CAPITOLO 2 - IL SIONISMO

"Due fenomeni importanti – scriveva nel suo Réveil de la Nation Arabe Negib Azoury –, della stessa natura, e tuttavia opposti, che non hanno ancora attirato 1’attenzione di nessuno, si manifestano in questo momento nella Turchia asiatica: sono il risveglio della nazione araba e lo sforzo latente degli ebrei di ricostituire su larghissima scala 1’antica monarchia di Israele. Questi due movimenti sono destinati a combattersi continuamente, finché uno di essi non prevarrà sull’altro. Dal risultato finale della lotta tra questi due popoli, che rappresentano due principi contrari, dipenderà la sorte del mondo intero".

Il nazionalismo arabo e quello ebraico (sionismo) si sono venuti formando e si sono manifestati praticamente nello stesso periodo e, benché siano nati a migliaia di chilometri l’uno dall’altro e in contesti totalmente diversi, erano destinati a incontrarsi e a scontrarsi tra di loro perché avevano in comune la terra sulla quale ritenevano che solo avrebbero potuto affermarsi e svilupparsi. Esiste la tendenza diffusa a far risalire molto indietro nel tempo l’origine dello spirito nazionale arabo ed ebraico. II sionismo affonderebbe le sue radici nientemeno che nell’età dei Profeti di Israele, mentre il nazionalismo arabo le affonderebbe nel califfato arabo-musulmano che si formò subito dopo la morte di Maometto nel VII secolo.

In realtà, sia il sionismo sia il nazionalismo arabo sono fenomeni recenti sorti e sviluppatisi nel quadro del risveglio delle nazionalità che ha caratterizzato la storia dei popoli a partire dal XIX secolo.

1. I " precursori " del sionismo

La nascita del sionismo, cioè del progetto o, più correttamente, dei progetti elaborati nell'ambito ebraico di costruire in Palestina (o anche altrove) prima un rifugio e poi una patria per gli ebrei, per porre fine a secoli di dispersione e di persecuzione, può essere collocata intorno alla metà del XIX secolo. Il termine sionismo è stato coniato da Nathan Birnbaum che lo ha usato per la prima volta nel numero del 1° aprile 1890 del suo giornale "Selbstemanzipation" ("Autoemancipazione"). Lo stesso Birnbaum, in una lettera del 6 novembre 1891, ha spiegato il termine come la "creazione di un’organizzazione del partito sionista nazionale-politico in aggiunta al partito orientato praticamente che è esistito finora".

Sionismo è termine generico e ambiguo che non indica un solo progetto politico e un’unica ideologia, ma una pluralità di progetti e di ideologie spesso contrastanti e in lotta tra di loro. Questi progetti e ideologie hanno in comune una generica aspirazione a ricostruire un centro nazionale ebraico in Palestina ma anche altrove. Quali poi dovessero essere la natura e gIi obiettivi di questo centro nazionale ebraico era un problema che ogni gruppo e ogni scuola sionista si riprometteva di risolvere con mezzi e con forze diversi.

E' sotto l'ispirazione delle lotte di liberazione nazionale del popolo italiano e di quelli di altri paesi europei e della recrudescenza della persecuzione anti-ebraica nell’Europa orientale, che alcuni ebrei cominciano a vagheggiare la rinascita nazionale del loro popolo indicando la "Terra di Israele", cioè la Palestina, come sede di questa rinascita.

Primo "sionista" è in genere considerato Rabbi Yehudah Alkalai (1798-1878), un ebreo di Sarajevo che, dopo aver passato la gioventù a Gerusalemme, dove segui l'insegnamento dei cabbalisti, che rappresentavano un elemento significativo nella vita spirituale della comunità ebraica gerosolimitana, rientrò in patria nel 1825, per servire come rabbino a Semlin, all’epoca capitale della Serbia. Influenzato dal movimento di liberazione nazionale greco e delle altre nazionalità balcaniche, fin dal 1834 cominciò a interessarsi della redenzione degli ebrei, il cui presupposto pratico era per lui la creazione di colonie ebraiche nella Terra Santa. Dopo i tragici fatti di Damasco del 1840, egli scrisse una serie di libri e opuscoli per illustrare il suo programma di "auto-redenzione" degli ebrei che avrebbe dovuto realizzarsi con il ritorno del popolo d’Israele nella "sua terra", e si rivolse a notabili ebrei dei paesi occidentali come Sir Moses Montefiore e Adolph Crémieux, per ottenere il loro appoggio politico e finanziario al suo progetto.

Da rilevare che, secondo Rabbi Alkalai, non si trattava di creare uno Stato ebraico indipendente in Palestina, ma di creare una vasta comunità ebraica palestinese nel quadro dell’Impero Ottomano.

"Per noi -scriveva nel 1843- non è impossibile reaIizzare il comandamento di tornare alla Terra Santa. Il sultano non farà obiezioni, perché Sua Maestà sa che gli ebrei sono suoi leali sudditi. La diversità di religione non dovrebbe costituire un ostacolo, dato che ogni nazione adorerà il proprio Dio, e noi obbediremo per sempre al Signore nostro Dio"

Il progetto "sionista" di Rabbi Alkalai venne ripreso da Rabbi Zvi Hirsch Kalischer (1795-1874), nativo della Poznania, che nel 1862 pubblicò il libro Derishat Zion (Alla ricerca di Sion) in cui sosteneva che la redenzione degli ebrei non sarebbe avvenuta miracolosamente all’improvviso ma nel corso di un lungo e lento processo di cui avrebbero dovuto essere protagonisti gli stessi ebrei.

Molto più di Alkalai, Kalischer era influenzato dalla consapevolezza della grande miseria degli ebrei dell’Europa orientale e predicava il suo "sionismo" come soluzione dei loro problemi. Degno di rilievo è l'accenno di Kalischer alla minaccia rappresentata dalla popolazione araba alla quale gli ebrei avrebbero dovuto far fronte addestrando "guardie nell’esercizio delle armi, per allontanare i predoni beduini dal saccheggio delle vigne e dei campi seminati e per costituire un corpo di polizia capace di sterminarli".

2. Moses Hess, il " rabbino comunista "

Lo stesso anno in cui Rabbi Kalischer pubblicava il suo Alla ricerca di Sion, a Lipsia veniva pubblicato in tedesco un libro di Moses Hess, Rom und Jerusalem (Roma e Gerusalemme), che viene di solito considerato come il primo documento del sionismo politico.

Moses Hess (1812-1875) era stato una figura di rilievo della sinistra hegeliana e, come scrisse Engels, era stato "il primo comunista" tra i giovani hegeliani. Esponente negli anni 40 del "vero socialismo" fu poi lassalliano negli anni 60. Sia pure in posizione isolata e marginale, fino alla morte continuò a militare nelle file del movimento operaio e socialista. Secondo recenti interpreti il "rabbino comunista" si sarebbe avvicinato al sionismo fin dall'inizio degli anni 40 in coincidenza con i "fatti di Damasco". Questa interpretazione, basata su un'affermazíone fatta molti anni dopo dallo stesso Hess, sembra azzardata ed è contraddetta da quanto egli scrisse sulla questione degli ebrei in quel periodo. "Gli ebrei - scriveva ancora nel 1845 -, che nella storia naturale del mondo sociale hanno avuto la vocazione storica mondiale di sviluppare la bestia da preda partendo dall'uomo, hanno finalmente compiuto l'opera alla quale erano stati destinati. Il mistero del giudaismo e del cristianesimo è stato rivelato nel moderno mondo dei bottegai giudeo-cristiani".

Il passaggio di Hess dall'"universalismo emancipatore al particolarismo nazionalista" (Poliakov) è maturato di pari passo con il suo isolamento politico e intellettuale, solo in parte temperato dalla sua partecipazione al movimento lassalliano. Roma e Gerusalemme (scritto sotto forma di dodici lettere indirizzate a un'immaginaria amica) rappresenta un'eccezione nella produzione letteraria di Hess in quanto è la sua sola opera "sionista". Il "rabbino comunista" è vissuto ancora tredici anni dopo la sua pubblicazione, ma non sembra che la "questione ebraica" abbia assunto in questo periodo una qualche centralità ed esclusività né nella sua vita né nella sua opera, anche se egli collaborò a riviste ebraiche. Appare quindi quanto meno inesatto e discutibile il giudizio che Hess divenne "politicamente un sionista, quando scoprì l'identità dei principi mosaici e socialisti".

La tanto vantata Roma e Gerusalemme è un'opera minore, mediocre e farraginosa, nella quale non traspare nulla del vigore del brillante pubblicista che Hess è stato. A metà tra lo sfogo personale troppo a lungo represso e la fantasticheria del sognatore, che già Marx ed Engels avevano denunciato nel Manifesto, scritto in un fumoso linguaggio filosofico che spesso sconfina nel mistico, Roma e Gerusalemme si propone l'obiettivo di risolvere "l'ultima questione nazionale", quella ebraica.

"Ai popoli creduti morti che, nella coscienza del loro compito storico, debbono far valere i loro diritti nazionali, appartiene íncontestabilmente anche il popolo ebraico che non invano ha sfidato, da duemila anni a questa parte, le tempeste della storia universale e che, dovunque l'abbiano portato le onde degli eventi, ha rivolto e tuttora rivolge lo sguardo da tutte le estremità della terra verso Gerusalemme. Col sicuro istinto etnico della sua vocazione storico-culturale, di ricomporre cioè in unità mondo e uomini e di affratellarli nel nome del loro eterno Creatore, dell'Uno assoluto, questo popolo ha conservato la sua religione e la sua nazionalità e le ha ambedue indissolubilmente congiunte nella indimenticabile Terra dei padri. Nessun popolo moderno che aspiri a una patria, può negare il diritto del popolo ebraico alla sua antica terra, senza cadere in una contraddizione mortale, senza finire col dover dubitare di se stesso e commettere un suicidio morale ".

Particolarmente significativo appare il fatto che Hess ponesse le sorti della rinascita del popolo ebraico tanto nelle mani degli stessi ebrei, quanto, soprattutto, nelle mani delle potenze occidentali, in particolare della Francia, che avrebbero dovuto promuovere e favorire l'insediamento degli ebrei in Palestina vincendo le resistenze dei sultano. Scriveva Hess: "Deve stare a cuore alla Francía che le vie verso l'India e la Cina siano tenute da un popolo che le sia fedele fino alla morte, affinché essa possa adempiere alla missione storica che le è toccata dopo la sua grande rivoluzione. E quale popolo è adatto a questa collaborazione più del popolo ebraico, che fu destinato alla medesima missione fin dall'alba della storia?".

E' questo un tipo di argomentazione che troveremo ricorrente in un certo discorso sionista fino ai giorni nostri.

Il compito fondamentale, compito che Hess intendeva assolvere con la sua opera, era "innanzitutto di ridestare il sentimento patriottico nel cuore degli ebrei colti e di liberare le masse popolari ebraiche appunto mediante questo risuscitato patriottismo da un formalismo che uccide lo spirito. Se questo primo passo ci riesce, noi potremo, grazie alla stessa azione pratica, superare le difficoltà che sorgeranno in gran copia nel corso dell'esecuzione".

Anche se oggi è divenuto il più celebre, Roma e Gerusalemme non è certo il miglior libro di Hess come mostra di credere, per esempio, lsaiah Berlin. Né, a suo tempo, il libro "fece sugli ebrei istruiti di Germania l'effetto di una bomba", come con eccessivo ottimismo e benevolenza sostiene lo stesso autore, il quale è costretto ad ammettere d'altra parte che esso "restò al di fuori delle grandi correnti della sua epoca" e che Hess rimase "un profeta senza molto onore nel suo tempo, certamente non nel suo stesso paese".

In effetti, in un anno vennero vendute solo 160 copie del libro e l'editore si affrettò a offrire all'autore le altre copie a un prezzo di occasione. Quando, oltre trent'anni dopo, Herzl scrisse Lo Stato degli ebrei non ne aveva nemmeno sentito parlare. Lo lesse solo successivamente restandone entusiasta al punto da notare: "Tutto ciò che abbiamo tentato di fare si trova già in questo libro".

