Pino Blasone

1. Archeologia della politica

 

Nous e phrên

Agli esordi della speculazione greca, per designare l'attività del pensiero consapevole troviamo impiegati due verbi. Sia il noeîn prescelto da Parmenide sia il phroneîn preferito da Eraclito significano, infatti, "pensare". Si potrebbe considerarli semplici sinonimi, se non fosse, fra l'altro, per un frammento superstite del poema sulla Natura di Eraclito. Retoricamente, ivi egli si interroga: Tis autôn noos ê phrên? ("Quale la loro intelligenza, quale il loro sentimento?"). Nel sostantivo noos -- meno arcaica, la forma contratta nous -- si riconoscerà la radice verbale di noeô, e in phrên quella di phroneô.

Come del resto quelle che seguono, la traduzione qui sopra in italiano è imperfetta. Probabilmente, non potrebbe essere altrimenti. Ma essa tende a rendere la sfumatura di senso, che distingue un concetto dall'altro. Il primo denota un'operazione eminentemente intellettiva, stando noos generalmente per "mente". Il secondo allude a una riflessione che tenga conto di una intuizione sentimentale, se non addirittura a carattere mistico o misterico, dato il significato originario più viscerale e perfino anatomico del termine phrên, usato già al plurale nell'Iliade. Solo un dio superiore o assoluto avrebbe posseduto entrambe le facoltà fuse in una sola, aveva affermato Senofane: "esente da travaglio sommuove tutte le cose, col senno della mente [noou phreni]".

Nella tragedia Edipo a Colono Sofocle farà proferire le seguenti parole ai pii anziani, interdetti dalla condotta di Edipo ritenuta irriverente: aderktôs, aphônôs, alogôs to tâs euphamou stoma phrontidos ientes ("mentre passiamo senza guardare, senza emettere voce né parole, benedicendo con le labbra del pensiero"). Il coro si aggira intorno al recinto sacro alle Eumenidi, le cui soglie sono state violate dal cieco forestiero. Nell'espressione carica di apprensione stóma phrontidos, che abbiamo tradotto "labbra del pensiero", di nuovo è riconoscibile la radice di phrên e di phroneô. In veste letteraria, essa precorre peraltro la distinzione degli stoici e di Filone ebreo fra logos endiathetos e prophorikos: "discorso interiore" e "proferito".

Coerente con la formazione o vocazione dionisiaca di Eraclito e di Sofocle, la rappresentazione attinge motivazioni alle profondità inconsce del proprio e dell'altrui essere, perché faticosamente affiorino alla superficie della coscienza. Il pathos, più ancora che il logos, agevola e accompagna l'operazione interrogante e di confronto. Questa inoltre è corale, attraversando a più riprese l'intera azione drammatica. Tale, in sintesi, il tracciato interpretativo e catartico della tragedia greca nel suo complesso, ripercorso ad altri e diversi livelli dai moderni Nietzsche e Freud.

Famosa e icastica è la massima di un frammento del poema, pure intitolato Sulla Natura, di Parmenide: To gar auto noeîn estin te kai eînai ("Lo stesso è pensare ed essere"). Altrove l'eleate si sforza di spiegare: "Sono lo stesso pensare [noeîn] e ciò per cui sussiste il pensiero [noêma]. Infatti senza l'ente, là dove esso trova espressione, non troverai il pensare". Specialmente nel primo caso, l'asserzione ha la forza di una folgorazione. Ma la seconda citazione chiarisce come il filosofo intenda rimarcare la capacità dell'atto intelletivo di concepire l'essenza dell'essere nella sua immediatezza e interezza. A tal punto, che l'operazione risulta reversibile e assume la denotazione di una identità, perdendo la connotazione di evento eccezionale o occasionale.

Non meraviglia, in ogni caso, che il proto-filosofo insiste nell'uso di termini quali noeîn e noêma. Difficilmente, ve ne potrebbero essere di meglio appropriati. Da Platone a Kant, è nota la fortuna del termine noumenon. Ancora nel '900, noêma e noêsis saranno ripresi nella fenomenologia di Edmund Husserl, per indicare l'aspetto oggettivo e quello soggettivo della coscienza. Altro però è il ritmo meditativo della phronêsis di Eraclito, o della phrontis di Sofocle. Si tratta di penetrare il senso, più che di coglierlo sia pure una volta per tutte. Aspirazione comune a Parmenide e ad Eraclito, la a-lêtheia ("verità") va spogliata pazientemente dei suoi veli anziché rivelarsi alla mente all'improvviso, per quanto ben "tornita" e "compatta" quella possa apparire stando alle suggestive immagini parmenidee. Presumibilmente in merito, un esiguo frammento eracliteo parla di anchibasiê, "avvicinamento".

Non dovrebbe tuttavia esserci antinomia tra phronêsis e noos, fra intuizione sentimentale ed esperienza intellettiva. Anzi, la prima è propedeutica alla seconda, o quest'ultima semplicemente costituisce un grado d'intensità maggiore rispetto alla prima: "A tutti gli uomini compete conoscere se stessi ed esercitare la phronêsis". Il verbo che qui si è tradotto "esercitare la phronêsis" è appunto phroneîn, nell'originale. Quando il procedimento funziona a dovere, non c'è frattura tra i due livelli del pensiero. La phronêsis continua ad agire quale sostrato del noos, sostanza che traspare attraverso la superficie della coscienza. A sua volta, il noos è garante che il discorso rientri in una logica generale: il logos eôn, ossia il "logos che è" -- un ente ocomplessivo dinamico, ben diverso dall'eon statico e conchiuso di Parmenide --, in cui noos e phronêsis interagiscano.

Se lette nella loro consequenzialità, è quanto attestano due opposte citazioni da Eraclito: "Quelli che parlano in accordo col noos, occorre che si basino su ciò che è comune"; "Sebbene il logos sia comune, i più vivono quasi fossero in possesso di una phronêsis tutta loro". E' da notare che per il pensatore efesino logos e senso comune non sono comunque equiparabili. Ma, nemmeno, la phronêsis è riducibile alla doxa parmenidea. Tanto meno, all'"opinione" del singolo. Il consenso o l'accordo, cui si allude, è il frutto della ricerca di un'intima e superiore armonia, delfica corrispondenza tra sé, comunità e cosmo (Lo Stato in noi è intitolato un bel capitolo della Paideia di Werner Jaeger, benché dedicato alla Repubblica platonica).

E' semmai in un tale nodo paradigmatico che va individuata quella valenza e autosufficienza per così dire ontologica della comunità originaria, teorizzata di recente in Francia dal filosofo Jean-Luc Nancy in La comunità inoperosa. Il recupero all'attualità di una dimensione libertaria ideale, che ha comunque consentito alla vita associativa di sublimarsi in società civile, è altresì auspicato da Giorgio Agamben nel saggio La comunità che viene. Una comunità, in cui il baricentro della sovranità sia interno alla stessa anziché impositiva proiezione esterna. Salva restando, con qualche beneficio di inventario, la simbolica specularità kantiana fra "cielo stellato" e "legge morale", il problema politico è destinato a risorgere come istanza e bisogno interiore, ancor prima di esprimersi in una qualsiasi forma di realizzazione o impegno.

