A causa dei tempi alquanto lunghi con cui le idee degli
avversari del sistema raggiungono il pubblico, credo che
questa nota vedrà il sole dopo che la Bicamerale avrà
portato a completa cottura la sua indigesta ciambella;
sicuramente una ciambella senza buco. Tempo e denaro
sprecati senza ritegno.
Non starò a soffermarmi sul tema se è il disordine mentale a
rendere disordinata la vita in Italia, o se è il disordine
sociale a impedire alle italiche teste di ragionare.
L'interrogativo ha troppe risposte. Per arrivare a qualche
conclusione è consigliabile, quindi, enucleare le domande.
La scaletta segna tre piani: l'europeo, il nazionale, il
regionale.
Sul piano europeo,
nonostante molte difficoltà, tutto sembra
portare al medio traguardo della moneta unica. Le
probabilità che l'Europa ci arrivi, e che l'Italia arrivi
con gli altri paesi, sono alte. Il grande padronato e i
signori delle banche certamente non amerebbero di ritrovarsi
con la valuta nazionale sedotta e abbandonata, che corre
dietro il forte Euro. E poi tutto il notabilato politico
europeo e i maggiori partiti di ciascun paese associando
stanno giocandosi la propria credibilità e il proprio futuro
elettorale su questa carta. Ma varato l'Euro non è detto che
tutti i giochi siano fatti e che la Luna Nera non venga
fuori quando meno ce lo aspettiamo.
Ma dov'è la trappola che potrebbe trasformare il castello
così faticosamente costruito in una Torre di Babele? Di
regola, sopra la moneta non c'è Dio, come vorrebbero farci
credere, ma un comando, sia esso del Re, del Presidente, del
Parlamento, del Governatore. Non avendo molta fiducia l'uno
nell'altro - e al fine di essere tutti uguali come i
Cavalieri della Tavola Rotonda - i Quindici, al posto del
Re, hanno messo un automatismo, una specie di termostato al
mercurio. "Tu hai freddo? Metti il cappotto. Tu hai caldo?
Togli il cappotto". Ora, nessun economista ama assumersi
il ruolo di Cassandra, inascoltata profetessa di sventure,
eppure c'è una domanda centrale che resta appesa alla volta
celeste: premesso che l'occupazione e il benessere dei
popoli europei dipende dal settore industriale; premesso
ancora che detto settore non può sopravvivere senza il
servizio (servizievole) di un suo sistema finanziario e
bancario (non ricordate con quanta foga si diceva, ancora
due anni fa, Azienda-nazione?); premesso altresì che questo
servizio (servizievole) è stato sempre nazionale e che le
Aziende-nazioni restano al plurale nonostante la moneta
unica: tutto ciò detto e premesso, non potrebbe per caso
accadere che, per via del mercurio, qualche industria
nazionale (per caso francese) venga a trovarsi con la
schiena finanziaria scoperta?
E se ciò accadesse, le infauste estati del 1914 e del 1939
sarebbero vicine o lontane?
Ma non occorre pensare al peggio per avere argomenti di
riflessione. Che il Sud stia scomodo nel sistema europeo,
solo i politici e i giornalisti italiani non lo dicono. Come
è a tutti noto, l'Unione Europea è un sistema commerciale
integrato al suo interno, ma fortemente protezionistico
verso l'esterno, sia per quanto riguarda le merci
industriali, sia specialmente per i prodotti agricoli. Da
questo sistema il Sud non riceve che danni. Infatti scambia
- anzi è costretto a scambiare - prodotti agricoli
scarsamente protetti, come le arance, il vino e l'olio, con
prodotti agricoli, i cui prezzi sono innaturalmente e
favolosamente innalzati per effetto della protezione, come
il latte, i formaggi, il burro, la carne.
Ci martellano con la minaccia che se il Sud perde
l'appuntamento con l'Europa precipita fra le sabbie del
Sahara. Personalmente penso che è già caduto in una
trappola da bracconieri e che se per un evento fortunato ci
liberassimo dall'obbligo di finanziare il benessere dei
contadini tedeschi, padani e olandesi, qui il prezzo dei
beni essenziali si abbatterebbe a un terzo dell'attuale; una
cosa che non sarebbe senza ripercussioni sul livello dei
salari; a sua vola argomento fortemente convincente quando
si parla di sviluppo.
