Nei paesi occidentali, il principio a cui si ispira il diritto penale è che la
responsabilità è sempre personale, cioè del singolo. Di conseguenza l'incriminazione
(da parte dello Stato) e il processo si svolgono "contro" un individuo. Ma detto
principio si smarrisce nella norma che punisce l'associazione mafiosa (art. 416 bis del
Codice Penale italiano). Punendo l'associato, la norma dichiara rea l'associazione e ne persegue i componenti.
Ovviamente lo Stato ha il potere di vietare le associazioni che perseguano fini non
desiderati, come il delinquere oppure la rinascita del partito fascista o anche la
secessione nazionale: quel che a noi importa capire è che in tali fattispecie il Codice
Penale e i tribunali sono una forma d'intervento minore rispetto all'intervento militare.
Minori, ma non necessariamente più civile.
Nel dopoguerra, lo Stato nazionale si comportò come uno Stato in armi nell'opera di
annientamento del separatismo siciliano.
La Repubblica comunista di Caulonia fu debellata facendo avanzare qualche carro armato
sulla strada nazionale che porta al paese. Negli anni immediatamente successivi il
ministro degli Interni Scelba rintuzzò con un vero e proprio esercito, eufemisticamente
chiamato polizia, gli operai e i contadini che insidiavano il padronato. Certo ci furono
anche i connessi processi penali, ma in tutti i casi dedotti a esempio lo Stato vinse
fuori delle aule di giustizia. Il livello della minaccia non conteneva una semplice
violazione dell'ordnine statuale, ma prefigurava una rivoluzione. E in questo caso le
regole che lo Stato
impone a se stesso (le garanzie) saltano. Non è scritto da nessuna parte, ma è così.
Toreneremo a parlare di mafia in modo più diffuso. Lo impone un'esigenza di chiarezza e
verità, oggi assolutamente mancanti.
Per adesso ribadiamo ciò che è un concetto comune: le
responsabilità dello Stato italiano in relazione alla crescita della delinquenza sociale
organizzata sono enormi. La mafia e la 'ndragheta, da fenomeno campagnolo che erano nel
1946, si sono diffuse fino a coinvolgere milioni di persone, perché in regioni in cui la
politica si configura solo come voto e preferenza elettorale, i capibastone sono gli
artefici effettivi del successo. Più chiaramente, regioni meridionali, le cui le
popolazioni, che dovrebbero essere, come altrove, i soggetti delle scelte politiche e del
fare storia, sono invece lettaralmente escluse dalla vita nazionale, perché il nuovo
corso, inaugurato con la Ricostruzione e con il Miracolo economico, vi si è esteso sotto
la forma della corruzione. Lo stessa forte avanzata dello Stato sociale in tali regioni
nelle si è voluto politicamente mediarlo attraverso il clientelismo sociale.
Si deve aggiungere che la legge Rognoni - Latorre (quella che permette ai prefetti
l'espropriazione ai danni delle persone supposte mafiose), ha consigliato ai mafiosi di
non investire in case e in terreni ma di tenere liquidi i loro capitali, per due decenni
ha portato danaro alle banche milanesi e in borsa, ma anche impedito quella mobilità
delle persone dalla malavita alla borghesia benestante, che storicamente segue
l'arricchimento delittuoso, a cominciare dai pirati ragusei e dai baronetti della grande
Elisabetta (in Italia potrebbero essere citati ad esempio i banchieri di Cavour, Bastogi,
Bombrini e Balduino, o in
aprresso Breda, tutti passati dalle tangenti al titolo nobiliare).
Con suo gran compiacimento, l' "azienda Italia" ha goduto dei servizi mafiosi in
narcodollari, come aveva goduto tra il 1880 e il 1970 delle rimesse degli emigranti, che
alle regioni di testa non costavano niente.
Oggi, la mafia rende anormale la vita sociale in Sicilia, Calabria, Campania e Puglia. Il
garantismo è un costo troppo alto per queste regioni e persino per l'azienda-nazione.
Inoltre gonfia in modo morboso il ruolo dei procuratori della Repubblica nella società
civile, determinando un disagio sociale non minore di quello che viene dai mafiosi.
La mafia non è più un arretrato fenomeno del mondo contadino, e neppure la componente
più ardita della massa rurale che penetra in città deprivate di industrie; la camorra
non è più il bassofondo umano di una metropoli che esce dalle fogne, come nei romanzi di
Francesco Mastriani, ma un grande e grave disordine sociale.
A questo punto i pentiti, i delatori prezzolati, olte a essere un rimedio peggiore del
male, servono a poco. E' necessario passare a forme belliche di contrasto. E se chi
gestisce lo Stato pesa il ricordo di come furono combatttuti il Brigantaggio politico, i
Fasci Siciliani, la lotta per le terre, e altri fenomeni ancora, crei pure i tribunali
speciali, come sta facendo la comunità occidentale per i responsabili delle pulizie
etniche nell'ex Jugolaslavia.
Il discorso vale anche per l'infima plebe di Napoli e per la camorra.