 

Phronêsis e sôphrosunê

Che accade quando quella dialettica è perturbata, e quell'apollineo equilibrio si incrina? Nonostante il parere di Nietzsche, nella cultura ellenica l'elemento dionisiaco e quello apollineo non erano aspetti inconciliabili bensì complementari, ha osservato Giorgio Colli in La nascita della filosofia. E' di nuovo Sofocle a suggerire risposte, nel finale della trilogia iniziata con l'Edipo re e conclusasi con l'Antigone. Sebbene essa rifletta un dissidio contemporaneo evidenziato dai sofisti, l'intera saga tebana gravita intorno alla città sacra a Dioniso, insofferente di freni apollinei. La priorità "naturale" degli interessi della comunità costituita rispetto a quelli familiari e individuali, sostenuta nella Politica di Aristotele, non avrebbe incontrato facili consensi nell'arcaica Tebe.

Ma qui, ancor più che una dialettica discorsiva, se ne rappresenta una fatta di cose e di eventi, i quali si incalzano verso l'epilogo del dramma collettivo. L'equilibrio in crisi è costituito dal nomos della polis, la legge della città-stato in cui si incarnava l'assetto politico dei greci. Quanto all'uomo che la abita, egli, che consta di psuchê, phronêma, gnômê ("anima, discernimento, ragione"), attraverso quello scompenso torna ad essere un mistero indecifrabile. Ogni tentativo di normalizzarlo o di controllarlo è votato al fallimento.

Nella loro concezione e applicazione, le leggi della politica dovrebbero invece rispecchiare un logos comune, come quest'ultimo è riflesso di un logos naturale. In altre parole, il nomos dovrebbe stare alla polis come il logos alla phusis. Per inciso, il rapporto tra phusis e nomos è stato ripreso in una lettera di Hannah Arendt, che ne ha dato una bella definizione con esplicita valenza contemporanea: "Esiste una sorta di gratitudine di fondo per tutto ciò che è così come è; per ciò che è stato dato e non è, né potrebbe essere, fatto; per le cose che sono phusei e non nomô. Indubbiamente un simile atteggiamento è pre-politico, ma in circostanze eccezionali […] è destinato ad avere anche conseguenze politiche".

Lo stesso ideale di isonomia, uguaglianza di fronte alla legge e nella partecipazione politica dei cittadini, scaturirà da tali presupposti. Se una simile armonia non si verifica -- è il caso della pretesa "ragion di Stato" imposta a Tebe --, le conseguenze sono phrenôn dusphronôn amartêmata, "errori di menti dementi". Perfino il tiranno Creonte è costretto ad ammetterli, a suo e ad altrui danno. L'assunto eracliteo della phronêsis acquista vissuta ragionevolezza. Il suo opposto degenera in empia arroganza (hubris), poiché uno Stato in germe ha preso a prevaricare la comunità. Sempre Eraclito aveva ammonito che "l'arroganza va spenta più di un incendio". Ed è ancora il coro sofocleo a trarre le conclusioni: pollô to phroneîn eudaimonias prôton uparchei ("Di gran lunga l'essere ragionevoli è prima condizione del buon vivere").

Creonte aveva agito in nome delle sue idee di governo della polis. Antigone aveva fatto sue le ragioni della phusis, anche se va specificato che questa "natura" non è esattamente quella poi intesa da Aristotele. In epoca moderna, l'Alfieri prenderà le parti della ribelle Antigone, mentre Hegel giustificherà lo "Stato etico" perseguito da Creonte. Il travagliato spettro semantico della phronêsis, ovvero della phrontis, sembrerebbe essersi comunque esaurito. Particolare rivelatore, phrontistêrion è il "pensatoio" al cui interno viene ritratto Socrate, nella caricatura che ne fa Aristofane in Le nuvole. Fuori-scena, la commedia avrà un tragico seguito: la condanna di Socrate.

C'è però un composto che ricorre di frequente, sebbene con sfumature di significato diverse, da Democrito a Euripide e soprattutto a Platone: nel Carmide, nel Gorgia, nel quarto libro della Repubblica. Esso è sô-phrosunê: un prefisso che indica sanità o salvezza, più la solita forma derivata dalla radice di phrên e di phroneô. Si tratta appunto di una phronêsis, determinata nella funzione di conferire sanità e salvezza all'individuo o al gruppo che se ne fa portatore. Apollinea saggezza o prudenza, spesso intesa in un'accezione etica e politica, al punto da divenire virtù pubblica per eccellenza.

Senza necessariamente contrapporla ad esso, in Le origini del pensiero greco Jean-Pierre Vernant ha accostato la sôphrosunê all'omerico thumos. Questo è l'animo in quanto sede di emozioni o passioni, ma anche a volte di arrischiata follia, di una hubris che si oppone essa sì alla phusis e in qualche modo per antitesi la qualifica. Thumô machesthai chalepon: "Con la passione è arduo combattere", aveva sentenziato Eraclito. In effetti la padronanza di sé, che la sôphrosunê comporta, contribuisce a una società virtualmente libera, upò mêdenos kratoumenê: "non sottomessa al dominio di nulla", per riportare fra noi una cosmica visione di Anassimandro.

Differisce in una certa misura l'interpretazione del termine, che darà Aristotele. Nell'Etica nicomachea, egli identificherà la phronêsis direttamente con la prudenza, distinguendola successivamente dalla sophia o sapienza. Secondo lo stagirita, sô-phrosunê viene a designare la virtù, che tende a preservare la prudenza stessa. Più puntuale benché tarda, la definizione di essa nelle Sentenze del neoplatonico Porfirio: "temperanza consistente nell'armonizzare le passioni con una valutazione razionale". Compito, quest'ultima, appunto della phronêsis. Siamo tuttavia di fronte a una parziale tautologia, spiegabile da un lato con l'esigenza di ridimensionare al rango di "moderazione", e di richiamare alla consapevolezza dei propri limiti, la portata del concetto.

D'altronde, i tempi mutati inducono a privarlo delle implicanze teoretiche, che pure lo avevano caratterizzato in precedenza. Già da Platone e poi da Aristotele esso è promosso alla dignità di una sorta di "filosofia pratica", di una saggezza orientata alla prassi e comunque superiore o complementare con la technê: il saper-fare della produzione materiale e artistica, che ha rimpiazzato la sophia inizialmente riconosciuta anche ad artigiani e artisti. Intanto, vengono meno condizioni e occasioni per il consolidamento epistemico delle scienze della natura, sorte in età presocratica. Pur acquistando in autonomia e specializzazione, il loro empirico slancio cede il posto alle astrazioni dello spirito sistematico in un quadro immobilistico. Il che coincide, non a caso, con la giustificazione dell'economia schiavistica nel primo libro della Politica di Aristotele.

In tal senso, la sôphrosunê si avvia a essere rispetto alla phronêsis quello che è la philo-sophia nei confronti della sophia originaria. Paradossalmente, il crepuscolo della phronêsis coincide con l'ascesa della metafisica allo status di "filosofia prima", nel solco dell'ontologia parmenidea e della sua revisione platonica. A somiglianza di quanto avviene nella storia dell'epoca, segnata dal declino conflittuale della polis e dal decollo di uno Stato imperiale, la stessa immagine fisica del mondo subisce una mutazione. Essa perde l'autosufficienza "senza limiti" dell'a-peiron o assoluto di Anassimandro, contraendosi in quella di un universo chiuso. Questo è governato non più dalla mobile forza interna del logos eracliteo, bensì dall'azione di un "primo motore immobile".

Causa efficiente o agente che sia, il nous aristotelico è ben più esterno alle cose di quanto lo fosse quello naturalistico di Anassagora. Eppure la sua non ingerenza nelle vicende umane è destinata a durare il tempo residuo concesso alle libertà civili, prima che il cittadino torni a essere privato suddito e che il numen absconditum della metafisica classica si trasformi in deus ex machina delle teologie di Stato. Potrà sì accadere che alla prospettiva trascendente torni ad affiancarsi l'immanenza del logos spermatikos, ovvero "disseminato", degli stoici. Fra le virtù da questi raccomandate riaffiora la phronêsis, associata alla sôphrosunê e alla sophia. Tale visione troverà matura benché disorganica forma politica, in A se stesso dell'imperatore filosofo Marco Aurelio.