In conclusione, la prospettiva europea è densa di
difficoltà che vengono saltate con troppa leggerezza dalla
classe politica nazionale. Comunque i gravi danni che gli
italiani del Sud stanno subendo impongono che il governo
italiano vada alla rinegoziazione degli accordi agricoli
(si spera, ad opera di negoziatori che non debbano passare
dallo studio di Gianni Agnelli, prima di recarsi a
Bruxelles).
Piano nazionale.
La frivolezza con cui in Italia vengono
affrontati i problemi nazionali non può essere spiegata
altrimenti che con il totale fallimento della classe
politica presente in scena. Le smodate speranze che
l'effetto Europa ridisciplini le nostre cose interne è
antica. Ricordate Dante? "O Alberto tedesco (l'imperatore)
che abbandoni costei (l'Italia) che ormai è fatta indomita e
selvaggia..." Siamo intorno al 1300 e dalla pressante
invocazione di Dante sono passati la bellezza di settecento
anni, ma è come fossimo ancora allo stesso punto.
Come le speranze di Dante, anche le nostre sono infondate.
Ma non per colpa dei tedeschi, che ci abbandonano. Con tutta
la sua buona volontà, il bagnino Helmut non potrebbe trarci
in salvo, se, agitandoci scompostamente nel mare per la
paura o per altro, facciamo sì che la stazza del nostro
corpo raddoppi.
Quando i giornalisti italiani - evidentemente su richiesta
della Confindustria (che evidentemente ama non tanto la
pronta cassa, quanto la cassa pronta... alle richieste dei
suoi grandi associati) - cominciarono a parlare di debito
pubblico avevo ancora i capelli scuri e trentuno denti su
32. Oggi non ho più i capelli e, aimé, neppure i denti hanno
retto. E' passata un'intera stagione della mia vita. Ero
solamente anziano e adesso sono vecchio. Eppure il problema
è ancora lì, anzi, per la gente del Sud, si è trasformato in
un disastro epocale.
Esistono due milioni di miliardi di debito pubblico - una
cifra impressionante. Cominciamo con il dire che nessuno
può tirare la prima pietra. L'indebitamento del tesoro è
essenziale alla vita di uno Stato moderno (e non solo
moderno) e alla vicenda economica nazionale, quanto i
carabinieri, i giudici, i palamidati uscieri posti a guardia
sui portoni dei sacri palazzi del potere, le borse-valori,
le banche, le cambiali, ecc.
Nella storia del debito pubblico bisogna distinguere il
singolo rapporto (io compro un Bot da un milione, lo Stato
mi restituisce il milione, in più mi ha pagato un certo
interesse) dalla questione generale di finanza pubblica.
Salvo qualche tristissima eccezione, gli Stati hanno sempre
rimborsato il debito pubblico, perché in effetti non lo
pagano (il milione che ha restituito a me lo ha avuto in
prestito da un altro). Il marchingegno dello Stato che paga
non pagando sta tutto nell'inflazione, che di regola corre
tranquilla come un fiume verso la foce, ma che nel corso di
un secolo scatta due o tre volte. Nella fase normale, lo
Stato quietamente rinnova il debito, poi, quando
sopraggiunge l'evento liberatorio, si purga. E una volta
purgato, ricomincia.
Mia madre possedeva 300.000 lire di Buoni del tesoro 1925.
Diceva sempre che quella cifra era l'equivalente di 300
tomolate di ottimo oliveto. Con la rendita di quei titoli
campava la famiglia. Questo fino al 1942/43, allorché, come
tutti avranno sentito raccontare, cominciò l'inflazione. La
quale andò avanti. Quando lei morì, nel 1961, noi figli
andammo alla Banca d'Italia a farci pagare le cartelle. Lo
Stato non tergiversò. Messe le debite firme, il cassiere ci
dette il danaro. Con quel denaro noi figli comprammo chi
un vestito e chi un paio di scarpe. L'inflazione ci aveva
fatto perdere (o donare allo Stato) l'equivalente di 300
tomolate di oliveto, meno quattro paia di scarpe.