3. Jehudab Leib Pinsker e l'autoemancipazione

Il sionismo, nonostante tutti i tentativi di cercarne precursori in questo o quel pensatore del passato, non è nato dalle fantasticherie di qualche visionario alla Hess, ma dalla e nella realtà concreta degli shtetl della "Zona di residenza". Il suo vero fondatore è, a nostro parere, Jehudah Leib Pinsker (1821-1891) che per primo ha saputo dar voce alle aspirazioni concrete degli ebrei russo-polacchi sforzandosi di dare corpo e gambe a queste aspirazioni e al suo progetto politico: la creazione di uno Stato ebraico indipendente che Pinsker è stato il primo a rivendicare.

Convinto assertore della russificazione degli ebrei (era presidente della Società per la diffusione della cultura tra gli ebrei della Russia), dopo gli spaventosi pogrom antiebraici del 1881 egli modifícò radicalmente le proprie posizioni, sostenendo che bisognava trovare "nuovi rimedi, nuove vie" diversi dall'assimilazione, e divenendo convinto sostenitore della necessità di creare uno Stato ebraico nel quale gli ebrei avrebbero potuto vivere al riparo delle persecuzioni, sottraendosi all'alternativa, ugualmente umiliante, di "essere saccheggiati perché si è ebrei o dover esser protetti come ebrei".

A differenza di altri che sognavano la restaurazione di una patria ebraica per realizzare un sogno messianico, Pinsker si è battuto per una soluzione concreta della questione ebraica comunque e dovunque fosse effettivamente possibile. Il suo progetto politico non era nutrito di astratte reminiscenze bibliche, ma di una concreta sollecitudine per le masse ebraicbe oppresse e perseguitate.

Nel 1882 egli pubblicò in tedesco a Berlino un opuscolo anonimo in cui affrontava in termini realistici, politici, il problema della condizione degli ebrei e delle vie da seguire per emanciparli. "Se vogliamo avere una sede sicura -scriveva- per cessare l'eterna vita di vagabondaggio, per risollevare la nostra dignità nazionale agli occhi nostri e a quelli del mondo, non sogniamo la restaurazione dell'antica Giudea. Non torniamo ad attaccarci a quei luoghi da cui la nostra vita politica fu una volta violentemente interrotta e distrutta. Per arrivare entro un certo tempo alla soluzione del nostro problema, dobbiamo cercare di non abbracciar troppo. La cosa è già per sé abbastanza difficile. La meta delle nostre aspirazioni attuali non deve essere la "Terra Santa", ma una terra nostra. Non abbiamo bisogno di altro che di una vasta estensione di terreno per i nostri poveri fratelli, una terra che sia sempre nostra e da cui nessun dominatore straniero possa cacciarci. Là porteremo con noi le nostre cose più sacre che abbiamo salvato dal naufragio della nostra patria antica, l'idea di Dio e la Bibbia. Perché son queste cose che fecero sacra la nostra patria antica, non Gerusalemme o il Giordano. Forse la Terra Santa potrà ridiventare anche la nostra terra. Se sarà così, tanto meglio! Ma prima di tutto dobbiamo decidere -e questo è il punto essenziale- quale è il paese che possiamo ottenere e che al tempo stesso sia capace d'offrire agli ebrei di tutti i paesi, che saran costretti ad abbandonare le loro case, un rifugio sicuro e incontrastato, un luogo in cui possano trovare un lavoro produttivo".

Non considerando pregiudizialmente la Palestina come la sede della "patria ebraica", Pinsker dava prova di spirito pratico e di realismo e poneva la questione degli ebrei, degli ebrei reali e non dell'ebreo astratto, in termini concreti, che rivelavano la formazione scientifica dell'autore (Pinsker, figlio di un noto studioso e archeologo ebreo di Odessa, si era laureato in medicina all'università di Mosca e aveva esercitato con successo la professione. Per i servizi resi durante la guerra di Crímea era stato ricompensato dal governo russo). La sua principale preoccupazione non era la nostalgia nazionale e religiosa della Palestina, ma il problema politico immediato che si poneva agli ebrei dell'Impero Russo. Tuttavia, e questo era un gravissimo limite, Pinsker non si poneva il problema della popolazione vivente nel territorio che avrebbe dovuto divenire lo Stato ebraico e si poneva nella prospettiva del colonialismo europeo quando parlava di "una collettività coloniale prettamente ebraica che divenga un giorno la nostra casa inalienabile, la nostra patria".

L'opuscolo di Pinsker venne accolto con indignazione negli ambienti ebraici, tanto ortodossi quanto liberali. I primi lo accusarono di essere privo di spirito religioso, i secondi, soprattutto quelli dell'Europa occidentale, lo considerarono un traditore della fede nella definitiva vittoria dell'umanità sul pregiudizio e sull'odio. Da più parti gli venne rimproverato di aver abbandonato il sogno del ritorno a Sion, perché aveva indicato la Palestina solo come uno degli sbocchi possibili e non come lo sbocco esclusivo.

Egli ebbe però un influsso incalcolabile sullo sviluppo del sionismo dato che, se è vero che la sua opera convertì solo un piccolo gruppo di ebrei russi, è altrettanto vero che i suoi seguaci.formarono il nucleo dei movimenti sionisti dell'Europa orientale degli anni 90, senza l'apporto dei quali il progetto sionista avrebbe finito con l'inaridirsi, molto prima che altre cause esterne finissero col farlo trionfare.

Così, per uno di quei paradossi di cui è tanto ricca la storia, in particolare quella del sionismo, saranno proprio gli ebrei russi, seguaci del "territorialista" Pinsker, che al VI congresso sionista del 1903 insorgeranno violentemente contro la proposta del "sionista" Herzl di accettare l'Uganda, offerta dalla Gran Bretagna, come sede dello Stato ebraico.

Sul piano pratico Pinsker si impegnerà nell'opera di promozione di una colonizzazione ebraica su piccola scala in Palestina e sarà il primo presidente della società Hovevei Zion (la federazione dei gruppi degli "amanti di Sion"). Questa attività ha fatto sostenere da alcuni studiosi che negli ultimi anni della sua vita Pinsker si sarebbe convertito dal "territorialismo" al "sionismo". Tuttavia, la mancanza di una qualsiasi relazione tra il vasto disegno politico dell'Autoemancipazione, in cui aveva caldeggiato la creazione di uno Stato ebraico, e i limitati sforzi della società da lui presieduta per promuovere la colonizzazione ebraica della Palestina, sta a confermare che egli ha considerato fino all'ultimo questa colonizzazione non come il nucleo dello Stato ebraico, ma come il presupposto della creazione in Palestina di un "centro spirituale nazionale".

Come ha testimoniato Ahad Ha-am, che del sionismo spirituale sarebbe stato il massimo esponente, "negli ultimi giorni della sua vita egli (Pinsker) giunse, è vero, alla convinzione, e lo disse chiaramente ad alcuni dei suoi conoscenti (e fra gli altri allo scrittore di queste note), che la Palestina non era "il paese adatto per divenire il nostro asilo sicuro", che la sua situazione politica e i rapporti dei popoli verso quella terra sarebbero stati per noi un continuo ostacolo. Ciò nonostante, non invano eran passati i suoi otto anni di attività nella colonizzazione palestinese; e perfino allorquando affermava che quella terra non era la terra ideale per un asilo sicuro, non consigliò più, come aveva fatto prima, di abbandonarla completamente e di trasportare le nostre "cose più sacre" in qualunque altro paese su cui fosse caduta la scelta. La colonizzazione in Palestina -soggiunse-, dobbiamo, malgrado tutto, sostenerla e allargarla con tutte le forze. In Palestina possiamo, dobbiamo crearci un centro nazionale spirituale. La colonizzazione della Palestina non nel nome dell' "Autoemancipazione" ma nel nome di un centro nazionale spirituale".

4. Theodor Herzl

Come aveva previsto e auspicato Pinsker, il maggior contributo al risveglio nazionale ebraico non venne dagli shtetl della "zona di residenza", ma proprio dagli ambienti di quell'ebraismo dell'Europa occidentale che con tanta ostilità avevano inizialmente accolto il suo appello. Il maggior artefice della rinascita ebraica e il maggior esponente del sionismo è stato infatti un giornalista e scrittore nativo di Budapest, totalmente assimilato quando aveva cominciato a occuparsi della questione degli ebrei: Theodor Herzl (1860-1904).

Solo dieci anni della sua breve vita furono dedicati alla causa sionista, ma in questi dieci anni egli seppe dispiegare un'attività così intensa e appassionata da dar corpo, da trasformare in un organismo politico moderno, con un preciso indirizzo teorico e pratico, quello che fino al suo irrompere sulla scena era stato piuttosto uno stato d'animo diffuso ma indistinto e un pullulare di gruppuscoli atomizzati e privi di un punto di riferimento preciso che non fosse una vaga attesa messianica.

Quali possano essere stati i suoi limiti personali, per esempio l'ambizione, la vanità e la megalomania, e quale che sia il giudizio storico e politico sulla sua opera e sul sionismo è innegabile che, come ha scritto David Ben Gurion, Herzl è stato I'"architetto" che ha saputo trasformare "il popolo ebraico, per la prima volta dal tempo del suo esilio, in una forza politica" portandolo "a svolgere un ruolo come fattore nazionale attivo nella politica internazionale"

Più di chiunque altro, egli ha saputo dare ai ristretti gruppi militanti di ebrei la coscienza di essere un popolo, una nazione; ha saputo porre i presupposti della creazione in Palestina di una "sede nazionale" per gli ebrei e, quindi, di uno Stato ebraico. Anche se in ultima analisi la creazione dello Stato di Israele è essenzialmente il frutto dell'immane tragedia che si è consumata in Europa dal 1933 al 1945, senza l'azione svolta da Herzl e dai suoi successori sarebbe mancato il presupposto della soluzione che si rivelò come l'unica praticabile nel 1946-48.

L'incontro di Herzl con il sionismo avvenne casualmente nel 1894. Fino a quel momento il brillante giornalista e scrittore ungherese era perfettamente assimilato e non nutriva alcun interesse per i problemi degli ebrei. Egli era uno dei redattori in capo dell'autorevole "Neue Freie Presse", uno dei maggiori giornali europei del tempo, e si trovava a Parigi come corrispondente del suo giornale quando esplose I'"affaire Dreyfus" che assunse rapidamente un carattere violentemente antisemita. Profondamente scosso dalla constatazione che l'ostilità antiebraica fosse tanto profondamente diffusa in Europa, Herzl maturò la convinzione che l'assimilazione degli ebrei fosse impossibile e che, quindi, l'unica soluzione concreta della questione che li riguardava fosse la creazione di uno Stato ebraico indipendente.

Convertitosi agli ideali sionisti, il 14 febbraio 1896 Herzl faceva uscire a Vienna, in tedesco, 3000 copie di un libretto intitolato Der judenstaat. Versuch einer moderner Losung der judenfrage (Lo Stato degli Ebrei. Saggio di una soluzione moderna della questione degli ebrei).

Anche il libretto di Herzl è stato oggetto,come tante opere sioniste, di una sopravvalutazione postuma. Quando uscì ebbe una diffusione limitata e venne accolto con scetticismo e diffidenza quando non addirittura con ostilità negli ambienti ebraici. Il suo successo non ha nessuna relazione con il libro in sé, ma è stato dovuto esclusivamente all'azione pratica, soprattutto diplomatica, del suo autore e agli sforzi da lui spesi per creare un'organizzazione ebraica centralizzata ma diffusa in tutti i paesi.

Lo Stato degli ebrei, nonostante la sua esiguità non è un'opera che inviti alla lettura. La parte veramente sostanziale si riduce a poche pagine, il resto è una prolissa divagazione sugli aspetti tecnici del suo progetto. Con insopportabile pedanteria, Herzl scende nei più minuti e inutili dettagli, fino a dilungarsi su come avrebbero dovuto essere le case degli operai (tutte uniformi per motivi di economia) e dei borghesi (di un centinaio di tipi diversi per soddisfare le esigenze della classe media), e la bandiera (sette stelle d'oro su un drappo bianco).

Né Herzl risparmia al lettore le sue elucubrazioni sulla natura dello Stato, liquidando sommariamente tutte le altre dottrine. Memore dei suoi studi universitari di diritto romano, egli considera il rapporto tra governati e governanti come una "negotiorum gestio" in cui l'insieme dei cittadini sarebbe il "dominus negotiorum" e il governo il "gestor".