Ivi ci si sforzava di dimostrare la coerenza razionale, e insieme la compatibilità naturale, di una comunità estesa con uno Stato universale: in termini ancora una volta greci, dell'umana koinônia con un politeuma tendenzialmente onnicomprensivo e cosmopolitico. Sarà tuttavia una posizione precaria, non esente dal sospetto di un fine giustificatorio dell'ordine costituito, una volta compiuta la transizione ellenistica dall'esemplarità e omogeneità della greca polis o della latina civitas all'ecumene della societas humani generis tardo-romana. In campo giuridico e in un'ottica stoico-ciceroniana, il diritto pubblico è già venuto a collocarsi tra lex naturalis e ius gentium, fra "legge naturale" e "diritto dei popoli".

Né è da escludere che la pressione barbarica alle frontiere e più tardi all'interno dell'Impero abbia contribuito a un pensiero universalistico, sia che esso si ammanti di stoicismo come in Marco Aurelio, sia che indossi abiti cristiani nel De civitate Dei di Agostino o neoplatonici nella Consolatio Philosophiae di Boezio. Per chi fosse interessato ad audaci paralleli con altri periodi di crisi storica compreso il tempo presente, è poi da notare che solo nel De gubernatione Dei di un minore quale Salviano di Marsiglia quello stesso pensiero si affaccerà, per forza di cose e in forme pur sempre provvidenzialistiche, oltre i gloriosi confini del concetto romano di res publica.

Un sentimento di diffidenza verso quest'ultima era stato del resto radicato e in parte giustificato, presso i primi cristiani. Non di rado, il loro sguardo assorbito dalle promesse dell'aldilà era rifuggito dall'estraneità o dall'ostilità persecutoria di uno Stato pagano. Nello scritto Il pallio, così aveva ironizzato l'apologista Tertulliano, accomunando con accondiscendenza perfino i materialisti epicurei e immeritatamente gli stoici sotto l'insegna del disimpegno politico:

Ovviamente, bisogna vivere per la patria, per l'Impero, per lo Stato. C'era una volta un'altra massima: nessuno nasce per gli altri, dal momento che deve morire per sé. Certo si è che, quando poi il discorso scivola sugli Epicuri e sui Zenoni, tu definisci saggi tutti quei maestri del quieto vivere: non altro essi hanno esaltato, sotto il nome di sommo e unico piacere.

Tutto ciò non toglie che, ancora alla fine del Medioevo, il filosofo Nicola Cusano insisterà nell'inquadrare la rivalutazione rinascimentale della dignità dell'uomo nella cornice di un Impero ormai da tempo cristianizzata. Alimentato dalla specularità di ascendenza platonico-agostiniana fra macrocosmo e microcosmo, là dove quest'ultimo sta per l'interiorità umana, in Il gioco del mondo il suo cosmopolitismo non si spingerà al di là dell'universalismo della fede religiosa di osservanza: "Come l'universo è un unico grande regno, anche l'uomo è un regno, sebbene più piccolo e incluso nel primo. Così il regno di Boemia sta in quello dei romani, cioè nell'Impero universale".

 

Theôria e praxis

In una fase di transizione da un assetto aristocratico a uno relativamente democratico, in particolare la sofistica aveva introdotto nella polis greca un elemento di sospetto nei confronti della filosofia, pur accettandola quale materia di formazione del futuro cittadino. Sintomatico, l'atteggiamento riduttivo del personaggio Callicle nel Gorgia platonico, che il personaggio Socrate s'incarica di confutare. Da un lato, i sofisti lamentarono la divaricazione tra diritto e natura. Dall'altro, infatti, criticarono quella fra teoria e prassi. Callicle cita a suo sostegno la tragedia Antiope di Euripide, per noi andata persa. Stando al poco che si è potuto ricostruire, più che il contrasto fra filosofia e politica ivi era rappresentato quello tra vita contemplativa e vita attiva, tramite il dissidio fra i gemelli Anfione e Zeto figli di Antiope.

La concezione aristotelica della phronêsis o della sôphrosunê, crocevia fra virtù intellettuali e morali, arte altresì di cogliere tanto il particolare quanto l'universale, è in parte una risposta a un simile atteggiamento. Essa mantiene a ogni modo il pregio di esprimere l'invito al dialogo e alla mediazione politica in situazioni di conflitto. Di quella stessa phronêsis, per Aristotele ad Atene era stato esempio filosofico Socrate, e Pericle modello politico. Ma essa era mancata perfino alla guida di quest'ultimo, durante la guerra del Peloponneso fra Atene e Sparta. Tale, almeno, il moderno rimprovero che muove Leo Strauss sulla base di un'analisi dell'opera di Tucidide, in The City and Man, nel capitolo dedicato allo storico greco.

Sta di fatto che il pensatore tedesco ebreo, di adozione statunitense, è portato a riscoprire i valori fondamentali della politica non in epoca moderna, né in quella presocratica come attendibilmente avrebbero fatto il suo condiscepolo Heidegger e prima di lui Nietzsche. Bensì ritiene di rinvenirli in quella classica e medioevale. Ma la sua ottica è decentrata, sia rispetto alla Scolastica europea sia riguardo alla tradizione metafisica, che egli reputa un fraintendimento in senso letterale dei miti platonici. Platone e Aristotele, il turco-arabo platonizzante Al-Farabi e il suo estimatore ebreo Maimonide: tali punti di riferimento possono sconcertare, specie se associati a una critica della modernità. Che cosa mai li accomuna e li rende interessanti agli occhi di Strauss?

Egli fa cominciare quello che chiama il "progetto moderno" con Machiavelli e con Hobbes, e ne teme l'incombente fallimento. Da qui, l'esigenza di tornare a confrontare se non a conciliare etica e politica, soprattutto in un periodo -- l'era della tecnica -- in cui il divergere delle due dimensioni ha prodotto guasti a rischio dell'annichilimento. Ciò, malgrado certe parvenze democratiche e progressive, e non soltanto in mancanza di esse. Quei principi e valori, a partire dalla ricerca di un "bene comune", sono applicabili alla società industriale di massa, e con quali opportuni aggiustamenti? Essi sono in grado di contrastare la logica imperante del mercato, così come il dilagare di una morale utilitaristica? O si tratta di una semplice utopia nostalgica?

In questa sede non interessa valutare gli esiti ultimi della riflessione di Strauss; tanto meno, di alcuni suoi presunti epigoni, che si sono distinti per eccessi di zelo liberalistico. Basti rilevare che in un modo o in un altro essa partecipa di un movimento critico, la cui essenzialità appare decisiva a livello epocale. La posta in gioco è tale, si converrà, da non poter essere sottovalutata. Differente e analoga insieme è la riflessione di Hannah Arendt. Le sue vicende e formazione sono simili a quelle di Strauss. I due pensatori sono stati volentieri abbinati, nonostante diversità di impostazione non secondarie. Lo stesso dicasi, sotto certi aspetti, per Walter Benjamin.

Più progressista e dissidente la Arendt, rispetto al conservativo Strauss. Mentre per quest'ultimo la prospettiva è limitata all'ambito di una singola società e Stato, viceversa quella della Arendt ha una portata e un respiro internazionali. All'innata aspirazione a un "sommo bene", ella affianca la sua visione della "banalità del male" e dell'"atrofia del pensiero", terreno di coltura per ogni totalitarismo. Dal punto di vista esistenziale e nella scia di Karl Jaspers, per lei atrofia del pensiero equivale a "carenza di essere". E la modernità è comunque caratterizzata in positivo da una vita activa, piuttosto che dall'ideale contemplativo del passato.