Colui che mise, o coloro che misero, ultimamente, lo Stato
sulla strada del forte indebitamento erano andati ovviamente
a scuola e avevano imparato le cose che vi ho bene o male
raccontate. Immaginavano che prima o poi l'inflazione
avrebbe aggiustato i conti del tesoro, come era già
avvenuto ben tre volte in Italia. Invece, tra il capo e il
collo degli italici ministri del tesoro è arrivata prima
l'inconvertibilità del dollaro e poi una teoria dello
sviluppo capitalistico avversa ai deficit di bilancio
(inflazione più o meno pilotata), in quanto i capitali
finanziari privati debbono potersi muovere tranquillamente
di qua e di là, senza l'assillo che un qualche governo
indisciplinato giochi loro un brutto tiro. Effettivamente
l'unica misura del valore di una moneta rimasta in vita è
la sua quotazione sul mercato internazionale dei cambi.
Tradotto in termini pratici (e politici), ciò vuol dire, in
primis, che gli Stati Uniti non possono più inondare il
mondo di biglietti inconvertibili, anche se muniti
dell'imperiale profumo del dollaro, e in secondo luogo che
il diritto di giudicare le monete è riservano ai grandi
finanzieri internazionali - quelli che fanno lavorare le
borse - signori tipo quel Soros che nel 1991 mandò a gambe
levate la lira.
Questi signori, come gli antichi accaparratori di merci (i
quali, però, sono trattati in termini durissimi da tutti i
libri di storia), possiedono tali quantità di ogni moneta
che possono determinare improvvise abbondanze o penurie.
Conoscendo le carte, giocano sulle varie borse, magari
facendosi aiutare dal computer, e di solito vincono. A
pagare poi provvede la gente, come ben sanno gli italiani, i
quali hanno sborsato (cioè fisicamente bruciato, mandato al
rogo) in sei anni ben 500 mila miliardi, per ripuntellare la
lira (e il dolor ancor m'offende).
Mutata radicalmente la prassi, né l'illustre economista
Ciampi, né il meno illustre economista Dini, né tantomeno
l'impacciato economista Fazio annunziano i loro progetti.
Che fanno? Aspettano un mutamento della filosofia
macroeconomica e monetaria, di modo che l'inflazione possa
dissolvere anche questa volta il debito? Giocano a Gratta e
Vinci, mettendo le vincite in un salvadanaio, per pagare
quando avranno messo assieme due milioni di miliardi?
Una classe politica rispettosa dei cittadini avrebbe già
dato una risposta. Sia una risposta generale, sia alcune
particolari. Per esempio, io non sono riuscito ancora a
capire se chi governa vuole lo Stato impotente, tale essendo
uno Stato paurosamente gravato da interessi passivi, oppure
se i governanti italiani ritengano doveroso, per il buon
andamento della società, remunerare con alti interessi la
liquidità (trasformata ovviamente in Bot) delle banche e
delle società d'assicurazione, delle grandi industrie e dei
cittadini più ricchi, o infine se siano veramente incapaci
di far pagare le tasse dai cittadini.
Le logiche economiche attualmente imperanti, di cui,
peraltro i signori Ciampi, Dini e Fazio sono assertori, o
per tali si presentano al pubblico, sono per il pagamento.
In tal caso il ripiano fiscale del debito pubblico è in
teoria a portata di mano.
Al Centronord l'entità dei redditi privati è tale da rendere
attonito il resto del paese. Anche al Sud le categorie
fortunate non mancano, invero. Enorme è il dato complessivo
e statistico, grande si suppone la parte nascosta. Non
occorre, infatti, svoltare l'angolo o allungare il naso.
L'evasione è alla luce del sole, diffusa come i raggi del
sole. A occhio e croce essa supera i 500 mila miliardi
all'anno. I capitali che gli italiani, sospinti da insane
paure, nascondono in Svizzera hanno fatto di questo paese,
un tempo cantato dagli anarchici e dai perseguitati politici
di ogni colore, un'appendice bancaria del Lombardo-Veneto.
*
Con tutto questo grasso in giro non si capisce perché lo
Stato abbia bloccato il calendario sul Venerdì di magro. O
si capisce molto bene. La verità è che la classe politica
tace perché ha paura della secessione del Nord. E alla
diffusa voglia che i settentrionali mostrano di non pagare
le tasse provvede con l'elargizione d' indulgenze, invece
che con la comminazione di penitenze.