L'ideale politico di Herzl quale emerge dal suo scritto è l'ideale classista e antidemocratico di un piccolo-borghese mitteleuropeo amante dell'ordine (la polizia dello Stato degli ebrei avrebbe dovuto esser formata dal 10 per cento della popolazione maschile). E' estremamente indicativo il fatto che Herzl si rivolgerà alle masse dei diseredati ebrei dell'Europa orientale, per assicurare un seguito di massa al suo progetto, solo dopo che sarà fallito il tentativo di interessare al progetto sionista gli ebrei ricchi dell'Europa occidentale, con i quali egli si identificava profondamente.

Lo Stato degli ebrei avrebbe dovuto essere uno Stato borghese fondato sulla proprietà e sull'illimitata iniziativa privata in cui i lavoratori dipendenti sarebbero stati inquadrati militarmente. Sostenitore convinto delle istituzioni monarchiche, Herzl propendeva per una repubblica aristocratica e oligarchica del tipo di quella di Venezia. Ma questa scelta "repubblicana" era dovuta solo al fatto che gli appariva irreale restaurare dopo tanti secoli di vacanza una monarchia ebraica. Nemico del parlamentarismo e dei politici di professione, Herzl considerava assurdo l'istituto del referendum e disprezzava profondamento le masse che, come scriveva, "sono ancora peggiori dei Parlamenti, accessibili a tutte le credenze irrazionali e sempre ben disposte nei confronti di tutti quelli che sbraitano. Davanti a un popolo riunito, non è possibile fare politica estera né interna. La politica deve essere fatta dall'alto [...]. Il nostro popolo, al quale la Società (la "Society of Jews", che Herzl aveva ideato come governo degli ebrei prima della creazione dello Stato) avrà apportato il nuovo paese, accetterà anche con riconoscenza la Costituzione che essa gli darà. Ma li dove si produrranno resistenze, la Società le spezzerà. Essa non può lasciarsi distrarre dalla sua opera da individui limitati o mal intenzionati".

Non sorprende che un'opera del genere non abbia mai incontrato fortuna presso gli studiosi di scienze politiche. Essa sarebbe stata giustamente consegnata al meritato e pietoso oblio al quale sono condannate le opere di tanti autori di nuove fantasiose quanto innocue teorie sull'organizzazione perfetta dello Stato e della società o sull'origine dell'universo, se non fosse stato per le poche pagine in cui Herzl affronta la questione ebraica indicandone precisa soluzione.

Per Herzl la questione degli ebrei non era né sociale né religiosa, ma era una questione nazionale, perché gli ebrei, nonostante tutti gli sforzi di assimilarsi non vi riuscivano sia perché avevano perso l'assimilabilità sia perché continuavano a essere considerati stranieri da tutti i popoli in mezzo ai quali vivevano. L'unica soluzione possibile della questione ebraica era dunque la creazione di uno Stato degli ebrei. Per la realizzazione di questo progetto Herzl contava suIl'appoggio delle potenze europee, in particolare di quelle dove più diffuso era l'antisemitismo, alle quali faceva intravvedere i vantaggi economici e sociali che avrebbero tratto dall'esodo massiccio degli ebrei.

Come territori dove creare lo Stato degli ebrei, Herzl prendeva in considerazione l'Argentina e la Palestina. L'Argentina era uno dei paesi naturalmente più ricchi della terra, molto esteso, scarsamente popolato e con un clima temperato.

Quanto alla Palestina, scriveva Herzl, "è la nostra indimenticabile patria storica. Questo solo nome sarebbe un grido di raccolta potentemente avvincente per il nostro popolo. Se Sua Maestà il sultano ci desse la Palestina, noi potremmo incaricarci di mettere completamente a posto le finanze della Turchia. Per l'Europa noi costituiremmo laggiù un pezzo del bastione contro l'Asia, noi saremmo la sentinella avanzata della civiltà contro la barbarie. Noi resteremmo, in quanto Stato neutrale, in rapporti costanti con tutta l'Europa, che dovrebbe garantire la nostra esistenza. Per quanto concerne i Luoghi Santi della cristianità, si potrebbe trovare una forma di extraterritorialità in armonia con il diritto internazionale".

Dopo aver così definito gli obiettivi del sionismo, nella sua opera Herzl si addentrava nei particolari del suo progetto ai quali si è accennato sopra. A parte i dettagli, il libretto di Herzl non era per nulla originale (e del resto egli non aveva preteso di scrivere un'opera originale). Quando in seguito conobbe i libri di Hess e di Pinsker dichiarò che se li avesse conosciuti prima non avrebbe scritto il suo. In particolare, Lo Stato degli ebrei e Autoemancipazione convergono sostanzialmente in modo sorprendente nelle loro linee essenziali. Pinsker ed Herzl, muovendo da un punto di partenza molto simile, erano giunti a conclusioni praticamente identiche: identica l'analisi delle cause dell'antisemitismo e la concezione del sionismo come unica possibile risposta alla persecuzione degli ebrei; identica la scelta del territorio sul quale creare lo Stato ebraico: un vasto territorio americano o la Palestina; identica la convinzione che il progetto di creare uno Stato ebraico lontano dall'Europa avrebbe incontrato la comprensione e l'appoggio dei governi europei, felici di sbarazzarsi dei loro ebrei, e dei circoli antisemiti; identica la prospettiva colonialista; e, soprattutto, identica la sottovalutazione del fatto che la Palestina non era un paese vuoto ma era già abitata da un altro popolo.

Come già Pinsker, Herzl non si poneva nemmeno il problema dell'esistenza di altri abitanti nei territori scelti per crearvi lo Stato degli ebrei. Come gli altri sionisti, a parte alcune rare e perciò tanto più lodevoli eccezioni, Herzl condivideva in pieno il pregiudizio eurocentrico secondo cui al di fuori dell'Europa ogni territorio poteva essere occupato dagli europei senza tenere alcun conto dei diritti e delle aspirazioni degli abitanti. E' questo il peccato d'origine del sionismo che, sorto come movimento di liberazione nazionale del popolo ebraico, era costretto a cercarsi, in una prospettiva colonialistica, un territorio fuori d'Europa perché nel Vecchio continente non c'era un territorio che potesse essere rivendicato come proprio dagli ebrei. La realizzazione degli obiettivi del sionismo era quindi condannata a compiersi a danno dei diritti nazionali di un altro popolo senza che, peraltro, la creazione di uno Stato degli ebrei portasse alla soluzione sionista della questione ebraica. Di ciò si resero pienamente conto i teorici e i sostenitori del "sionismo spirituale", primo fra tutti Asher Ginzberg (Ahad Ha-am), il più lucido e profondo pensatore ebraico dei tempi moderni.

5. Il "Programma di Basilea"

Lo Stato degli ebrei venne accolto con aspre critiche e ostilità negli ambienti ebraici. Alcuni critici lo considerarono un chimerico ritorno al messianismo medievale. Altri, come il gran rabbino di Vienna Moritz Gudemann, contestarono "l'elucubrazione del nazionalismo ebraico", sostenendo che gli ebrei non costituivano una nazione e che in comune avevano solo la fede nello stesso Dio, e che il sionismo era incompatibile con l'insegnamento del giudaismo.

L'accoglienza fu fredda anche negli ambienti sionisti, in particolare in quelli dell'Europa orientale per i quali era essenziale la rinascita culturale degli ebrei.

La critica più severa e più pertinente fu quella di Ahad Ha-am, il maggior esponente del sionismo spirituale, il quale giudicò Lo Stato degli ebrei uno scritto di carattere giornalistico superficiale che non reggeva il confronto con Autoemancipazione di Pinsker. Secondo Ahad Ha-am nello Stato progettato da Herzl non era dato riscontrare nessuno di quei caratteri specificamente ebraici, di quei grandi principi morali per i quali gli ebrei avevano vissuto e sofferto e per i quali ritenevano valesse la pena di operare per divenire di nuovo un popolo.

Nonostante il poco incoraggiante esito del suo esordio sulla scena sionista nelle vesti di re-messia venuto a salvare e redimere il popolo ebraico, Herzl si dedicò totalmente alla causa sionista facendosi instancabile ambasciatore del progetto di creazione di uno Stato degli ebrei presso il sultano, l'imperatore tedesco, il re d'Italia, il papa, i governanti britannici, e Plehve e Witte, i potentissimi ministri che nell'impero zarista guidavano il movimento antisemita. Egli diede anche vita alla "Jewish Society" che aveva progettato nel suo libro, creando l'organizzazione sionista mondiale che guidò con mano ferma fino alla morte, e fondò il giornale "Die Welt" (4 giugno 1897) che fino allo scoppio della prima guerra mondiale fu l'organo centrale del movimento sionista.

Nel 1897 (29-31 agosto) egli organizzò a Basilea il primo congresso sionista mondiale, storicamente importante perché formulò il Programma di Basilea e diede vita all'Organizzazione sionista mondiale, nella quale avveniva l'unificazione organizzativa e programmatica del sionismo orientale e di quello occidentale.

Il Programma di Basilea affermava che "il sionismo si sforza di ottenere per il popolo ebraico un focolare garantito dal diritto pubblico in Palestina". I metodi da adottare per il raggiungimento di questo obiettivo erano: 1) l'incoraggiamento della colonizzazione ebraica in Palestina; 2) l'unificazione e l'organizzazione di tutte le comunità ebraiche; 3) il rafforzamento della coscienza ebraica individuale e nazionale; 4) iniziative per assicurarsi l'appoggio dei diversi governi per realizzare gli obiettivi del sionismo.

All'indomani del congresso Herzl scriveva nel suo diario: "Se dovessi riassumere il congresso in una parola -che mi guarderei bene dal rendere pubblica- sarebbe questa: a Basilea ho fondato lo Stato ebraico. Se lo dicessi a voce alta sarei accolto da un universale scoppio di risa. Forse fra cinque, certamente tra cinquant'anni se ne accorgeranno tutti".

In realtà, il risultato del congresso di Basilea fu molto meno importante di quanto fantasticasse Herzl. Nel programma adottato dai 197 delegati presenti al congresso, il problema della creazione dello Stato ebraico non era nemmeno adombrato. In sostanza ci si limitava a chiedere la concessione "di un focolare garantito dal diritto pubblico" ottomano in Palestina ("einer offentlich-rechtlich gesicherten Heimstatte").

Secondo il Feinberg, benché Herzl abbia respinto l'espressione "garantito dal diritto internazionale" ("volker-rechtlich gesicherten") proposta da uno dei delegati, la formulazione adottata era ambigua e flessibile in modo da poter essere interpretata estensivamente anche nel senso che il compito di garantire il focolare ebraico toccasse alle potenze europee.

Quali possano essere stati gli accorgimenti lessicali e le riserve mentali degli autori del programma, non c'è dubbio, comunque, che nella migliore delle ipotesi essi pensavano a un rifugio per gli ebrei che godesse di una certa autonomia e garanzia legale all'interno dell'Impero Ottomano e non a uno Stato ebraico autonomo e indipendente.

L'aspetto più interessante e rilevante del congresso e del programma adottato non consisteva nell'"atto di nascita" dello Stato ebraico, quanto, piuttosto, come è stato rilevato, nel passaggio dal sionismo pratico (cioè azione "selvaggia", spontanea, non garantita legalmente) al sionismo politico (cioè a un sionísmo basato sulle trattative e gli accordi nel "nuovo approccio, da allora elevato a principio dottrinario, secondo il quale la negoziazione di uno statuto politico in Palestina -l'obiettívo della sovranità- era la strada maestra per il trionfo del sionismo, e quindi per la soluzione della questione ebraica. Il riconoscimento concesso al lavoro pratico di colonizzazione -l'obiettivo della terra- era una concessione agli interessi acquisiti e ai consigli di cautela che allora non suscitavano entusiasmo; quindi non aveva la forza di un principio".