Anche in quanto critica dell'esistente, ivi inclusi il senso comune e le ideologie, il pensiero della Arendt maggiormente si avvicina alla "filosofia della prassi" del marxista Antonio Gramsci. "Affermazione di unità fra teoria e pratica", per lui "l'essere non può essere disgiunto dal pensare, l'uomo dalla natura, l'attività dalla materia, il soggetto dall'oggetto". Anzi, il valore storico di una filosofia si basa sull'efficacia pratica che essa ha dimostrato, secondo Gramsci. Come lui perseguitati dal nazismo o dal fascismo, gli esuli Strauss e Arendt reagiscono entrambi a un nichilismo omologante e indifferente, lamentando il graduale oblìo di un diritto naturale.

Rivisitando in particolare l'aristotelismo in quanto "filosofia pratica", essi sono indotti a riesaminare e ad aggiornare alla condizione umana contemporanea l'antico linguaggio escogitato in funzione della filosofia politica, la praktikê epistême della tradizione greca. In Vita activa. La condizione umana della Arendt, è contestualizzata una citazione dalla Politica di Aristotele:

La principale caratteristica di questa vita specificamente umana, la cui apparizione e la cui scomparsa costituiscono eventi mondani, è di essere sempre ricca di eventi che in definitiva si possono raccontare mediante una storia o scrivendo una biografia; di questa vita, bios in quanto distinta dalla mera zôê, Aristotele ha detto: "in un certo senso è una specie di praxis".

Sulla scia di Platone a partire dal dialogo del Fedro, in effetti proprio Aristotele aveva distinto fra vita attiva in senso politico (bios politikos) e contemplativa in senso lato (bios theôrêtikos), dando tuttavia preminenza alla seconda, intesa come esercizio continuato del nous e attività filosofica per eccellenza.

Quindi la Arendt da un lato, per giustificare la sua "filosofia pratica", ribalta il giudizio di valore platonico-aristotelico che il Medioevo aveva tradotto in esclusiva chiave religiosa. D'altro canto, per avvalorare l'idea di una qualità della vita degna di essere umanamente vissuta, ella si rifà a un'altra celebre definizione di Aristotele: quella dell'uomo zôon politikon, "animale politico", il che distingue il suo consapevole bios dalla semplice zôê, vita del mondo animale.

Dalla mentalità moderna una vita dedita al pensiero e alla cultura può ben essere considerata altrettanto attiva se non produttiva, quanto una impegnata in altra attività socialmente utile, purché quest'ultima sia frutto di libera scelta. Compito della società dovrebbe essere sia promuovere la qualità della vita, sia difendere quella libertà di scelta. La politica deve in generale tendere ad assicurare le condizioni per una piena espressione del potenziale personale individuale e collettivo, che l'ideale della vita activa rappresenta. Solo così è ragionevolmente conseguibile l'eudaimonia -- "umana serenità", interpreta la Arendt --, meta perseguita dal pensiero greco.

In una tale situazione ottimale meno importa, aggiunge laicamente l'autrice di estrazione ebraica nonché ex-allieva di Heidegger, se a rivelarsi sia "l'antica verità dell'Essere o la verità cristiana del Dio vivente". Davvero importante è che l'attività teoretica risponde a una facoltà profonda e a un bisogno insopprimibile dell'animo, tanto quanto l'agire umano. L'alternarsi di vita activa e di vita contemplativa non è dunque una ricetta per l'eudaimonia? Per sentirsi, socraticamente e letteralmente, abitati da un "buon demone". O perché la propria esistenza possa lontanamente paragonarsi a quella beata degli dei, anche dopo il loro nicciano tramonto.

Per contrasto, questa conclusione può rimandare al primo capitolo di un'opera di un altro problematico filosofo del '900: Del sentimiento trágico de la vida, dello spagnolo Miguel de Unamuno. Ivi, rifacendosi a Kant e a Kierkegaard, a tanta distanza di tempo si polemizza ancora con lo zôon politikon di Aristotele e con l'astratto "primo motore immobile" che gli fa da remoto ed estraneo riscontro. Ciò, ormai in nome non di una divina provvidenza stoico-agostiniana ma di un Dios de la conciencia, Autor del orden moral, Dios luterano, en fin. Riaffiora una cesura fra un ordine racional e uno sentimental o volitio, rivendicato come più libero, intimo e autentico.

A ben vedere, qui riemerge pure l'antico squilibrio fra koinon e idion -- o xunon e idion, per dirla con lo ionico Eraclito --, tra livello "pubblico" e "privato" dell'esistenza. Va dato atto allora ad Aristotele di essersi adoperato a ristabilire un equilibrio già allora in crisi, se si eccettua la sua forzosa esaltazione di un bios theôrêtikos tenuto distinto dal bios politikos. In tal modo, perfino il mito platonico della repubblica dei filosofi rischiava di andare in frantumi.

Un lungo riflusso dallo spazio pubblico a quello privato porterà la filosofia a una funzione sempre più consolatoria di un soggetto separato o segregato dall'impegno politico e dalla dialettica sociale, fino all'allegoria della Consolazione della Filosofia nella cella di Boezio: il nuovo Socrate è vittima non più di un'aberrazione demagogica, ma di un potere tirannico e barbarico. Sulla logora veste della "Donna Filosofia" boeziana sono pur sempre ricamate le lettere iniziali di theôrêsis e praxis, e una simbolica scala che ascende dalla seconda alla prima. Nel contrasto medioevale De eodem et diverso di Adelardo di Bath, il personaggio boeziano si sdoppierà addirittura: da una parte la Filosofia vera e propria, a impersonare la theôrêsis; dall'altra, l'invenzione allegorica di Filocosmia, ovvero "Amante del Mondo": va da sé che la prima avrà la meglio sulla seconda.

Se si accetta, sulla scorta del commento dello stesso Boezio all'Isagoge di Porfirio, che per praxis vada intesa l'attività pratica del pensiero, i significati di quest'ultima e della phronêsis di Eraclito venivano in parte a ricongiungersi. Il vecchio monito delfico-eracliteo, a conoscere e interrogare se stessi, era tuttavia piegato a divenire dissimulato monologo anziché fattiva apertura sul mondo. In epoca ormai moderna, sarà esplicitamente Baruch de Spinoza a richiamare il pensiero politico a un imperativo pragmatico, nell'introduzione del suo Tractatus politicus equiparando teoria e filosofia per meglio criticare un certo astrattismo utopico: "Fra tutte le scienze in uso, soprattutto per la politica si crede che la teoria sia discrepante dalla prassi, e nessuno è ritenuto meno idoneo al governo dello Stato dei teorici ovvero filosofi".

Tra le numerose riflessioni contemporanee sul rapporto fra teoria e prassi, una particolare menzione merita quella di Ágnes Heller in La teoria, la prassi e i bisogni. Essa si impone per una provocatoria paradossalità, che in parte contraddice quanto fin qui argomentato. Se non in maniera irrilevante, sostiene l'allieva di Giörgy Lukács, "il problema generale del rapporto tra prassi e teoria non è emerso prima dell'avvento della società borghese".