Certo, essa non vorrebbe perdere né il Sud né il Nord
perché, storicamente, non ha una funzione di guida politica,
ma solo quella di mediare sotto banco i patti segreti che
intercorrono tra la Confindustria e i poteri che di volta in
volta hanno voce in capitolo a Roma e nel Sud.
Ma le conseguenze di questa classe - dico i De Mita, i
Casini, i Berlusconi, i D'Alema, i Fini e quant'altri - le
sta miserevolmente pagando il Sud strapiombato nella
disoccupazione. Tutt'al più - e solo in alcune regioni -
nell'occupazione tetra di cui Luca Meldolesi mette in luce
l'esistenza. Ma noi, i nostri figli, nati non fummo a vivere
come bruti. Disoccupati e male occupati, qui è stata
bruciata sull'altare delle impotenze e castrazioni
politiche un'intera generazione; per essere precisi una
classe d'età, quella compresa tra i 25 e 35 anni, e si
prepara il falò per la successiva, quella che adesso sta tra
i 14 e 24 anni.
Un altro anno come i cinque trascorsi e qui ci ritroveremo
tutti affiliati alla mafia, nella speranza che ci procuri
qualche occasione di lavoro, sia pure illecito.
Sul piano regionale iataliano
è bene dirla chiara e tonda:
per il Sud il federalismo è un bidone, il quale si presenta
come il seguito del mal congegnato governo dei banchieri, a
sua volta fomentato dall'arlecchinata bossista.
Nell'attuale assetto dei rapporti di proprietà e di
produzione, al Sud uno Stato federale significherebbe la
consegna del paese e del popolo meridionale alla borghesia
parassitaria che si produce e riproduce nella corruzione
romana, cioè alla peggiore classe di malfattori che si possa
immaginare - peggio, molto peggio, dei cortigiani angioini e
dei baroni spagnoli, gentaglia che ci porterebbe a un Sud
più vile, più volgare, più disperato dell'attuale.
L'alternativa che il Sud Sud (quello che ancora conserva
l'uso della testa e del resto) pone è netta. Se l'Italia si
rompe, si rompe anche il mercato nazionale delle merci, dei
surplus e degli uomini. Per noi, la strada è indicata dalle
necessità che la storia addita, in primo luogo dall'esigenza
improrogabile di lavorare, produrre, commerciare. Una
svolta che, sicuramente, non potrà essere concepita a Roma,
né diretta da Roma.
La rottura comporterà sicuramente un costo per le classi
impiegatizie, ma probabilmente gioverebbe moltissimo al
resto delle classi. D'altra parte, siccome il nostro grande
passato si è sviluppato nel Mediterraneo, mentre alla
presenza dell'Europa ha sempre corrisposto una nostra
sudditanza, è certo che il nostro avvenire non è l'Europa,
ma il Mediterraneo.
E se si rompe, il passato ha il diritto e persino il dovere
di riaffiorare sulla ribalta della storia, nella quale i 137
anni di unità saranno classificati come una nefasta
parentesi.
L'altra ipotesi è la conservazione dello Stato centrale
italiano e una politica di sviluppo industriale. In tal
caso il resto d'Italia finanzierà, come è sua precisa
obbligazione di fronte alla storia e agli uomini, le opere
necessarie, la cui direzione sarà affidata a persone di
provata capacità e di retti costumi, preferibilmente di
provenienza non politica e non meridionale, possibilmente a
esperti di cittadinanza tedesca e inglese.
IL comune sentire degli Anni Sessanta
Non ho mai soverchiamente creduto a quell'adagio che dice
"l'abito non fa il monaco". L'articolo precedente continua,
ma lo rompo deliberatamente perché un giornalista sa che i
testi lunghi annoiano il lettore. Voglio, con questo dire,
che nel momento in cui finalmente il popolo meridionale si
rende conto dei pericoli che incombono e percepisce che
grandi cambiamenti sono possibili anche a brevissima
scadenza, la voglia di parlare e di dire cose pensate in
quarant'anni di solitudine sarebbe tanta, eppure va
trattenuta in omaggio al mestiere.
Non vi offenda l'immodestia, ma quando ce vo, ce vo. Tra
Bossi, separatista, e il sottoscritto, anche lui separatista
da trent'anni, c'è di mezzo non una questione di stile, ma
la diversa statura umana e culturale.