6. I progetti di el-Arish e dell'Uganda

Gli sforzi principali per realizzare gli scopi del sionismo vennero fatti in direzione dell'Impero Ottomano. Herzl propose al sultano Abdulhamid di risanare il debito pubblico ottomano in cambio della Palestina. Ma la proposta venne respinta: "L'impero turco -fece sapere il sultano a Herzl- non appartiene a me, ma al popolo turco. Non posso darne via alcuna parte. Gli ebrei risparmino i loro miliardi. Quando il mio impero sarà smembrato, potranno avere la Palestina per niente. Ma quello che sarà diviso sarà solo il nostro cadavere. Io non accetterò una vivisezione". Tuttavia, nel 1902 il governo ottomano offrì a Herzl una sede per gli ebrei non in Palestina ma in Anatolia, in Mesopotamia o in Siria. L'offerta venne respinta.

Herzl si risolse a cercare altrove il territorio sul quale creare il focolare ebraico. Il 1° luglio 1898 notava nel suo diario: "Le masse povere hanno bisogno di un aiuto immediato e la Turchia non è in una situazione tanto disperata da dover accedere ai nostri desideri. Ciò che dovremo fare prima di tutto sarà di definire uno scopo immediatamente accessibile, senza abbandonare nessuno dei nostri diritti storici. Potremmo, per esempio, chiedere Cipro all'Inghilterra, potremmo anche prendere in considerazione l'Africa del Sud o l'America, fino al giorno della dissoluzione dell'Impero Ottomano".

Si è già visto come, fin dagli anni della guerra turco-egiziana del 1839-41, la Gran Bretagna, in mancanza di meglio, si fosse assunta la protezione degli ebrei viventi nell'Impero Ottomano. Ed è proprio in Gran Bretagna che il movimento sionista trovò non solo i maggiori incoraggiamenti ma anche concreti aiuti per la realizzazione del progetto di creareun focolare per il popolo ebraico. In occasione delle elezioni del 1900, sessanta candidati al Parlamento di Londra si dichiararono pubblicamente a favore del sionismo e dei suoi fini, inaugurando così un andazzo che avrebbe raggiunto punte parossistiche soprattutto negli Stati Uniti in occasione delle elezioni presidenziali e legislative.

Due anni dopo (1902), Herzl propose al governo di Londra come focolare per gli ebrei la penisola del Sinai, la Palestina egiziana, o Cipro. Il governo britannico, scarsamente entusiasta della prospettiva di un massiccio afflusso nel Regno Unito di ebrei dall'Europa orientale, soprattutto dalla Romania, decise di contribuire alla creazione della sede ebraica in un territorio del Mediterraneo orientale. Scartata per ragioni strategiche l'isola di Cipro, la scelta cadde sulla zona di el-Arish, nella costa mediterranea della penisola del Sinai. La proposta venne fatta a Herzl nell'ottobre del 1902 dal segretario al Colonial Office (ministro delle colonie), Joseph Chamberlain. Unica condizione l'accettazione da parte di lord Cromer, il potentissimo console generale inglese in Egitto, di fatto vero e proprio padrone di quel paese. Dopo che una commissione di esperti ebbe studiato le possibilità pratiche di realizzazione del progetto di el-Arish, il 12 marzo 1903 questo progetto venne respinto perché, per approvvigionarlo dell'acqua necessaria per l'irrigazione, si sarebbe dovuto sottrarne in misura eccessiva da altre zone.

Venne allora proposto l'insediamento ebraico nell'Africa orientale, in Uganda. Secondo la proposta britannica, una commissione di studio siodiia vr 56"dovuto recarsi sul posto per rendersi conto se esisteva un territorio conveniente. In caso affermativo sarebbe stato possibile fondarvi, sotto l'autorità di un funzionario ebreo che sarebbe stato il capo dell'amministrazione locale, una colonia ebraica nella quale i coloni avrebbero potuto vivere a modo loro.

La proposta, anche a causa dell'emozione provocata dal feroce pogrom di Kiscinev, venne accolta da Herzl che la presentò al sesto congresso sionista (Basilea, 23-28 agosto 1903). In questa sede il "Progetto dell'Uganda" incontrò la decisa opposizione dei delegati dell'Europa orientale, soprattutto di quelli russi.

Alla fine, con 295 voti a favore, 178 contrari e 132 astensioni venne deciso di nominare una commissione da inviare in Uganda per esaminare le possibilità di attuazione del progetto.

Herzl morì il 3 luglio 1904 all'età di 44 anni senza aver potuto vedere la realizzazione del grande ideale della sua vita. Nell'agosto del 1949 le sue ceneri saranno trasportate nello Stato di Israele alla cui creazione egli aveva dedicato tutto se stesso.

Il progetto dell'Uganda venne infine respinto defínitivamente nel corso del settimo congresso sionista che si tenne a Basilea dal 27 luglio al 2 agosto 1905, un anno dopo la morte di Herzl. In attesa che si creassero le condizioni di un massiccio insediamento ebraico in Palestina, i successori di Herzl decisero di continuare la sua azione diplomatica e nello stesso tempo di promuovere e favorire nei limiti del possibile l'immigrazione ebraica in Palestina in modo da rafforzare le posizioni degli ebrei palestinesi sia nel campo dell'industria sia in quello dell'agricoltura, "nello spirito più democratico possibile". Privato della direzione carismatica di Herzl il movimento sionista vide crearsi le due correnti fondamentali dei seguaci ortodossi di Herzl, favorevoli all'iniziativa diplomatica, e dei sionisti "pratici", favorevoli maggiormente a iniziative concrete che consentissero il consolidamento delle posizioni ebraiche in Palestina e un rafforzamento del sionismo tra gli ebrei della diaspora.

Parlando dell'evoluzione del sionismo sotto la direzione di Herzl, il Roth ha rilevato come "solo qualche migliaio di persone erano direttamente toccate da questa rinascita. Inoltre, con la morte del suo fondatore, il sionismo perdette di vitalità e, nel decennio seguente, una gran parte della sua forza andò perduta in questioni intestine. Nel mondo rigorosamente pratico che ebbe fine nel 1914, il movimento [sionista] era considerato il passatempo di alcuni visionari, e nello stesso mondo ebraico le sue effettive realizzazioni erano generalmente ignorate". Dopo la morte di Herzl e fino alla prima guerra mondiale l’idea stessa di uno stato ebraico viene praticamente messa da parte mentre l'accento viene posto sul lavoro pratico e sull’immigrazione anche su piccola scala. Come ha riconosciuto Chaim Weizmann, è stato proprio questo lavoro pratico che ha posto le premesse per la creazione prima del focolare e poi dello Stato ebraico in Palestina: "Gli anni dell’anteguerra, fra il 1906 ed il 1914, furono in un certo senso decisivi; 1'impronta dell’opera allora compiuta è ancora oggi visibile in Palestina. Accumulammo infatti allora un complesso di esperienze che ci fu di grande utilità negli anni che seguirono la prima guerra mondiale. Noi prevedemmo molti dei problemi che dovemmo poi fronteggiare nei giorni delle maggiori. imprese, e ponemmo le fondamenta di istituzioni che formano parte del rinato focolare nazionale ebraico. E soprattutto acquistammo il senso delle cose, cosicché non iniziammo l'esecuzione del nostro compito dopo la Dichiarazione Balfour comportandoci come dei principianti ".

7. Il sionismo territorialista

La discussione sul progetto dell’Uganda provocò una profonda crisi e quindi una spaccatura nel movimento sionista. Al settimo congresso, infatti, una parte dei sostenitori del progetto dell’Uganda, guidati dallo scrittore Israel Zangwill, che era stato uno dei primissimi sostenitori di Herzl, si staccarono dall’organizzazione sionista e diedero vita alla Jewish Territorial Organization (JTO) e al cosiddetto sionismo territorialista. Il principio fondamentale del territorialismo si riassume nell'affermazione: "Noi non attribuiamo nessun vero valore ai nostri pretesi diritti storici su questo paese [la Palestina] ", e nel rifiuto di ammettere un qualsiasi legame organico tra il sionismo e la Palestina. Dopo la sua costituzione, la Jewish Tenitorial Organization si mise alla ricerca di un territorio adeguato nel quale stanziare gli ebrei e studiò la possibilità di colonizzazione in Angola, Tripolitania, Texas, Messico, Australia e Canada, ma senza riuscire mai ad andare oltre la fase dello studio. Nel 1925 la JTO venne sciolta.

La stessa sorte toccò al neo-terrítorialismo della "Freeland League", creata dieci anni dopo e sciolta dopo la nascita dello Stato di Israele.

Da rilevare che la "Freeland League", pur accogliendo con favore la creazione dello Stato di Israele, sostenne che a causa della limitatezza del suo territorio lo Stato ebraico non poteva risolvere il problema della patria degli ebrei in quanto in nessun caso avrebbe potuto accogliere tutti o anche solo la maggioranza degli ebrei del mondo.

8. Il sionismo spirituale: Ahad Ha-am, il "rabbino agnostico"

Ben altro respiro e influenza del sionismo territorialista ebbe il sionismo spirituale o culturale la cui caratteristica fondamentale è stata quella di presentarsi come un fenomeno positivo, di affermazione dei grandi valori della tradizione umanistica ebraica, e non già come una risposta di carattere sivo all'antisemitismo.

Fondatore di questa corrente sionista è stato Asher Hirsch Ginzberg (1856-19?7) un ebreo ucraino nativo di Kivna nella proFncia i klev. Dopo aver ricevuto nella casa paterna un'educazione ebraica tradizionale egli si dedicò, sotto la guida di un insegnante privato, allo studio del Talmud e della filosofia medievale. Per conto suo lesse la letteratura dell'Haskalah (l'illuminismo ebraico) e imparò il russo (di nascosto, all'età di 20 anni), il tedesco, il francese, l'inglese e il latino, soggiornando per motivi di studio a Berlino, Vienna e Bruxelles.

Pur avendo dedicato tutta la sua esistenza agli ideali del nazionalismo ebraico e a un'imponente e molto intensa attività giornalistica (per sei anni diresse " Hashiloah ", il grande periodico culturale ebraico dell'epoca) e saggistica, rifiutò sempre di diventare scrittore di professione e per mantenere la piena indipendenza non abbandonò mai la sua attività commerciale (lavorava per Visotsky, il grande mercante russo di tè).

La conoscenza della moderna cultura nazionalistica lo portò prima al distacco dallo hassidismo, e quindi all'abbandono di qualsiasi credenza religiosa.

Trasferitosi nel 1884 a Odessa, allora centro della vita culturale ebraica nell'Impero Russo, dove visse fino al 1907, egli entrò in contatto con il movimento degli Hovevei Zion (Amanti di Sion) divenendo membro del Comitato per la colonizzazione della Palestina, presieduto da Pinsker.

Nel 188 con lo pseudonimo di Ahad Ha-am (Uno del Popolo) Che avrebbe servato per tutta la vita, scrisse un articolo ("La via sbagliata") nel quale criticava vigorosamente il programma degli Hovevei Zion di colonizzazione della Palestina, per il suo carattere illusorio e per la sua inadeguatezza spirituale e culturale. L'immigrazione in Palestina e la colonizzazione organizzate dagli Hovevei Zion erano votate al fallimento perché quelli che se ne occupavano erano stati mal preparati alla loro missione sul piano professionale e su quello più generale. Il compito principale del movimento nazionale ebraico era di ispirare ai suoi partigiani un più profondo attaccamento alla vita nazionale e un più ardente desiderio del benessere nazionale. In seguito, Ahad Ha-am avrebbe precisato sempre meglio la sua critica del sionismo tanto politico quanto pratico ai quali avrebbe contrapposto la sua concezione del sionismo spirituale.

Il sionismo era destinato al fallimento in quanto incapace di garantire la completa e assoluta soluzione del problema ebraico in tutti i suoi aspetti, soprattutto di porre fine all'esilio del popolo ebraico. In nessun caso, infatti, la creazione di una sede nazionale o di uno Stato degli ebrei avrebbero avuto, anche nelle condizioni più favorevoli, il risultato di concentrare in Palestina la maggioranza o anche solo una parte sostanziale degli ebrei sparsi nel mondo, riducendo in misura significativa la comunità ebraica della diaspora.

