavia, nonostante il contrario avviso della difesa non sembra che la fornitura di 848 materassi possa essere equiparata alla fornitura di generi di uso corrente (viveri, detersivi, ecc.).

Infatti la sostituzione dei materassi all'interno di un carcere è un evento di un certo rilievo, poiché avviene ogni 4/5 anni e coinvolge l'intera struttura carceraria; inoltre, la sistemazione di ben 848 materassi in un carcere privo di idonei magazzini, non può costituire un particolare così trascurabile che il direttore se ne disinteressi completamente.

Insomma, il Suraci doveva senz'altro informarsi se i materassi erano stati consegnati e dove erano stati collocati; questo perchè in un carcere privo di magazzini chi dirige l'istituto deve attentamente valutare, in quanto garante dell'incolumità di operatori e detenuti, l'idoneità di qualsiasi altro spazio all'interno della struttura da adibire adeposito.

Peraltro la violazione colposa di questo obbligo di informazione sarebbe sufficiente a fondare una responsabilità ex art. 40 cpv. c. p. , solo qualora si accertasse che informandosi il Suraci sarebbe stato in grado di riconoscere la situazione tipica di pericolo, in base alla quale diviene attuale l'obbligo di attivarsi del garante allo scopo di impedire l'evento.

Evidentemente non basta dire che l'imputato avrebbe potuto sapere dove erano stati collocati i materassi e nulla fece a questo fine, così imputandogli l'incendio e la morte delle 11 vittime sulla base della mera violazione di un dovere di informazione, e cioè a titolo di responsabilità oggettiva.

In verità anche se il Suraci si fosse informato, nulla sarebbe cambiato in termini di prevedibilità dell'evento e dunque di riconoscibilità della situazione tipica di pericolo.

Infatti, se anche il direttore avesse saputo dove erano stati collocati i materassi, resta pur sempre il fatto che si trattava di materiale ritenuto ignifugo, e pertanto neppure da parte di un agente modello prudente e avveduto era prevedibile che quei materassi prendessero fuoco.

Ma per valutare correttamente la condotta del Suraci in questa vicenda, ha un rilievo decisivo (forse più che per gli altri imputati) accertare se egli fosse alcorrente dei segnali fatti con il fuoco tra i bracci di detenzione.

Infatti, se il Suraci avesse saputo che nel carcere da lui diretto avvenivano simili episodi, era esigibile da parte sua un comportamento maggiormente prudente, che tenesse conto del pericolo attuale e concreto di incendio rappresentato dallo scambio di segnali infuocati tra i bracci detentivi.

Orbene, sembra certo che il Suraci ignorasse senza colpa la reale situazione che si era creata all'interno del carcere; e non vi è motivo di dubitarne, in quanto risulata agli atti che poco tempo prima, dietro segnalazione del Guadagni, egli stesso aveva vietato ai detenuti di comunicare ad alta voce  tra un padiglione e l'altro, poiché ciò creava grande disturbo a coloro che si recavano al carcere per motivo di lavoro.

Dunque Suraci intervenne per vietare un'attività certamente meno pericolosa del lancio di materiale infuocato dalle finestre delle celle, e pertanto non si comprendere perché non avrebbe dovuto provvedere in un caso ben più grave.

Inoltre è certo che suor Lucia Armati e la vigilatrice Giglio, al corrente della cosa, ritennero di non segnalarla al direttore; invece di tutta evidenza che il personale carcerario ha l'obbligo di informare il direttore di simili episodi, e questi deve poter contare su un servizio di sorveglianza sollecito ed accorto che lo metta in condizione di operare meglio.

Si vuol dire che il giudizio di prevedibilità dell'evento muta al variare delle circostanze di fatto note all'agente, e questi è tenuto ad un rinnovato giudizio di prevedibilità ed ad una diligenza maggiore quando apprenda che la situazione di fatto  è diversa da quella nota, e tale da rendere concreto ed attuale il pericolo del verificarsi dell'evento.

In definitiva, la circostanza che i materassi fossero ignifughi, e la mancata conoscenza delle segnalazioni fatte con il fuoco tra i bracci detentivi, impedirono al Suraci di formulare un rinnovato giudizio di prevedibilità dell'evento, che tenesse conto della reale situazione di fatto e dunque della concretezza e attualità di un pericolo di incendio.

In altri termini, sulla base delle conoscenze a lui note e considerato che il materiale era ignifugo, il Suraci non poteva prospettarsi il pericolo di un incendio, e pertanto deve essere assolto perché il fatto non costituisce reato in quanto l'evento non era da lui prevedibile.

 

P.Q.M.

 

Visti gli artt. 254 disp. trans., 530 c.p.p.,

 

A S S O L V E

 

SURACI Giuseppe, GUADAGNI Salvatore, VULLO Graziella e CONDEMI Marcello dal reato loro ascritto perchè il fatto non costituisce reato.

 

Torino, 20.11.92