L'Italia è uscita dalla barbarie ordalica a partire dal
sesto secolo avanti Cristo. Quindi neanche a Bossi e ai suoi
dovrebbero far difetto gli elementi della civiltà. Tuttavia,
siccome gli italiani del Nord hanno paura di perdere, nello
scontro con la concorrenza industriale europea e a causa dei
gravami fiscali che dovrebbero giustamente ricadere sui
redditi, una condizione che essi credono miracolosamente
raggiunta, o comunque raggiunta per meriti propri - e che
invece è in larga parte frutto del flusso a basso prezzo,
nei due decenni trascorsi, dei narcodollari investiti o ivi
portati per la ripulitura dalle cosche mafiose meridionali,
nella misura certamente di milioni di miliardi - questo
ignobile e losco soggetto, ignorante e per giunta vanesio,
più spesso sbronzo che sobrio e probabilmente finanziato
sottobanco dall'industria d'Oltralpe, uno che, se Alberto
da Giussano è veramente esistito, ora sta rimorendo di
vergogna nella tomba, si è erto a capo tribù di
un'imbufalita orda di pessimi cittadini e di italiani
inediti (perché a tutto si erano piegati gli italiani,
persino a fingersi degli imperiali imbecilli con Mussolini,
finché non venne il 10 Giugno 1940, il giorno fatale della
verità, ma mai ad assecondare i cani arrabbiati, come oggi
pare stia accadendo).
Qust'ignobile beone, resosi conto che sarebbe stato
l'ultimo fra le persone civili, ha finto d' imbarbarirsi,
d'impazzire: ha messo il cappello a sonagli; come dice Nino
Taranto s'è fatta a faccia do pazzo.
Diversamente da Bossi, anzi da persona che si reputa civile
- e come tale volendo seguire, finché le cose lo
permetteranno, procedure civili - credo mio dovere non
omettere la verità (quantomeno quello che credo sia la
verità), anche se enunziarla potrebbe apparire un atto
contrario agli interessi dello schieramento a cui
appartengo.
La verità a cui mi riferisco riguarda l'atteggiamento degli
italiani del Centronord, al tempo della politica cosiddetta
dell'intervento straordinario.
Sul finire degli Anni Cinquanta, ancor prima che il miracolo
economico italiano raggiungesse l'apogeo, una parte della
classe politica chiese al paese di intensificare l'opera
di rinascita del Sud, con interventi pubblici nel settore
della produzione industriale. Anche se la sinistra comunista
e i sindacati nicchiarono, le regioni settentrionali del
paese - quelle più dense di popolazione operaia - non
sollevarono obiezioni. Bisogna intendere che acconsentirono
a un maggior peso tributario, in nome dell'unità e della
pari dignità nazionale.
Espressero, invece, una fiera opposizione sia la
Confindustria sia il sistema bancario, il quale è da sempre
al servizio delle grandi famiglie. Ma quando capirono che i
loro giornali - e i grandissimi giornalisti al soldo - non
ce l'avrebbero fatta a sollevare l'opposizione popolare,
cambiarono tattica: italianamente si infilarono nel gioco
per scassarlo e trarne il massimo profitto. In effetti,
l'industrializzazione nel Sud, un anno dopo l'altro,
raggiunse i livelli della pagliacciata.
A profittarne fu principalmente il settore industriale,
naturalmente padano, anche se l'ignobile farsa fu tutta
rappresentata dalla classe politica nazionale, specialmente
da quella meridionale, fra cui non pochi santoni e santini
oggi venerati in paradiso.
Allora la gente giustamente pensò che negli affari un
pizzico di disonestà poteva essere perdonato. Altrettanto
giustamente pensò che chi operava in politica avrebbe dovuto
limitarsi all'inganno del vaniloquio, senza sforare nella
corruzione e nel bengodi del pubblico danaro (che in teoria
- ma solo in teoria - è di tutti).
Quei comportamenti politici pesarono - giustamente - sulla
prosecuzione dell'intervento, il quale si arenò. Come se
fosse una nota a piè di pagina, qui vorrei far notare che la
spavalda cuccagna seguita al terremoto in Irpinia non si
lega alle imprese precedenti. Infatti, negli Anni Ottanta,
il consociativismo e il craxismo aggiunsero ai caratteri
somatici della classe politica connotati che essa non aveva
ancora negli Anni Sessanta. Fra questi, sicuramente,
l'arroganza e il disprezzo della pubblica opinione.