"La speranza del rimpatrio di tutti gli ebrei del mondo non ha base nella realtà -scriveva nel 1907-, e perfino nell'auspicato avvenire lontano, quando la popolazione ebraica di Erez Israel [cioè della Palestina] avesse raggiunto l'apice e gli ebrei fossero talmente aumentati da saturare il paese e conquistarlo col loro lavoro, anche allora, la maggioranza degli ebrei rimarrebbe dispersa in terre straniere. Insomma l'esilio nel suo significato fisico noti ha fatto un passo, non se n'è liberata che una parte del popolo, una parte relativamente piccola, che ha avuto la fortuna di restaurare le rovine del paese e di ottenervi la libertà nazionale, mentre tutte le altre parti, sparse in terre estranee, sono rimaste nella loro primitiva situazione esteriore".

L'impossibilità materiale di riunire tutti o anche solo la maggioranza, degli ebrei sparsi nel mondo in Palestina rendeva quindi insolubile la questione ebraica con mezzi puramente sionisti. Non meno grave e denso di conseguenze negative dell'esilio fisico degli ebrei era, secondo Ahad Ha-am, l'esilio spirituale che premeva sulla collettività ebraica nella sua vita spirituale, togliendole la capacità di preservare e sviluppare il suo specifico carattere nazionale, secondo il suo spirito, con piena libertà, come ali altri popoli. Questa pressione spirituale che rischiava di far perdere, con l'assimilazione, i caratteri specifici del popolo ebraico provocando la rapida e radicale disgregazione della cultura e quindi dell'identità ebraica - si era accentuata soprattutto da quando, con l'emancipazione degli ebrei in quasi tutti i paesi, era stata demolita la "muraglia" artificiale dietro la quale lo spirito del popolo ebraico si era trincerato in passato per poter vivere la sua vita specifica.

"Noi e la nostra vita nazionale -scriveva Ahad Ha-am- siamo perciò sottomessi allo spirito dei popoli che ci circondano, e non possiamo più preservare il nostro carattere nazionale essenziale dalla disgregazione prodotta dalla necessità imprescindibile di adattarci allo spirito della vita estranea che fa breccia su di noi. E' stato appunto il problema dell'esilio spirituale che ha in realtà trovato la stia risposta nella creazione d'un "rifugio" nazionale in Erez Israel, non rifugio per tutti i membri del popolo che cercano tranquillità e pace, specifica forma culturale, frutto di un processo storico millenario, che ha ancora in sé la forza di vivere e di svilupparsi secondo la sua natura anche in avvenire, purché sia liberato dalle catene della dispersione".

Quello che mancava alla rinascita culturale e spirituale, ancor prima della "decisione nazionale" era "un luogo preciso che sia centro nazionale spirituale, che sia "asilo sicuro" non agli ebrei ma all'ebraismo, al nostro spirito nazionale; alla cui costruzione ed elaborazione partecipino tutti gli ebrei di tutti i paesi della diaspora; e che questa partecipazione avvicini spiritualmente coloro che son oggi lontani geograficamente e ideologicamente, e poi - per l'azione del centro su tutti i punti della periferia -, rinnovi lo spirito nazionale in tutti i cuori e rinvigorisca anche il senso dell'unità nazionale ".

Il "centro nazionale spirituale" in Palestina per l'ebraismo avrebbe dovuto essere un "centro caro a tutto il popolo", capace di unire e legare tutto il popolo, " un centro della Torah e della scienza, della lingua e della letteratura, del lavoro fisico e della purezza spirituale; una vera miniatura del popolo ebraico " quale esso avrebbe dovuto essere. Ogni ebreo della dispersione si sarebbe ritenuto felice se avesse potuto vedere una volta nella sua vita il "centro dell'ebraismo" e, tornato al paese natio, avrebbe detto ai suoi amici: "Se volete vedere il vero tipo dell'ebreo, nella sua fisionomia originale, - sia rabbino, scienziato o scrittore, sia contadino, artigiano o negoziante -andate in Palestina, e lo vedrete".

A differenza del sionismo alla Herzl - che considerava negativamente il popolo ebraico cotte prodotto, risultato, del rifiuto e dell'ostilità dei non ebrei, in una parola dell'antigiudaismo e dell'antísemitismo, e che quindi prendendo atto di questa situazione, si poneva l'obiettivo di concentrare tutti gli ebrei in una loro sede nazionale dove fossero al riparo dall'ostilità dei gentili - il sionismo spirituale poneva l'accento sui tradizionali valori etici, religiosi e culturali nei secoli erano stati il grande e glorioso patrimonio dell'ebraisrno e avevano consentito agli ebrei che se ne erano nutriti e avevano colvati di perpetuarsi in quanto ebrei con un loro specifico " spirito nazionale ".

La sede nazionale ebraica, più che un rifugio per gli ebrei perseguitati, era quindi concepita come il della rinascita nazionale degli ebrei, come un centro culturale e spirituale, non tutto il mondo i principi e valori del giudaismo e dell'ebraismo.

Non è un caso che, sola corrente sionista, quella del sionismo spirituale, sia posta fin dall'inizio con lucidità il ro arabi palestinesi e abbia sempre ricercato una soluzione che non sacrificasse sull'altare della rinascita ebraica i diritti nazionali, civili e politici dei palestinesi.

Già nel 1891, al suo ritorno dal primo viaggio in Palestina, in un articolo ("La Verità da Erez Israel") che sollevò una tempesta di indignazione e di proteste, Ahad Ha-am scriveva:

" Molti abitanti della Palestina, la cui coscienza nazionale ha cominciato a svilupparsi dopo la rivoluzione turca, guardano di traverso, del tutto naturalmente, alla vendita di terra agli stranieri e fanno il possibile per eliminare questo male. Noi siamo abituati a credere che Erez Israel sia attualmente quasi completamente desolato e che gli arabi siano selvaggi del deserto, simili a muli, i quali né vedono né capiscono ciò che accade intorno a loro, ma questo è un errore fatale. Gli arabi, specialmente quelli delle città, vedono e capiscono quel che facciamo e quel che vogliamo nel paese, ma restano tranquilli e si comportano come se non comprendessero, e questo perché non scorgono alcun pericolo per il loro futuro in ciò che facciamo attualmente, e cercano anche di sfruttarci e di profittare dei nuovi ospiti mentre ridono di noi in cuor loro. Ma se verrà un giorno in cui il nostro popolo compirà in Palestina progressi tali da mettere alle corde la popolazione del paese, allora non cederanno tanto facilmente il loro posto. L'arabo come tutti i semiti ha una mente acuta ed è molto intelligente ".

Nell'autunno del 1922, dopo l'uccisione di un ragazzo arabo da parte di alcuni giovani ebrei, Ahad Ha-am scriverà in una famosa lettera al giornale Ha-aretz": "Ebrei e sangue: esistono due termini più antitetici di questi?"

Oggi si sta diffondendo nel popolo ebraico una tendenza a sacrificare, sull'altare del "ritorno", i suoi profeti, i grandi principi morali per i quali il nostro popolo ha vissuto e sofferto e per i quali solamente ha ritenuto valesse la pena di operare per divenire di nuovo un popolo nella terra dei suoi padri Perché, senza ciò -Dio del cielo-, cosa siamo e qual è il futuro della nostra vita in questo paese ? solo per aggiungere in un angolo dell'Oriente un altro piccolo popolo levantino che competa con i levantini che già vi si trovano in quei corrotti costumi morali a cui si riduce il contenuto della loro vita: la sete di sangue, la vendetta e la faida? Se questo è il Messia, che venga! Ma io non voglio vederlo ".

Dopo la Dichiarazione Balfour, al cui varo egli collaborò attivamente, Ahad Ha-am divenne sostenitore della soluzione di uno Stato Palestinese binazio altri abitanti del paese, i quali hanno un diritto reale al paese dovuto a generazioni di residenza e di lavoro in esso. Anche per loro questo paese è una sede nazionale ed essi hanno il diritto di sviluppare quanto possibile le loro potenzialità nazionali. La sede nazionale del popolo ebraico deve costruirsi senza distruggere con ciò la sede nazionale degli altri abitanti ".

9. La scelta binazionale: Magnes e Buber

Gli ideali di Ahad Ha-am furono ripresi e sviluppati soprattutto dall'americano Judah Leon Magnes (1877-1948), creatore e presidente (dal 1935) dell'Universita' Ebraica di Gerusalemme, e da Martin Buber.

Secondo Magnes la vera essenza del sionismo consisteva non nella creazione di uno Stato ebraico né nell'azione politica degli ebrei, ma negli ideali spirituali e culturali di Ahad Ha-am da realizzare attraverso una accurata colonizzazione della Palestina che non ledesse gli interessi e i diritti degli e nella rinascita spirituale del popolo ebraico. Anche il grande filosofo austriaco di orioine galiziana, Martin Buber (1878-1960) si riallaccia direttamente all'insegnamento di Ahad Ha-am per sostenere che la comunità ebraica di Palestina poteva e doveva essere una potenza spirituale capace di realizzare nella società lo spirito che vive nel popolo e di consentire il superamento del dualismo esistente tra verità e realtà, tra idea e fatto, tra morale e politica. Ma Buber si è spinto ancora più avanti di Ahad Ha-am sostenendo che il centro spirituale creato in Palestina non avrebbe dovuto irradiare la sua lezione solo al mondo ebraico ma a tutte le nazioni. "Il sionismo - diceva dalla tribuna del XVI congresso sionista il 10 agosto 1929 - è qualche cosa di diverso dal nazionalismo ebraico. Giustamente ci chiamiamo sionisti e non nazionalisti ebrei; poiché Sion è più di "nazione". Sionismo è coscienza di una peculiarità. "Sion" non è una nozione generica come "nazione" o come "Stato" ma è un nome, è la designazione di qualche cosa di unico e di incomparabile. E non è neppure un'espressione geografica come Canaan o Palestina, ma da tempo immemorabile è il nome di una certa cosa che deve nascere in un determinato luogo geografico del nostro pianeta. Ciò che un giorno doveva avverarsi e ciò che deve tuttora avverarsi; cioè, per dirlo nello stile della Bibbia, il principio del regno di Dio su tutta l'umanità ".

Il sionismo avrebbe dovuto essere in grado di "diventare una potenza dello spirito, la quale plasmi nuove forme di vita nazionale, nuovi rapporti tra le nazioni, che contribuisca a preparare una vera alleanza fra oriente e occidente e che poi, grazie a questo lavoro e sulla sua base, si unisca agli elementi d'avvenire di tutti i popoli".

La missione del centro spirituale ebraico era concepita da Buber come una missione umanistica, di carattere essenzialmente sovranazionale. Coerentemente con questi principi, il filosofo di Vienna assunse un atteggiamento di estrema apertura e comprensione nei confronti dei diritti e degli interessi degli arabi palestinesi sostenendo con fermezza la soluzione binazionale.

Ricordiamoci -ammoniva al XVI congresso sionista- in che modo i popoli ci hanno trattato e come ci trattano ancora dappertutto, come stranieri, come inferiori. Guardiamoci dal considerare e dal trattare quale cosa inferiore ciò che ci è estraneo e non abbastanza noto! Guardiamoci dal far noi ciò che ci è stato fatto. […] E' stato per me spaventoso notare in Palestina, quanto poco noi conosciamo gli uomini arabi. Io non mi illudo né mi dò a intendere che oggi esista fra noi e gli arabi una concordia d'interessi, oppure che essa possa facilmente crearsi. Con tutto ciò in ogni divergenza d'interessi la più seria, che non derivi solo dall'illusione e non derivi solo dalla politica, è possibile una politica locale comune, poiché ambedue si ama questa terra; quindi insieme essa è amata ed insieme essa è desiderata: per cui è possibile lavorare insieme per questa terra.

"Molti di noi dicono: noi non vogliamo che altri padroneggino su di noi; ed io lo ripeto con loro. Ma io non debbo dover leggere continuamente fra le righe di queste parole che non vogliamo essere padroneggiati da altri, le parole: ma noi vogliamo essere padroni. Si deve dire: Noi non vogliamo che altri padroneggino su noi e non vogliamo padroneggiare sugli altri".

