Non porto il
mantello a ruota, e - ahimè - non fo il notaio, ma tutte le volte che ho l'opportunità
di passare un giorno o una settimana a Napoli, ne sono immensamente felice. Nei ricordi
familiari, Napoli era la città per antonomasia, la capitale, se non più quella politica,
certamente la capitale culturale e commerciale. Il luogo del lavoro, del divertimento,
dell'apprendimento. L'avo e il nonno vi avevano avuto la sede centrale dei loro affari a
partire dai tempi forse felici di Francesco I, fino a quelli sicuramente amari di Umberto
I.
Una generazione dopo l'altra, i maschi della famiglia vi hanno studiato: chi medicina, chi
ingegneria. Una generazione dopo l'altra, qualche volta, si sono seduti al Gambrinus, sono
andati a San Carlo, hanno passeggiato per via Caracciolo, si sono riforniti di novità
librarie da Fiorentini o da Pironti, hanno comprato da Caflish una pastiera o una
guantiera di sfogliatelle da portare a casa, in provincia, per la festa dei figlioletti o
dei nipotini.
Nonostante l'espropriazione garibaldina, cavouriana, sabauda, depretisiana, giolittiana,
mussoliniana, Napoli conservata, più che il profumo di un capitale, la vitalità: il
monopolio dell'industria pastaia, dell'industria conserviera, della grande canzone, del
caffè chantant, del sole, del mare, l'identità gioiosa della vera italianità, la solida
architrave dell'ultima porta di casa prima di lasciare in nave l'Italia, il primo colore
della terra nativa, per chi rimpatriava. Poi Napoli è morta. Gli umori che fluivano verso
di lei spontaneamente, vennero dirottati. Era scritto, doveva morire, perché le capitali,
o sono capitali o muoiono.
Parigi e Londra sono rimaste capitali, il livore sabaudo, la meschinità piemontese, la
fame padana di prede l'hanno fatta scalare al livello di Cuneo. La prima metropoli del
mondo moderno è stata degradata a metropoli del sottosviluppo. E Napoli ha pagato senza
chiedere il resto, l'errore commesso ottocento anni prima, rifiutando Manfredi, mozzando
la testa a Corradino, aderendo alla politica del papato romano.
Poi le scadenze sono sopravvenute a catena. Ha pagato a Roma, ha pagato a Milano, e anche
a Torino, Genova, Venezia, Bologna, Firenze e persino a Modena, i debiti che aveva già
estinto. E dopo aver pagato, è ancora in debito. D'altra parte, neppure per un momento ha
voluto dichiarare bancarotta. Ha preferito rateizzare il debito all'infinito, fino al
giorno del giudizio. Fingere, idealizzando il proprio suicidio con il balordo ausilio di
don Benedetto, ridendoci sconsolatamente sopra con Scarpetta, illudendosi di
universalizzare l'umana sconfitta con Eduardo, finalmente scompisciarsi con Totò....se
fumarono a Zazà... Dove sta Zazà, compagna mia...
È morta filosofando, cantando, ridendo, piangendo dietro il battente socchiuso del
portone di casa. E canta ancora, da morta. Canta il museo bassolinesco, anzi il presepe
pidiessino, popolato da quattro milioni di pastori venuti da antichi secoli, con i loro
stracci ridipinti a nuovo e le loro voragini.
Noi eravamo. Siamo stati. Fummo.
Le mie figlie non hanno voluto studiare a Napoli. La conoscono appena. La vita è altrove,
anche se la pizza è napoletana, e anche se la pizza ha unificato il mondo. Americani,
giapponesi, tedeschi, milanesi siedono a mangiare moderne pizze in moderne pizzerie. E
bevono Coca Cola. Il più mondiale dei trust monopolistici si è allenato con il minuscolo
artigiano del vicolo. Ce la farà Mac Donald's a metterlo in soffitta?
Ce la farà. Renzo Arbore, la canzone, la pizza; San Martino illuminato a giorno, che
chiude l'orizzonte serale; il Maschio Angioino, i tronfi re di pietra sulla facciata del
Palazzo Reale, la targa marmorea sul muro cadente della casa del filosofo.
Per una volta nella ancora nella vita, vago per questa San Gregorio Armeno dilatata da
Bagnoli a Pozzuoli, in cerca di un popolo. Ma è chiaro che questi vecchi pastori
rimpannucciati, mangiando solo pizza, di cui non macinano la farina, piglieranno lo
scorbuto. Anzi, già ce l'hanno. O Napoli torna capitale, o muore.