Ancor prima che con la moderna distinzione kantiana fra "ragion pura" e "ragion pratica", ciò è infatti connesso con la circostanza determinante che "la "comunità" prevalente nella società capitalistica è quella stabilita dai nessi della produzione di merci". A tale logica non sfuggono il bisogno, la produzione e il consumo di teoria: difficile, prescindere dalla sua traducibilità in pratica ovvero, prima o poi, dalla prova dei fatti. Ne consegue un giudizio ironicamente idilliaco sulle società pre-moderne -- o anche, altrove, "primitive" -- e sull'apparente facilità dei loro intellettuali a concepire teorie "universali":

Il membro delle comunità antiche non era costretto a "seguire le tracce dei bisogni". Egli era semplicemente consapevole dei bisogni dei membri della sua comunità e se possedeva una certa capacità teorica poteva dar loro una voce, sia pure a vari livelli di profondità, più o meno coerentemente. Quando egli esprimeva i bisogni di un'altra comunità, egli poteva fare affidamento su bisogni già articolati in una certa comunità. E ciò ricorre nella stessa misura tanto in Platone quanto in Tommaso d'Aquino.

In L'eredità dell'Europa, altrettanto contemporanea e pertinente suona un'osservazione di Hans G. Gadamer. Nel ribadire il primato kantiano della "ragion pratica" sulla "ragion pura", essa è volta altresì a sfatare un equivoco da cui non appare del tutto esente la Heller, pur condizionata in positivo dall'assunto marxiano che una interpretazione del mondo è valida, nella misura in cui generi una prassi in grado di cambiarlo augurabilmente in meglio:

La filosofia pratica non è applicazione della teoria alla prassi come siamo portati naturalmente a pensare, ma scaturisce dall'esperienza stessa della prassi, in virtù della ragione e della razionalità che le sono proprie. "Prassi" non significa l'agire secondo regole e l'applicazione di un sapere, ma indica la situazione originaria dell'uomo nel suo ambiente naturale e sociale. I Greci chiudevano le loro lettere con la formula eu prattein, che noi potremmo tradurre "stammi bene". […] In questo modo di intendere la prassi affiora l'idea di una solidarietà originaria come principio della vita collettiva.

Quanto all'assunto marxiano di cui sopra, una formulazione odierna per la verità alquanto perentoria, ma proprio per questo coerente con l'originario fondamento hegeliano del principio in questione, ci è data da Antonio Negri nella raccolta di saggi Kairós, Alma Venus, Multitudo:

In Marx appare la formula "prassi del vero". Essa consiste nel fissare la verità di ciò che la prassi costruisce, a partire dall'espressione determinata (e tendenziale) di una resistenza. Il vero apparirà come affermazione dell'essere insorgente dalla lotta. Già prima di Marx, Machiavelli aveva considerato la "prassi del vero" come potenza di far sorgere, dall'occasione temporale, la virtù costitutiva del politico.

Non mancano ovviamente interpretazioni, o deformazioni, in senso totalitario e autoritario del rapporto fra teoria e prassi. Sovente esse si risolvono a svantaggio del primo termine e a favore di un attualismo, che degenera in incontrollato ma mirato attivismo. Tipico esempio resta quello del fascismo italiano, che alla teoria preferì sostituire la forza indeterminata e fideistica del "mito". Questa politica del mito non di rado è anche mito della politica, mascherato dalla retorica di un'utopica palingenesi sociale, imitata sul calco del linguaggio del rivoluzionarismo di sinistra. In una prospettiva vagamente orwelliana, verranno fatte balenare perfino formule di democrazia diretta, rese pensabili dal progresso tecnico mediatico dell'epoca.

Il compito teorico di Sistematizzare la fede, titolo dell'articolo qui esemplare, è comunque rimandato sine die. Il messaggio è affidato alla propaganda della stampa, organo del partito unico:

Quando parliamo dell'"uomo nuovo", è chiaro che intendiamo parlare della Società nuova. La più seria e la più vera preoccupazione del Fascismo è appunto di maturare dei nessi sociali, un humus politico e storico, in cui l'individuo cresca e le nuove generazioni si formino. Per questo occorre molta fede e pochissima teoria; occorre cioè che sulla vita nazionale imperino dei miti. […] Lo stesso linguaggio del Capo, la stessa prassi politica del Regime reggono sui miti; più che dei programmi, esistono dei compiti; più che delle formule esistono dei comandamenti; più che dei filosofi, ci vogliono dei soldati.

In un precedente articolo pure apparso in Il Popolo d'Italia negli anni Venti del '900, veniva chiarita la natura rifondante e insieme strumentale di questo mito, che avrebbe dovuto rimpiazzare o surrogare la teoria politica. In base a un'elementare psicologia di massa, le "grandi masse" popolari candidate a fruirne venivano declassate ad amorfe "folle, incapaci di meditazione e di pensiero", sensibili e docili tuttavia al fascino di una "più o meno organica" mitologia propagandistica. Ciò avvalora il sospetto, storicamente motivato, che fosse altro il senso dell'operazione portata avanti per un ventennio. Solo ad operazione ultimata, si espliciterà l'obiettivo ideologico di una totale subordinazione del cittadino al regime, di immanenza della società in uno Stato ormai fascistizzato:

Il mito, per cui soltanto le grandi masse si muovono, è sempre la sublimazione, la semplificazione d'un faticoso e complesso processo spirituale e morale, è la sintesi superiore di tutta una nuova e più o meno organica concezione della vita e del mondo e si esprime sempre in una parola, in un motto, in un simbolo, […] che hanno la virtù di incidersi nitidamente negli animi e di esercitare un qualunque fascino sulle folle, incapaci di meditazione e di pensiero e pronte a tutti gli slanci e gli entusiasmi.

Bios e zôê

La diversità fra i vocaboli greci bios e zôê non sta solo nella singolarità biografica tipicamente umana, significata dal primo, e nella generalità della vita cui si riferisce il secondo, estensibile all'intero regno animale (grammaticalmente, il nome zôê neppure ha il plurale). La differenza è conseguentemente qualitativa. Sempre nella Politica di Aristotele si distingue fra un'esistenza kata ton bion e kata to zên, espressioni che si possono modernamente tradurre "secondo la qualità della vita" e "in base alla mera sussistenza".

Né viene sottovalutato l'attaccamento alla zôê, bene prioritario da coltivare e amministrare soprattutto all'interno dell'oikos, della "casa" come luogo primario di produzione e di riproduzione. Ma è il bios la "forma di vita" veramente degna di essere vissuta, da parte di un libero cittadino. Per essere tale, perfino il filosofo deve realizzarsi quale zôon politikon ancor prima di poter ambire ad essere theôrêtikos. Il bios è infatti espressione di un particolare ethos, condotta morale. Nella cultura greco-romana, la dignità politica del bios non verrà smentita nemmeno dall'imperatore Marco Aurelio. Stoicamente, egli ne sottolineava la precarietà e addirittura l'opinabilità rispetto al flusso della zôê, nell'ambito della ciclicità cosmica. Eppure, ne riconosceva il valore proprio in quanto costitutivo dello zôon politikon .

Nell'intera opera "bio-politica" del francese Michel Foucault e poi in Homo sacer e Quel che resta di Auschwitz dell'italiano Agamben, vengono analizzati strategie e stratagemmi adottati nel corso della modernità per spogliare il bios di una dignità che sembrava alfine acquisita e inviolabile, riducendola al rango di zôê o "nuda vita" per meglio poterla sfruttare, umiliare o addirittura annientare. Quel diritto sancito in linea di principio veniva di fatto aggirato dal potere sovrano, per lo più declassando alcune categorie di cittadini allo stato di non-cittadini o semplicemente non riconoscendo loro il primo stato. Non diversamente accadeva agli schiavi o ai banditi dalle società antiche, comprese le più democratiche. Né molto diversa era la condizione delle donne nella Grecia classica.