Emigrato in Palestina nel 1938, Buber contribuì attivamente alle iniziative del gruppo Ihud (in ebraico: Unione), creato da Magnes, volto a favorire la creazione di uno Stato binazionale arabo-ebraico in Palestina. Dopo la creazione dello Stato di Israele nel 1948, Buber si oppose alla politica governativa sui problemi delle relazioni israelo-arabe e del trattamento riservato alla minoranza araba in Israele ma la sua voce è rimasta inascoltata.

Come è stato osservato, il sionismo politico non ha tenuto alcun conto delle posizioni e degli ammonimenti dei sostenitori del sionismo spirituale, e se ne felicita. Tuttavia, il bilancio finale non è stato ancora fatto.

10. Sionismo e socialismo

Nelle sue varie correnti, il sionismo è sempre stato un fenomeno ristretto a una cerchia limitata di intellettuali borghesi astratti e staccati dalla realtà, che si ponevano come guida di masse con le quali non avevano nessun collegamento organico e tra le quali non avevano alcun seguito effettivo. Inoltre, le varie correnti sioniste si presentavano con caratteri indifferenziati e interclassisti che non tenevano alcun conto della stratificazione sociale delle masse ebraiche.

L'unico che in un certo senso si fosse posto il problema sociale era stato nella prima fase del sionismo Herzl, il quale, però, come si è visto, aveva proposto una soluzione di tipo sostanzialmente antidemocratico e conservatore.

L'incapacità degli ideologi sionisti di affrontare anche l'aspetto sociale della questione ebraica è in buona parte all'origine dell'estraneità, mai venuta del tutto meno, delle masse popolari ebraiche al movimento sionista. Se si considera la storia dello sviluppo del movimento operaio ebraico, si rileva l'estrema marginalità del sionismo come ideologia delle masse ebraiche che alla fine del XIX secolo erano concentrate soprattutto nell'Europa orientale e nella "zona di residenza" dell'Impero Russo.

Eppure, gli ebrei hanno dato un contributo di eccezionale importanza allo sviluppo del movimento rivoluzionario e socialista. Come ha rilevato Lenin, "la proporzione degli ebrei nei movimenti democratici e proletari è dovunque superiorea quella degli ebrei nella popolazione in generale".

Nel suo studio sociologico sui partiti politici, Roberto Michels ha dedicato un intero paragrafo ("L'elemento ebraico come campo di reclutamento") al problema della presenza particolarmente numerosa di ebrei nella leadership dei partiti socialdemocratici e rivoluzionari. "Le qualità caratteristiche dell'elemento ebraico -ha scritto questo studioso- fra cui spiccano anche il fanatismo settario, che è così frequente e che si comunica anche alle masse, la fede salda e suggestiva in sé stessi -il profetismo che è loro proprio- una grande abilità oratoria e dialettica, una ambizione e una tendenza a mettere in luce e a far risaltare le proprie qualità, e soprattutto una quasi illimitata capacità di adattamento: tutte queste qualità fanno degli ebrei uomini nati per essere condottieri delle masse, organizzatori e agitatori. […] Ma il fenomeno generale dell'adattabilità e della duttilità intellettuale degli israeliti non è sufficiente a spiegare la loro presenza e soprattutto la loro forza quantitativa e qualitativa nel partito dei lavoratori. […] L'origine di questo fenomeno […] si spiega, almeno per la Germania e per i paesi orientali, con la posizione speciale dell'elemento ebraico di ieri e di oggi. Qui, all'emancipazione giuridica degli ebrei non è ancora seguita quella sociale e morale. […] Per questo sorge di nuovo in lui (nell'ebreo) l'atavico sentimento di ribellione morale contro le ingiustizie compiute ai danni della sua razza, sentimento che, dato il sostrato idealistico che anima questa razza, dominata dalle più profonde passioni, più facilmente che non presso la razza germanica si muta in un puro orrore per tutte le ingiustizie e si eleva fino a divenire una tensione rivoluzionaria verso una palingenesi universale".

Al di là delle esagerazioni sull'"ebreo tipico", sull'"ebreo in generale", in quanto scritto dal Michels c'è un indubbio elemento di verità.

Anche il semplice elenco degli ebrei che hanno dato un contributo decisivo allo sviluppo del movimento operaio dei diversi paesi e internazionale riempirebbe numerose pagine. A parte Marx, basti qui ricordare Ferdinand Lassalle, uno dei principali organizzatori del partito della classe operaia tedesca; gli esponenti della socialdemocrazia tedesca Paul Singer, Eduard Bernstein, Parvus (Alexander Israel Helphand), Rosa Luxemburg e Leo Jogiches (questi ultimi due attivi sia nel movimento operaio polacco sia in quello tedesco), Hugo Haase e Otto Landsberg, che furono due dei sei commissari del popolo del primo governo socialista in Germania (1918), il presidente dell'effimera Repubblica dei Consigli in Baviera, Kurt Eisner, e i suoi collaboratori Gustav Landauer, Eugen Leviné ed Ernst Toller; gli austriaci Victor e Friedrich Adler e Otto Bauer; gli ungheresi Bela Kuhn, presidente della Repubblica Sovietica Ungherese del 1919, e Gyorgyi Lukacs, uno dei maggiori teorici marxisti del nostro secolo; i bolscevichi russi Jakov Sverdlov, primo presidente dell'Unione Sovietica, Lev Trotski, Lev Kamenev, Grigorii Zinoviev, Karl Radek, Adolf Joffe, David Ryazanov, Mikhail Uritsky, Maksim Litvinov, V.Volodarski (Moiseij Markovic Goldstein), Solomon Lozovsky, Shimon Dimanshtein; i menscevichi russi Paul Axelrod, Lev Deutsch, Julius Martov, Theodor Dan, Mark Liber, Raphael Abramovich; il francese Léon Blum; gli italiani Umberto Terracini, Emilio Sereni, Claudio Treves, Giuseppe Emanuele Modigliani.

Oltre a partecipare come protagonisti di primissimo piano alla storia del movimento operaio internazionale in generale, gli ebrei hanno dato vita, nelle zone di maggior concentrazione ebraica, a specifici partiti e organizzazioni della classe lavoratrice ebraica. Il più importante di questi partiti operai ebraici è stato il Bund (Algemeyner Yidisher Arbeter Bund in Lite, Poyln un Rusland = Unione generale dei lavoratori ebrei in Lituania, Polonia e Russia), fondato clandestinamente a Vilna il 7-9 ottobre 1897. Un anno dopo, il Bund partecipava al congresso di fondazione del Partito operaio socialdemocratico di Russia, del quale entrava a far parte come "organizzazione autonoma; indipendente solo nelle questioni che interessassero specificamente il proletariato ebraico". Concepito dai suoi promotori e aderenti come il Partito del Proletariato ebraico, il Bund si prefiggeva di tutelarne gli interessi politici ed economici lì dove questo proletariato era concentrato.

Lo sviluppo del sionismo provocò di riflesso la progressiva accentuazione degli elementi nazionalistici presenti fin dalle origini nel bundismo e la rottura politica e organizzativa con il Partito operaio socialdemocratico di Russia che avvenne al secondo congresso del Posdr (Bruxelles - Londra, luglio - agosto 1903).

Come ha testimoniato Shimon Dimanshtein, che nei primi anni del potere sovietico è stato direttore del Commissariato centrale per gli affari ebraici del commissariato del popolo alle nazionalità, "la tattica del Bund tendeva a dividere il proletariato della Russia in tante sezioni nazionali quante erano le nazionalità dei paese, cosa che avrebbe condotto il partito sulla stessa via della socialdemocrazia austriaca, con tutti i suoi aspetti negativi, e avrebbe rafforzato il nazionalismo piccolo-borghese".

Nonostante il prevalere nelle sue file delle tendenze "autonomistiche" e "nazionalistiche ebraiche secolari" e benché Plekhanov ne considerasse i membri "sionisti con la paura del mal di mare", il Bund restò sempre violentemente avverso al sionismo e a qualsiasi concezione di una identità nazionale ebraica abbracciante gli ebrei di tutto il mondo indifferentemente dalla loro collocazione di classe, ai quali opponeva la propria ideologia di un nazionalismo antiterritoriale della diaspora.

Le condizioni di miseria e di oppressione degli ebrei russi favorirono, accanto e in concorrenza con il bundismo, la nascita del sionismo socialista. Il primo teorico di questa tendenza fu Nahman Syrkin (1867-1924) un giovane ebreo di Moghilev che nel 1898 illustrò le sue tesi nell'opuscolo Die judenfrage und der sozialistische Judenstaat (La questione degli ebrei e lo Stato socialista degli ebrei). Secondo questo primo profeta e dirigente del sionismo socialista, solo le masse povere avrebbero potuto realizzare l'ideale herzliano di uno Stato degli ebrei, Le masse erano le sole vere portatrici del nazionalismo ebraico e il solo vero socialismo era quello che avesse incluso nel suo programma la soluzione sionista della questione ebraica.

"La società senza classi e la sovranità nazionale -scriveva Syrkin nel suo opuscolo- sono i soli mezzi per risolvere completamente il problema ebraico. La rivoluzione sociale e la fine della lotta di classe normalizzeranno anche le relazioni degli ebrei e del loro ambiente circostante. L'ebreo deve, quindi, raggiungere i ranghi del proletariato, il solo elemento che si sforza di mettere una fine alla lotta di classe e di redistribuire il potere sulle basi della giustizia. L'ebreo è stato l'alfiere del liberalismo che lo ha emancipato come parte della sua guerra contro, la vecchia società; oggi, dopo che la borghesia liberale ha tradito i suoi stessi principi e si è compromessa con quelle classi il cui potere si basa sulla forza, l'ebreo deve diventare l'avanguardia del socialismo".

Vivamente ostile al sionismo spirituale di Ahad Ha-am, Syrkin preconizzava l'immigrazione in massa di lavoratori ebrei in Palestina per ricolonizzarla. Senza di ciò il sionismo era un'impostura o un tradimento. Lo Stato socialista degli ebrei caldeggiato da Syrkin risentiva fortemente l'influenza di Cernicevskij e del Falansterio di Fourier. La terra e gli altri mezzi di produzione dovevano essere proprietà dello Stato. Comuni gigantesche di diecimila membri ciascuna avrebbero dovuto dedicarsi ai lavori agricoli e industriali. Syrkin considerava la lotta di classe come uno dei grandi temi della storia ebraica e interpretava la storia del giudaismo antico in termini di lotta di classe, come la lotta delle masse lavoratrici ebraiche per un modo di vita socialista.

Il suo è però fondamentalmente un socialismo etico e utopistico senza nessuna seria connessione con il marxismo. Come in Hess, il suo socialismo affonda le radici nell'amore per l'umanità e negli ideali della profezia biblica, piuttosto che in una concezione scientifica, classista e rivoluzionaria, della società.

11. Ber Borochov e il sionismo socialista

Ispirato maggiormente al socialismo scientifico e al materialismo storico di Marx ed Engels, è invece il sionismo socialista di Dov Ber Borochov (1881-1917), autore del più consistente e significativo tentativo di conciliare il sionismo e il marxismo. Borochov ha fondato il partito " Poalé Zion " (Operai di Sion), i cui aderenti, a differenza dei bundisti, non "avevano paura del mal di mare", e sostenevano la necessità per gli ebrei di emigrare in Palestina per crearvi uno Stato socialista ebraico.

Nella sua opera, Borochov si propone di analizzare la storia degli ebrei e la loro posizione nella società da un punto di vista marxista. In realtà, però, il suo sforzo si esaurisce nel tentativo di applicare meccanicamente, in astratto, alcune tesi marxiste alla questione ebraica. Egli non considera gli ebrei all'interno della società, ma li isola, assumendoli come un'entità a sé stante. Di questa entità egli analizza la struttura sociale che gli appare anormale, come una piramide rovesciata la cui ristrettíssima base è costituita da un insignificante numero di operai e contadini, e che, a mano a mano che si procede verso l'alto, presenta strati sempre più larghi di commercianti, di intermediari, di imprenditori e di finanzieri. In altri termini, per Borochov la struttura della società ebraica è caratterizzata da una massiccia prevalenza numerica della borghesia sul proletariato. Dato che, però, secondo Marx, l'avvento del socialismo è possibile solo a partire da un diffuso proletariato che costituisca la schiacciante maggioranza della popolazione, per realizzare il socialismo tra gli ebrei Borochov sostiene la necessità di provvedere a una ristrutturazione della società ebraica che sia in grado di rimettere sulla sua base naturale la piramide, restituendo agli ebrei un assetto economico-sociale più conforme alla normalità. Questa ristrutturazione della società ebraica poteva essere conseguita, secondo Borocbov, solo mediante la concentrazione territoriale degli ebrei in Palestina.

"La liberazione del popolo ebraico -scriveva nel 1906- avverrà per mezzo del movimento operaio o non avverrà affatto. Però al movimento operaio non rimane che una strada: quella della lotta di classe; e la lotta di classe non è di nessun beneficio e non conduce ad un miglior avvenire altro che quando rivesta un carattere politico. Il territorialismo può costituire per il popolo ebraico un intenso bisogno, che esige imperiosamente di essere soddisfatto, e con tutto ciò non sarà che un'utopia, se il proletariato ebraico organizzato, rivoluzionario non si unirà al movimento territorialistico e non lo realizzerà col metodo proprio a lui solo: cioè mediante la lotta di classe. Non c'è posto nella vita per il sionismo proletario altro che quando il sionismo sia realizzabile per mezzo della lotta di classe; non c'è posto nella vita per il sionismo se non quando esista un sionismo proletario. Ma se il proletariato ebraico non ha una sua strada, tutta sua, per attuare il sionismo, tutto quanto il sionismo non è che un sogno vacuo e nient'altro".

Così, anche Borochov, sia pure con motivazioni diverse da quelle tradizionali di ordine storico e religioso, finisce coll'indicare la Palestina come sede dell'insediamento nazionale ebraico.

"Il bisogno che hanno gli ebrei di emigrare -scriveva ancora- non può essere soddisfatto né avviandosi a paesi di grande capitalismo, come hanno fatto nella precedente emigrazione, né dirigendosi verso paesi a vasta ruralità. L'emigrazione ebraica deve rivolgersi verso un paese a carattere semirurale, verso la Palestina. La Palestina è l'unico paese in cui gli ebrei non hanno da temere né d'incontrare un'opposizione organizzata né di essere respinti. In tutti gli altri paesi le inferiorità civili e il divieto di immigrazione non sono che espressioni della miseria della popolazione locale che non vuole concorrenti stranieri".

Da quanto precede risulta con chiarezza come nella costruzione teorica di Borochov (al di là della sincerità e della coscienza che ne aveva l'autore) il marxismo rappresenta solo una facciata, un pretesto, mentre la sostanza, la realtà è rappresentata da un sionismo spinto all'estremo. Particolarmente significativo appare quanto egli scrive sui rapporti, di aperto carattere coloniale, da instaurare in Palestina tra ebrei e arabi: "Gli abitanti della Palestina non sono un tipo economico autonomo. Sono sparsi e senza legame, non solo a causa della costituzione geografica del paese e per la molteplice varietà delle religioni, ma anche perché il paese è come un ospizio internazionale. Gli abitanti della Palestina non sono una nazione e non lo saranno per molto tempo. Facilmente e presto ricevono qualunque tipo culturale più alto, che sia importato di fuori. Non posseggono forza sufficiente per unirsi allo scopo di fare opposizione organizzata alle influenze straniere. Non sono capaci di una concorrenza nazionale; la loro emulazione è individuale, parziale. Una parte degli abitanti della Galilea si è russificata nel corso di alcune decine d'anni per influsso di qualche decina di scuole e seminari russi. I fellah vicini alle colonie ebraiche mandano volentieri i loro bambini alle scuole ebraiche. Gli abitanti della Palestina riceveranno qualsiasi tipo economico e culturale che conservi la posizione economica predominante nel paese. Gli abitanti della Palestina si assimileranno economicamente e culturalmente a quelli che porteranno ordine nel paese e che assumeranno il compito di sviluppare le energie produttive della Palestina, e gli abitanti del luogo si assimileranno in corso di tempo, economicamente e culturalmente, agli ebrei".

In definitiva, come si vede, l'opera di Borochov, che pure è stato il teorico più profondo del sionismo socialista, dimostra l'impossibilità di una sintesi tra l'ideologia sionista e il marxismo, tra il movimento sionista e la rivoluzione socialista.

12. Il sionismo armato: Jabotinsky e il revisionismo

Nel panorama complesso ed estremamente vario delle ideologie e dei movimenti sionisti, una posizione di eccezionale importanza è occupata dal sionismo revisionista, la tendenza di estrema destra, sciovinista e aggressiva, con venature non superficiali di fascismo, che ha avuto il suo massimo teorico e organizzatore nell'ebreo russo di Odessa Vladimir Ze'ev Jabotinskv (1880-1940). E questo non solo per la notevole personalità del suo fondatore, ma anche perché, al di là di tutte le apparenze e le dichiarazioni contrarie, quella estremista di Jabotinskv ha finito con l'essere la linea vincente, e perché l'ideologia revisionista ha permeato più profondamente di qualsiasi altra la realtà dello Stato di Israele, fino a divenire l'ideologia ufficiale con la conquista del potere in Israele, nel maggio del 1977, da parte di Menahem Begin che di Jabotinsky è il maggior erede.

Ragazzo prodigio e terribile del sionismo, del quale è stato senza dubbio la figura più controversa, Vladimir Jabotinsky si dedicò con successo, giovanissimo, al giornalismo. Al sionismo si avvicinò nel 1903 quando collaborò nella nativa Odessa alla creazione di un corpo di autodifesa ebraica contro le violenze antisemite. Fino alla prima guerra mondiale visitò numerosi paesi europei (dal 1898 al 1901 visse in Italia dove seguì i corsi dell'Università di Roma) e si trattenne per qualche tempo in Turchia al tempo della rivoluzione giovane turca.

Nonostante il suo ardore sionista, fino allo scoppio della guerra egli non riuscì a emergere dai ranghi del movimento. Seguace di Herzl, egli era convinto che il sionismo aveva un senso solo se avesse posto al centro della sua ideologia e della sua azione pratica la lotta politica decisa per la creazione di uno Stato ebraico. Era quindi contrario al sionismo pratico e a quello sintetico di Weizmann, che dopo la morte di Herzl divenne la tendenza principale. Convinto che né i turchi né gli arabi avrebbero mai accettato gli obiettivi del sionismo, egli considerava inutile la cautela con cui i maggiori esponenti del sionismo parlavano dei fini ultimi del movimento per non inimicarsi il governo di Costantinopoli e gli arabi. La colonizzazione della Palestina dipendeva, secondo lui, dalle realizzazioni politiche e, in definitiva, dai rapporti di forza.

Dopo l'entrata dell'Impero Ottomano nella prima guerra mondiale, egli acquistò la convinzione che le prospettive delle aspirazioni sioniste dipendevano dal successo degli Alleati nella guerra e dalla loro volontà politica. Per ottenere l'appoggio della Gran Bretagna e dei suoi alleati al progetto di creare una sede nazionale ebraica in Palestina, Jabotinsky, insieme ad altri esponenti sionisti che condividevano le sue posizioni massimaliste (in particolare Joseph Trumpeldor e Pinhas Rutember), suggerì la creazione di unità militari volontarie composte da ebrei da inquadrare negli eserciti alleati (la Legione ebraica). Egli stesso si arruolò come soldato semplice e finì la guerra col grado di tenente.

Nel 1920 egli diresse a Gerusalemme la difesa ebraica contro gli arabi. Arrestato dalle autorità britanniche venne condannato a 15 anni di lavori forzati. Dopo pochi mesi di carcere venne amnistiato dall'Alto Commissario britannico in Palestina, Herbert Samuel. Successivamente la condanna venne del tutto cassata dal comandante in capo britannico in Egitto.

Nel marzo del 1921 entrò nell'esecutivo sionista dal quale si dimise due anni dopo per protestare contro la politica di Weizmann. Alla decisione di dimettersi non dovette comunque essere estraneo il discredito che lo aveva colpito dopo le rivelazioni sui suoi tentativi di allearsi con il regime nazionalista e antisemita ucraino in esilio di Petliura per invadere l'Ucraina sovietica partendo dalla Polonia.

Nel 1925 Jabotinsky creò un partito massimalista di estrema destra, l'Unione mondiale dei sionisti revisionisti (Zohar) di cui fu l'deologo e capo assoluto fino alla morte avvenuta nel 1940 negli Stati Uniti (a partire dal 1929, quando egli uscì dalla Palestina per partecipare al XVI congresso sionista a Zurigo, le autorità britanniche gli impedirono di rientrare nel paese). Nel 1935 provocò una scissione nell'Organizzazione Sionista mondiale e creò la concorrente Nuova Organizzazione Sionista.

Filiazioni del partito di Jabotinsky furono il movimento giovanile revisionista Betar e le organizzazioni terroristiche Irgun Zevai Leumi (Organizzazione militare nazionale) creata nel 1931 come braccio armato clandestino del partito revisionista, e Lehi (Lohamei Herut Israel = Combattenti per la libertà di Israele) più nota come "banda Stern", fondata nel 1940 da dissidenti dell'Irgun.

Il credo politico e ideologico di Jabotinsky può essere riassunto nei seguenti punti: cessazione del Mandato britannico sulla Palestina; creazione immediata di uno Stato ebraico sulle due rive del Giordano (quindi anche in Transgiordania); educazione nazionalistica e militarista della gioventù; antimarxismo, anticomunismo e antisovietismo di principio; conservatorismo economico; rifiuto della lotta di classe; mistica dello Stato; creazione di uno Stato autoritario e corporativo.

"Al principio della formazione della società -scriveva nel 1933-, le classi non sono classi, i proletari non sono proletari e la borghesia non è borghesia. Essi sono solo "pionieri", solo "halutzim" [... ] l'idea della lotta di classi in Erez Israel costituisce niente più che una menzogna", essendo impensabile la solidarietà tra proletari ebrei e arabi. E poiché, nonostante tutto, bisognava riconoscere che "gli interessi privati degli operai non sono gli stessi degli interessi privati del loro datore di lavoro", egli indicava la soluzione di questo conflitto di interessi nell'intervento autoritario e corporativo dello Stato: "Arbitrato nazionale obbligatorio in tutte le controversie sociali nell'economia ebraica e anatema contro i due delitti nazionali, che si chiamano sciopero e serrata".

Si è a lungo discusso se il sionismo revisionista sia stato una "variante ebraica del fascismo" e se il partito di Jabotinsky abbia avuto "carattere nettamente fascista".

Secondo Carlo Leopoldo Ottino, "le coincidenze ed affinità non condussero Jabotinsky e buona parte dei suoi seguaci ad una vera e propria adesione al fascismo. Ne furono ostacolo, più che una sensibilità per i principi democratici talvolta anche affermata, ma su cui è lecito nutrire vari dubbi, l'esclusivismo ideologico [... ], la necessità assoluta di non rompere i ponti o screditarsi completamente con i vasti settori mondiali più o meno avversi al totalitarismo fascista e -ultima ma non secondaria ragione- il deterioramento e poi il rapido precipitare dei rapporti col fascismo man mano che questo andò imboccando la strada filonazista. Verso il III Reich infatti la preclusione di Jabotinsky era stata tempestiva: non si trattava tanto di una questione di sistema, ma pregiudiziale e vitale era l'opposizione a quel regime che aveva sin dal principio sistematicamente teorizzato e adottato la discriminazione razziale, la persecuzione antisemita", che è quanto dire che, se non fosse stato per l'antisemitismo, per il resto revisionismo, fascismo e nazismo avrebbero potuto trovare solide basi di convergenza e di collaborazione.

Il problema del "fascismo" del revisionismo non può però essere correttamente esaminato e liquidato guardando solo ai rapporti del revisionismo con il fascismo italiano e tedesco. Questo problema va affrontato esaminando in sé e per sé i principi teorici e la pratica politica del movimento di Jabotinsky. Ora, collocandoci in questa prospettiva, non c'è dubbio che il revisionismo abbia presentato caratteri fascisti non secondari né superficiali: dal nazionalismo esasperato e sciovinista al militarismo più aggressivo, dal razzismo antiarabo all'odio mortale per il marxismo, il comunismo e l'Unione Sovietica, dal corporativismo alla mistica dello Stato, dalla volontà di sopprimere la lotta di classe a tutta la generale ispirazione reazionaria, totalitaria e antidemocratica.