Tale ipocrisia della civiltà, avverte Agamben dopo Foucault e la Arendt, non ha desistito al giorno d'oggi. In certi casi si è ulteriormente raffinata, camuffandosi ai nostri occhi tramite forme di incertezza giuridica. E' cresciuto anzi il pericolo, quando le odierne bio-tecnologie consentono a un eventuale "bio-potere" inedite possibilità di esplicarsi -- ad esempio, di manipolare la stessa zôê base di ogni bios -- e alla coscienza civile minore capacità di opporsi con competenza. Si impone pertanto non solo il rafforzamento applicativo del principio del rispetto del bios, ma anche la presa di coscienza della necessità di un principio condiviso di rispetto della zôê, riconoscendola propria componente anziché entità esteriore. Innanzitutto, in termini aristotelici, un processo di nuova identificazione del bios theôrêtikos nello zôon politikon da parte della filosofia.

Questo ripensamento può giovarsi di una ricerca approfondita sul nesso fra bios e zôê nella cultura ellenica, madre ad oltranza della nostra civiltà. Chi l'ha condotta è stato l'ungherese Károly Kerényi, in un saggio su Dioniso, archetipo della vita indistruttibile, uscito postumo nel 1976. Già nel titolo del libro, è leggibile un doppio influsso: una concessione alla psicologia del profondo dell'amico Carl Gustav Jung, e l'ascendente del pensiero di Nietzsche. Enucleati da quest'ultimo a livello simbolico, l'aspetto apollineo va ricondotto all'individualità e precarietà del bios, e quello dionisiaco alla generalità e continuità della zôê.

Da parte nostra, possiamo ben collegare il bios alla collettività della polis, sua sede d'elezione e di sviluppo, e la zôê all'universalità della phusis. Ma sono le facce di una sola medaglia, interdipendenti e reciprocamente garanti. Suggestiva da parte di Kerényi è la tesi dell'attribuzione di un ruolo maieutico di mediazione non ad Apollo o a Dioniso, bensì alla figura di Arianna. In quanto associata dal mito a Dioniso, sarebbe stata lei a dar forma di bios all'energia vitale della zôê, facilitando il perenne passaggio di quest'ultima in e attraverso le esistenze delle creature.

Vediamo come Giorgio Colli in La nascita della filosofia propone la stessa tesi di Kerényi in maniera diversa, non senza allusioni al "filo di Arianna" e alla relazione di quest'ultima con Teseo vincitore del Minotauro, bestiale fratellastro della "Signora del Labirinto":

Arianna abbandona il dio per l'uomo. Il simbolo che salva l'uomo è il filo del logos, della necessità razionale: proprio la discontinua Arianna rinnega la divinità animale che porta in sé, fornendo all'eroe la continuità, dandosi essa stessa alla continuità, per far trionfare l'individuo permanente.

E' una metafora, per la nascita della filosofia. Nella Consolazione della Filosofia, quest'ultima assumerà il ruolo di Arianna, per introdurre l'autore-protagonista Boezio in un labirinto alla ricerca della verità. Ma ciò avviene con tutti i suoi limiti soggettivi, come rilevava Nietzsche in Umano, troppo umano: "Per quanto l'uomo possa espandersi con la sua conoscenza, apparire a se stesso obiettivo, alla fine non ne ricava nient'altro che la propria biografia". Va da sé, quest'ultimo termine allude al bios in generale, più che a un bios particolare. Se si considera d'altronde l'aura di sacra venerazione che rivestiva la parola zôê presso i greci pagani, non sorprende che i cristiani utilizzeranno l'espressione aiônios zôê per la loro idea di "vita eterna" ultraterrena.

 

Logos e phonê

Risalta nel testo su Dioniso di Kerényi un'affermazione, che trascende influssi nicciani o anche suggestioni della psicoanalisi: "Il linguaggio può avere esso stesso una sua sapienza e può operare distinzioni, attraverso le quali l'esperienza viene elevata a consapevolezza e resa elemento di una comune sapienza prefilosofica dei parlanti". Senza dubbio, questi "parlanti" sono quelli di Eraclito. E l'esempio addotto è appunto quello del bios e della zôê:

La parola zôê aveva assunto questo "suono" in un periodo molto antico della storia della lingua greca: in essa "risuona" la vita di tutti gli esseri viventi. […] Quando invece si dice bios, in esso "risuona" qualcosa di diverso. Diventano infatti visibili, per così dire, i contorni, i tratti specifici di una vita ben definita, le linee che distinguono un'esistenza da un'altra.

L'investigazione linguistica di Kerényi prosegue, documentando che in greco possono darsi locuzioni quali sia "il bios della zôê", sia "la zôê del bios". Qui la traduzione non può che lasciare posto all'acume interpretativo. Ma, è importante notare, pur diversamente significative entrambe le espressioni attestano la concatenazione se non la reversibilità di un concetto con l'altro. Non è concepibile pronunciare un primo termine del binomio senza richiamare il secondo, dal momento che ormai l'uno "risuona" nell'altro. Nel caso specifico, comunque emblematico, l'esserci calati nel parlante equivale all'averlo fatto nel pensante. Sotto una luce più vera, torna in mente l'assunto di Parmenide: "Senza l'ente, là dove esso trova espressione, non troverai il pensare".

Ne consegue una serie di domande, non necessariamente oziose. Che cos'è un bios theôrêtikos e come esso si connette allo zôon politikon di Aristotele? L'aver finito di separare le due concezioni, fino alla moderna strettoia del cogito cartesiano, non corrisponde a un'arbitraria divaricazione del bios dalla zôê che lo sottende? E, sullo sfondo, chi o che cosa pensa?

In Vita activa, Hannah Arendt riassume in margine le critiche nicciane al cogito, ergo sum di Cartesio. Secondo esse, "l'espressione dovrebbe suonare invece: cogito, ergo cogitationes sunt ["penso, perciò vi sono pensieri"], in quanto la consapevolezza espressa dal cogito non proverebbe che io sono bensì soltanto che la coscienza è". Nella sua Filosofia dell'espressione, Colli integra e approfondisce la messa a fuoco dalla Arendt: "E' invece la cogitatio a costituire il cogito, non il cogito la cogitatio; e del resto può esistere una cogitatio senza cogito, ma non viceversa".

La ricerca di un pensiero sì soggettivante, ma in qualche modo oggettivabile, non ha cessato di attraversare l'antichità prima e dopo Aristotele, pur assumendone certe formule o rivestendosi di forme alternative alla filosofia in via di canonizzazione. Sintomatico è un testo di anonimo, ostentatamente iniziatico, incluso nel Corpus Hermeticum col titolo Discorso di Ermete Trismegisto a Tat sull'intelletto comune. Il dialogo immaginario così si svolge, in proposito:

"Gli altri animali non si servono della parola, o padre?" "No, figlio, non della parola, ma della voce solamente. La parola [logos] differisce completamente dalla voce [phonê]. La parola infatti è comune a tutti gli uomini, mentre ciascun genere di esseri viventi possiede una propria particolare voce." "Ma, anche fra gli uomini, o padre, la parola non differisce da popolo a popolo?" "Differisce, ma il genere umano è unico ugualmente, figlio mio; così anche la parola è unica: essa viene tradotta e si ritrova, sempre la stessa, in Egitto, in Persia, in Grecia".