Quel che qui maggiormente interessa, comunque, è il posto del revisionismo nel quadro del sionismo. E' indubbio che le idee di Jabotinsky hanno finito col permeare tutta l'ideologia sionista e le strutture dello Stato di Israele, molto prima dell'accesso dell'erede di Jabotinsky, Menahem Begin, al potere.

Come scriveva nel 1947 il presidente dell'Università ebraica di Gerusalemme, Judah L. Magnes, "uno Stato ebraico può essere ottenuto, se mai lo sarà, solo con la guerra […]. Potete parlare a un arabo di qualsiasi cosa, ma non gli potete parlare dello Stato ebraico, E questo perché uno Stato ebraico significa, per definizione, che gli ebrei governano altre persone, altre persone che vivono in questo Stato ebraico […]. Jabotinsky lo ha saputo da sempre. Egli è stato il profeta dello Stato ebraico. Jabotinsky ha ricevuto l'ostracismo, è stato condannato, scomunicato. Ma vediamo attualmente che quasi tutto il movimento sionista ha adottato il suo punto di vista […]. Nei suoi primi scritti egli ha detto: "Si è mai visto un popolo dare il proprio territorio di spontanea volontà? Del pari, gli arabi di Palestina non rinunceranno alla loro sovranità senza violenza" [ …]. Tutte queste cose sono ora adottate da coloro che lo hanno scomunicato".

13. Un primo bilancio provvisorio

A questo punto val la pena di presentare e commentare brevemente alcuni dati demografíci di rilevante significato storico e politico utili per valutare l'estensione e l'influenza effettive del sionismo.

Come già detto, nel 1800 gli ebrei di Palestina erano valutabili in circa 10.000. Divennero via via: 12.000 nel 1850; 24.000 nel 1880; 35.000 nel 1890; 55.000 nel 1900; 80.000 nel 1910; 85.000 nel 1914. Degli 85.000 ebrei viventi in Palestina allo scoppio della prima guerra mondiale, 35-40.000 erano immigrati che possiamo definire sionisti. Poiché tra il 1882, data d'inizio della prima Aliah, e il 1914 erano entrati in Palestina oltre 100.000 ebrei, risulta che oltre il 60 per cento di questi olim, dopo un periodo per lo più breve passato nella "Terra dei padri", avevano preferito andarsene altrove, per lo più negli Stati Uniti (tra questi lo stesso autore dell'Ha-Tikva, l'inno nazionale sionista). A conti fatti l'accrescimento naturale annuo della popolazione araba palestínese corrispondeva quasi al numero totale di ebrei installatisi in Palestina in un periodo di circa 40 anni.

Durante la prima guerra mondiale la popolazione ebraica della Palestina diminuì di circa 30.000 unità. Secondo il censimento fatto nel 1919 dal Palestine Zionist Office, alla fine della guerra gli ebrei palestinesi erano circa 56.000.

Con l'istituzione del Mandato e della "sede nazionale ebraica" dopo la prima guerra mondiale, la popolazione ebraica riprende a crescere, soprattutto grazie alle misure favorevoli all'immigrazione adottate dalla potenza mandataria.

Nel periodo tra il 1881 e il 1930 il totale degli ebrei emigrati in vari paesi da quelli di origine fu di circa 4 milioni di persone (per la precisione 3 milioni 975). Di questi. solo 210.000 andarono nella cosiddetta "Terra dei padri", e quelli che vi rimasero furono meno di 120.000, cioè appena il 3 per cento. Se limitiamo l'indagine al decennio 1921-1930, in corrispondenza con la creazione della sede nazionale ebraica, abbiamo che gli ebrei emigrati complessivamente furono 683.812. Di questi, 110.006, pari al 16,1 per cento, emigrarono in Palestina. L'afflusso maggiore si ebbe nei primi anni, fino al 1926, con una punta massima di 33.801 immigrati nel 1925 in coincidenza con lo scatenamento di un'ondata di antisemitismo in Polonia (aliah di Grabski, dal nome di Wladyslaw Grabski, capo del governo polacco che aveva varato una legislazione antiebraica).

Le cifre parlano chiaro: la creazione della "sede nazionale ebraica" è servita ad attirare in Palestina un numero maggiore di ebrei rispetto ai decenni precedenti. Tuttavia, l'84 per cento degli ebrei emigrati negli anni Venti, cioè la schiacciante maggioranza, preferirono altri paesi alla loro "patria storica".

Per essere interpretati correttamente, questi dati hanno però bisogno di essere integrati con un'altra voce e, quindi, di un ulteriore e più approfondito esame. Infatti, anche se meno documentato del flusso immigratorio, è sempre esistito un flusso emigratorio di ebrei dalla Palestina. Dato che nel decennio 1921-1930 il saldo attivo tra immigrazione ed emigrazione è stato di circa 73.000 unità, risulta che nel primo decennio della "sede nazionale" hanno abbandonato la Palestina ben 37.000 ebrei, pari al 33,6 per cento degli immigrati. Addirittura, nel 1927, per 2713 immigrati vi furono 5071 emigrati con un saldo passivo di 2358 unità. Nel 1928 il saldo attivo fu di 10 unità (2178 immigrati e 2168 emigrati). Da rilevare il fatto che il 75 per cento di questi emigrati erano venuti in Palestina dopo la fine della prima guerra mondiale, a conferma della tendenza secondo cui la passione sionista si attenua o si smorza una volta approdati nella "Terra promessa" .

La conclusione generale che questi dati ci consentono di trarre, al di là di qualsiasi elucubrazione e manipolazione, è che il sionismo è rimasto praticamente estraneo alle grandi masse ebraiche ed è stato un fenomeno del tutto marginale nella storia ebraica, un fenomeno quanto meno sopravvalutato.

Nel 1931, che possiamo considerare come ultimo anno normale per la vita ebraica, in Palestina, su una popolazione complessiva di 1.035.154 abitanti, gli ebrei erano 175.006, pari al 16,9 per cento. Gli arabi Palestinesi rappresentavano l'83,1 per cento della popolazione del paese. A quella data la popolazione ebraica mondiale ammontava a 15.152.512 persone. Gli ebrei di Palestina erano quindi una minuscola frazione, appena l'1,5 per cento della popolazione ebraica mondiale.

Le cose cambieranno dopo l'avvento del nazismo al potere in Germania. Nei 7 anni dal 1933 al 1939, in Palestina affluiranno oltre 200.000 ebrei raddoppiando la popolazione israelitica del paese. Ma non si tratterà di gente andata a costruirsi uno Stato, bensì di disperati alla ricerca di un rifugio, che non riuscivano a trovare altrove.

Dal 1933 al 1939 crolla verticalmente il numero degli immigrati "puri", "sionisti". Il senso tragico di questa realtà è dato dalla domanda agghiacciante che gli ebrei di Palestina erano soliti porre ai nuovi arrivati: "Perché siete venuto in Palestina? Per idealismo o dalla Germania?".

Anche dopo la seconda guerra mondiale e lo sterminio di sei milioni di ebrei nei campi della morte nazisti, l'immigrazione in Palestina è più una drammatica necessità che una scelta libera e precisamente motivata. I sopravvissuti alla "soluzione finale della questione ebraica" volevano tornare alle loro case d'origine o emigrare in altri paesi, ma solo una parte avevano la Palestina come meta al loro viaggio.

Nel suo "Rapporto preliminare al presidente Truman sui profughi in Germania e Austria", dell'agosto 1945, il rappresentante americano nel Comitato intergovernativo per i rifugiati, Earl G. Harrison, scriveva: "Per ragioni ovvie e che non è necessario discutere, la maggior parte degli ebrei vogliono abbandonare appena possibile la Germania e l'Austria. [...] Una parte desiderano tornare nei loro paesi d'origine, ma tra questi esistono diverse varianti nazionali. Pochissimi ebrei polacchi o baltici desiderano tornare nei loro paesi; la maggior percentuale dei gruppi ungherese e romeno vuole rimpatriare [...]. Con riferimento ai possibili luoghi di nuova installazione per coloro che sono apolidi o che non desiderano rientrare nelle loro sedi, la scelta principale cade definitivamente e prevalentemente sulla Palestina. Molti adesso hanno i loro parenti in questo paese, mentre altri, che hanno sperimentato per anni l'intolleranza e la persecuzione nelle loro patrie, ritengono che solo in Palestina possono essere i benvenuti, trovare pace e quiete e avere un'opportunità di vivere e lavorare. Nel caso degli ebrei polacchi e baltici, il desiderio di andare in Palestina è basato nella grande maggioranza dei casi sull'amore per il paese e sulla devozione per l'ideale sionista. E' anche vero, d'altra parte, che ci sono molti che vogliono andare in Palestina perché si rendono conto che le loro possibilità di essere ammessi negli Stati Uniti o in altri paesi dell'emisfero occidentale sono limitate, se non inesistenti. Qualunque sia il motivo che li spinga a volgersi verso la Palestina, è indubbiamente vero che la grande maggioranza degli ebrei attualmente in Germania non intendono tornare nei paesi dai quali sono venuti. La Palestina, anche se chiaramente la scelta della maggior parte, non è il solo luogo indicato di possibile immigrazione. Alcuni, ma il numero non è eccessivo, desiderano immigrare negli Stati Uniti dove hanno i loro parenti, altri in Gran Bretagna, nei Dominions britannici o in Sud America".

Per convogliare in Palestina i sopravvissuti del grande olocausto fu necessario sguinzagliare in Europa gli emissari dell'Aliah Beth (l'organizzazione incaricata di promuovere l'immigrazione clandestina in Palestina) che svolsero un'ampia opera di convinzione e di organizzazione. Al grosso del lavoro provvidero, però, gli Stati Uniti che, decisi a non assorbire i superstiti ebrei d'Europa, fecero di tutto per dirottarli in Palestina, contro la volontà della Gran Bretagna e spesso contro la volontà degli stessi ebrei che furono costretti a scegliere la "terra promessa" per mancanza di un altro luogo disposto ad accoglierli.

Una prima conclusione che possiamo trarre da quanto precede è che vicende che hanno portato alla creazione dello Stato ebraico in Palestina, più che un trionfo degli ideali del sionísmo, sono il risultato dell'antisemitismo: non solo di quello nazista, ma anche di quello delle "democrazie" occidentali che, dopo la seconda guerra mondiale, chiusero brutalmente la porta in faccia all'immigrazione ebraica costringendola a orientarsi verso la Palestina.

Questo fallimento del sionismo era stato sottolineato, nel senso di cui sopra, dal grande storico ebreo, nazionalista e antisionista, Simon Dubnov che nella sua Storia moderna del popolo ebraico (edizione tedesca del 1920-1923) ha scritto: "Lilienblum, Pinsker, Lewanda, delusi nella loro speranza nell'emancipazione civile, hanno lanciato la parola d'ordine: "Siamo stranieri dovunque, dobbiamo tornare a casa nostra!". Questa risposta semplice, elementare alla complessa questione nazionale è stata per molti una teoria seducente, ma nella pratica ha fatto maturare solo conseguenze limitate. Le grandi masse di emigranti non potevano trovare posto sufficiente sullo stretto sentiero della colonizzazione palestinese che intravvedevano i pionieri e gli entusiasti dell'idea. L'emigrazione annuale di alcune centinaia di uomini in Palestina, mentre decine di migliaia partivano contemporaneamente per l'America, faceva apparire senza fondamento le speranze di trapianto del centro del popolo ebraico dalla Diaspora alla patria storica".

Dal canto suo, lo storico Walter Laqueur ha scritto: "Lo Stato ebraico vide la luce proprio nel momento in cui il sionismo aveva perso la sua ragion d'essere, che era di apportare una soluzione alla dura condizione degli ebrei ell'Europa orientale. [... ] Senza il massacro di milioni di ebrei e l'eccezionale congiuntura che si presentò alla fine della guerra, lo Stato ebraico non avrebbe mai visto la luce".

Ed è questa una pietra tombale impietosa ma giusta, posta da mano non sospetta, sul sionismo e sulla sua pretesa di risolvere totalmente e per sempre la questione degli ebrei.