Forse a causa del contesto gnostico -- subito prima e dopo, il logos in questione assume connotati divini, ma non era altrimenti per Eraclito o per Filone alessandrino --, il passo citato è stato trascurato dalla critica. La portata del messaggio appare sottovalutata. Raramente la pregnanza semantica del termine -- parola, discorso, linguaggio, ragione, pensiero, legge -- è stata meglio implicata. Qui però la sua valenza "logica" universale viene ribadita e distinta non solo dal puro suono animale, ma dalle lingue umane particolari in cui essa è espressa. Questi ultimi significati sono delegati al vocabolo phonê.

Se ne possono trarre delle deduzioni: che il logos sta al bios come la phonê alla zôê, benché i caratteri di universalità e di particolarità siano invertiti. E, volendo, che lo zôon politikon aristotelico è in grado di vivere ed esprimere un suo bios theôrêtikos, nella misura in cui lo è di ascoltare e comprendere in sé l'universale del logos e il particolare della phonê, quale essa sia. Infatti, solo chi partecipa del dono della "parola comune" è capace dello sforzo di intendere la "particolare voce" di un altro gruppo di parlanti o perfino di una creatura priva di parola. Il basilare rapporto fra koinon e idion è così reintegrato, ma ad un altro livello.

In un ordine ontologico oltre che logico, è inoltre coerentemente proclamata la traducibilità del pensiero. Quasi una lingua mentis preordinata dalla "grammatica dei pensieri" di Leibniz o da una "grammatica universale" alla Noam Chomsky, i contenuti della coscienza precedono la voce e le parole, le quali li interpretano e comunicano. Più poeticamente, ciò sembra poter evocare il commento corale di Sofocle di fronte al contegno del forestiero Edipo a Colono: "senza emettere voce né parole, benedicendo con le labbra del pensiero". Un parallelo realistico andrebbe però stabilito con le teorie logico-linguistiche degli stoici, e con l'esordio del De interpretatione (Peri hermêneias) di Aristotele:

Le parole pronunciate sono simboli dell'esperienza intellettiva. Quelle scritte, lo sono delle parole pronunciate. Come non tutti gli uomini hanno la stessa scrittura, non tutti utilizzano le stesse voci del discorso. Ma le esperienze intellettive, che esse direttamente rappresentano, sono le stesse per tutti. Così pure, sono le stesse quelle cose di cui la nostra esperienza è rappresentata da immagini.

L'argomento era già stato trattato dal filosofo nel De anima (Peri psuchês). Se si potesse poi indugiare a disquisire sulla complementarietà della tradizione scritta (la parola differisce dalla voce, ma anche dal segno che la perpetua, ha rimarcato il francese Jacques Derrida), le mediazioni e implicanze del pensiero risulterebbero tante e tali, da configurare una comunità estesa nel tempo e nello spazio, sfuggente al rigore di qualsiasi storicizzazione.

Rinunciando alle mire egemoniche ellenistiche sui "barbari", l'orizzonte del logos si dilaterà ben oltre i confini della polis, nel tendenziale rispetto delle identità culturali e in una prospettiva almeno ideale di convivenza tra i popoli. Ormai nel '400 -- tali, i tempi del pensiero --, Cusano aggiungerà un tratto tipicamente rinascimentale alle precedenti riflessioni sul linguaggio, coniugandolo con lo sviluppo dell'arte:

Il linguaggio nasce dall'arte. Essa si fonda sulla natura. Perciò per uno un linguaggio è più naturale; per un altro, meno. Per l'uomo è pure naturale ragionare. Ma neanche questo è privo di arte. Né vi è dubbio che uno possa valere più di altri, nell'arte del ragionamento. Come il linguaggio, che non può essere privo di arte, riflette la naturale unità della ragione, tanto che nel linguaggio ognuno si fa conoscere qual è secondo ragione e per natura, così nella ragione si mostra l'arte del ragionare…

E' d'obbligo concludere il capitolo presente confrontando con una citazione dalla Politica di Aristotele, la quale riprende la tematica appena affrontata. Si noterà che la distinzione fra logos e phonê non solo è strettamente connessa con la definizione dell'uomo in quanto zôon politikon. Ma assume una forte connotazione morale. Lungi dall'essere una forzatura semantica, essa è magistrale esempio del prevalere del senso del discorso sul significato letterale dei termini impiegati. Questi ne escono arricchiti di significati traslati.

In effetti, l'esaltazione del nesso tra politica ed etica non è occasionale bensì il nocciolo dell'intera riflessione, positivo sviluppo del retaggio platonico. Ciononostante, qui si annida un motivo utilitaristico, che è un po' il vizio di fondo della "pubblica virtù" aristotelica:

E' ora evidente che l'uomo è un animale politico, a maggior ragione che le api o altri animali gregari. Spesso abbiamo affermato che la natura non fa nulla invano, e l'uomo è l'unico a essere dotato del dono della parola. La mera voce non è che espressione di piacere o di dolore. Essa si può riscontrare in altri animali, poiché la loro natura contempla la percezione del piacere e del dolore e la sua mutua comunicazione. Invece la parola serve ad esprimere ciò che è utile o nocivo, e di conseguenza giusto o ingiusto. Tale è un carattere dell'uomo, che solo possiede il senso del bene e del male, del giusto e dell'ingiusto, o altri simili sentimenti che fanno una famiglia e una città.

 

Polis e phusis

Parafrasando una conclusione del grecista tedesco Bruno Snell in La cultura greca e le origini del pensiero europeo ("il greco ha saputo liberare il logos dalla lingua"), ci si potrebbe spingere a sostenere che i greci abbiano saputo emancipare il logos dalla phonê. Fatto sta che Eraclito, essendosi adoperato a fondare il concetto fortunato di logos, ritenne di riservare almeno una massima proprio alla phonê: "Con la voce delle folli labbra la Sibilla […] trapassa i millenni, per mezzo del dio". Che un tale dio sia Apollo o Dioniso, a questo punto pare secondario.

Qui la follia (mania), cui si allude, è ben altra dalla sofoclea dys-phronê o dissennatezza. Supremo atto di modestia, la lezione tramandata dai greci non sarebbe che una particolare phonê, eco di un logos immanente. E sarebbe semmai la phonê ad essersi scorporata dal logos, com'è del resto abbastanza ovvio, piuttosto che viceversa. Passerà molto tempo, prima che un'altra "voce" si levi ad annunciare l'intervento di un logos trascendente, in procinto di assumere veste corporea. In un rinnovato contesto religioso, ancora una volta termini e lingua impiegati saranno gli stessi.

Il fascino figurale dell'evento non ha mai smesso di esercitarsi sul pensiero occidentale, addirittura di indirizzo materialistico. Magari, al logos incarnato si è sostituito un metamorfico "corpo linguistico". Quest'ultimo, scrive Antonio Negri in un recente saggio, "si è fatto macchina biopolitica", assurgendo al ruolo di "intelletto generale" di marxiana nonché averroistica memoria. "Ontologicamente", chiarisce l'odierno filosofo, "la macchina comune dell'intelletto generale è il contesto biopolitico della vita". Più sconcertante, sebbene aristotelica, appare un'altra affermazione: "Per quel che riguarda il corpo biopolitico, non v'è differenza fra produrre e riprodurre, fra uomo e donna, poiché non c'è lavoro vivo che non sia in qualche modo amore e viceversa" .

Nóos e phrên, theôría e praxis, bios e zôê, logos e phonê -- e, di conseguenza, le nozioni di polis e di phusis -- fanno ad ogni modo parte di noi stessi. Li si chiami rispettivamente elementi "apollinei" e "dionisiaci", li si consideri lasciti culturali o innate predisposizioni, dal loro accorto dosaggio dipende la nostra eudaimonia. In caso contrario, l'insorgere prima o poi della hubris rischierebbe di metterci in rotta con la nostra stessa phusis e di esporci a una dolorosa némesis, sorta di stravolgimento e di "ritorsione" degli elementi in causa. Una polis, quindi, umana emanazione della phusis, più che incongruo tentativo di imitazione o velleità di dominio sulla "natura".

Tale, l'insegnamento della phronêsis e della sôphrosunê dei mediterranei greci. Il quadro sarebbe però incompleto, se non si valutasse un altro sentimento fra quelli che Aristotele reputava necessari a cementare una comunità. Se non proprio l'eros evocato da Negri, la "filantropia" a suo tempo predicata dagli stoici, la "sinergia" o l'amore universali invocati da Marco Aurelio e da Boezio, esso è la philia politikê. Alla lettera, "amicizia politica". Nel ricco epistolario della Arendt, essa sublima in vera e propria "politica dell'amicizia", scevra da secondi fini. In Vita activa, la stessa Arendt la ha aggiornata al concetto -- eminentemente kantiano e proudhoniano -- di un rispetto altrui non riducibile al senso civico né ad uno di appartenenza di gruppo. Nel suo nostalgico anacronismo, la formula dell'apolide pensatrice del '900 suona cosmopolitica e futuribile:

…è una specie di "amicizia" senza intimità e senza vicinanza; è un riguardo per la persona dalla distanza che lo spazio del mondo mette tra noi, e questo riguardo è indipendente dalle qualità che possiamo ammirare o dalle realizzazioni che possiamo stimare. Così, la scomparsa moderna del rispetto, o piuttosto la convinzione che il rispetto sia dovuto solo dove si produce ammirazione o stima, costituisce un chiaro sintomo della crescente spersonalizzazione della vita pubblica e sociale.

Questa preoccupazione per la spersonalizzazione operata dalle società di massa rimanda in maniera problematica al "trionfo dell'individuo permanente" e del suo irripetibile bios, niccianamente enfatizzato da Colli. Spersonalizzazione e individualismo sembrano fenomeni altrettanto complementari e innaturali. Attendibilmente non può darsi identità plausibile e stabile, senza autenticità di rapporti umani. Il paradosso di un individuo spersonalizzato è un'aporia della modernità. Esso contribuisce ad alienare dalle fonti naturali del diritto o ad adulterarle, ma anche a riproporre in termini inediti la questione dell'identità individuale e collettiva, o perfino della condivisione della responsabilità etica.

Può ben darsi che il recente ricorso al vocabolo spinoziano "moltitudine", invece del troppo anonimo "massa" o del romantico e idealizzato "popolo", risponda meglio all'intento di promuovere il concorso di una eterogeneità di individui ad esprimere nuove soggettività, anziché semplici somme di volontà o manipolabili "sondaggi di opinione". Ma ciò può accadere anche per l'interesse rivolto a suo tempo, da Spinoza, "agli esistenti presi nella loro singolarità". E' quanto ribadito nel 1980 dal francese Gilles Deleuze, nelle sue lezioni sul filosofo olandese. Peraltro, ivi si effettua una puntuale critica della nozione di diritto naturale nella storia del pensiero europeo.

E' pur vero, benché invitasse a pensare e ad agire kata phusin ("secondo natura"), il vecchio Eraclito avvertiva che "la Natura ama nascondersi". E dalla naturalistica ma datata politicità spinoziana restavano escluse componenti essenziali, come l'intero genere femminile! Un moderno sospetto di ambiguità del giusnaturalismo è già presente in Vincenzo Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799: l'"errore nel qual cadono per l'ordinario gli uomini che seguono idee soverchiamente astratte, che è quello di confonder le proprie idee colle leggi della natura" . Un tale appunto verso l'astrattismo illuministico o il volontarismo rivoluzionario risulta tuttavia giustificato, solo se si tiene nel debito conto un'attuale osservazione di Luce Irigaray:

L'Occidente ha basato la sua razionalità sul dominio sul mondo naturale. […] Simile concezione della realtà e della sua costituzione in un mondo non resiste all'avvento della mondializzazione. Ovunque riappare una naturalità irriducibile ai nostri usi e inquadramenti, che sfida ad accoglierla in modo democratico. […] Come affrontare il problema della mescolanza che ha invaso una tradizione fondata su una logica dell'identico a sé, del simile, dell'uguale? […] Sia dall'alto sia dal basso ciò che s'impone alla nostra epoca è ostacolato da consuetudini amministrative, giuridiche, politiche, che rifiutano di mettersi in discussione. Tale gesto implica una rivoluzione nel modo di pensare.

Ripensare l'alterità in termini di "amicizia politica", nel raggio di una polis ideale che abbracci l'orizzonte della phusis, oltre i confini indotti dalla nostra identità, nazionalità e cultura. La concentrazione mediatica del mondo della comunicazione, e il graduale imporsi di società multi-etniche, fanno sì che questa idea di polis sia sperimentabile qui ed ora. Le differenze, che le seconde introducono, valgano a compensare se non a neutralizzare i pericoli di omologazione o di saturazione, che la prima mutazione attualmente in corso comporta. Le incerte prospettive inerenti a tale mutazione e le contraddizioni esistenziali che ne derivano, già da tempo sono state efficacemente riassunte da Gadamer nel suo L'eredità dell'Europa:

…l'umanità si trova oggi di fronte al nuovo compito di pensare in termini cosmopolitici. […] La mancanza di "patria" che minaccia la moderna società industriale spinge l'uomo alla ricerca di una "patria". […] Nessuno coltiverà l'illusione romantica che l'amicizia e l'amore universale siano i capisaldi effettivi vuoi dell'antica polis, vuoi del moderno Stato tecnologico. Mi sembra però che i presupposti decisivi per padroneggiare i problemi vitali del mondo moderno non siano affatto diversi da quelli formulati nel pensiero greco. […] Anche nell'Altro e nel Diverso noi possiamo in qualche modo incontrare noi stessi. Ma più pressante che mai è oggi il dovere di riconoscere nell'Altro e nel Diverso quel che vi è di comune.

Quale peraltro concepito da Edith Stein, un atteggiamento "empatico" può forse fungere da antidoto tanto verso la tendenza all'entropia quanto contro quella alla disgregazione del tessuto civile. Perché tali sensi di comprensione e di solidarietà non restino vuoti principi, sembra però opportuno che essi si accompagnino alla radicale tensione di un hegeliano "soggiorno presso il negativo", inteso quale fattore di vivente confronto e non di letale ripiegamento su se stessi. Anche a sfatare ogni tecnologica mistificazione fisiocratica e a costo di un male minore, vale a dire di una ponderata ingenuità, non si vede alternativa valida se non il provarsi ad "abitare la differenza".

A scongiurare insanabili conflitti, che interessi politici aberranti abbiano imparato ad usare o a suscitare, conviene affidarsi a postulati per cui la diversità stessa agisca affinché la "moltitudine" metta in atto il suo potenziale di convertirsi in comunità. Un residuo di necessità e di giustizia parmenidee lo esige. Una eraclitea sensibilità e ragionevolezza lo renderebbe auspicabile. Ciò, tanto più da parte di chi voglia preservare la dinamica sociale dall'assolutismo dell'imperativo economico e dalla pervasività della competizione di mercato. Né si vede come la "nuda vita" delineata da Benjamin e da Agamben possa essere meglio difesa da recidivi attentati in nome della pura merce o di suoi surrettizi sostituti, nonché dall'indifferenza ispirata da una sua solipsistica seduzione.

Torna all'inizio Torna al sommario Versione formato RTF, con note