Fin qui la premessa. Ora debbo spiegare perché - tolta la
Confindustria e la banca - la nazione italiana accettò la
politica cosiddetta dell'intervento straordinario e il
relativo peso economico.
Risposta estremamente semplice: Perché, in quegli anni, il
Nord per la prima volta poté toccare con mano che il
disagio occupazionale del Sud si riproduceva con il
riprodursi degli esseri umani. Anche chi non si era
addentrato nello studio della questione meridionale cominciò
a capire che il Nord troppo aveva (o aveva avuto) per non
dover dare (o restituire) almeno in parte; quantomeno ciò
che era indispensabile per sollevare da quel malanno
sociale le future generazioni del Sud.
I più acculturati percepirono che gli interessi meridionali,
sacrificati per oltre un secolo in nome del comune
risorgimento, non potevano essere cacciati né dalla porta né
dalla finestra.
Certamente era un comune sentire, assai diverso dagli
strafalcioni che ci somministra in TV quel Rigoletto di
Bossi, che ha per nome Miglio; un sentire ormai disperso, e
non solo per colpa delle legioni di svogliati impiegati
postali e di insegnanti impreparati che il Sud ha spedito
per quarant'anni oltre il Volturno, ma anche a causa del
complesso d'inferiorità che i capitani d'industria padani
avvertono verso i loro colleghi tedeschi, inglesi e
francesi.
Il debito degli italiani
Il vero e grosso debito dello Stato italiano - e di
tutti gli Italiani - al quale la Confindustria vorrebbe
sottrarsi con l'aiuto di Bossi, non è costituito dai famosi
due milioni di miliardi di Bot improvvidamente emessi dal
tesoro, ma dall'obbligazione che il resto del paese ha
contratto con il Sud.
Quando l'Italia aveva ancora qualche pudore, la cosa veniva
chiamata impropriamente questione meridionale. Oggi, chi più
se n'è dimenticato, meglio si sente.
Proveremo restituirgli la memoria. Cos'era, dunque, la
cosiddetta questione?
La sconfitta di Napoleone (1814) e il successivo patto di
mutuo appoggio tra le tradizionali potenze dinastiche non
ebbero la forza di cancellare l'idea, allora nuova, di
Stato-nazione, con cui venticinque anni prima la Rivoluzione
del 1789 aveva sostituito "lo Stato sono io" di Luigi XIV:
il soppresso potere assoluto e divino dei re.
Presa coscienza del cambiamento, dove le nazionalità
possedevano una qualche forza militare, le potenze
dinastiche si astennero da offese flagranti a quel
principio. Non così con le nazionalità storicamente
soggette. Fra queste l'Italia, debole, però, solo
diplomaticamente, come dire solo sulle scartoffie delle
cancellerie imperiali. L'Italia, infatti, agli occhi degli
intellettuali italiani ed europei era non solo la più antica
nazione d'Europa - l'unica nazione nata prima delle
invasioni barbariche - nonché fonte e culla riconosciuta
della civiltà occidentale, ma , per le sue dimensioni
geografiche, per il numero degli abitanti, per il grado di
civiltà, per la sua ricchezza potenziale e in atto, in
pectore, anche una grande nazione.
Il moto nazionale italiano, il Risorgimento - in buona
sostanza una lunga rivoluzione contro l'Austria, il papato e
le dinastie regionali, ivi compresa quella sabauda -
investe l'intero periodo che va dal 1815, data del proclama
di Rimini e della fucilazione di Gioacchino Murat, al 1860,
anno in cui insorge la Sicilia e Garibaldi, dopo essere
sbarcato incolume a Marsala, compie una specie di
passeggiata militare fino a Napoli (Venezia sarà liberata
nel 1866, Roma nel 1870, Trento e Trieste lo saranno nel
1918).
Per capire quel che avvenne dopo il 1860, a unità fatta, è
necessario ricordare che il Risorgimento cade nella fase in
cui le grandi potenze europee sono a copiare l'Inghilterra,
onde arrivare a costruirsi anch'esse un grande apparato
industriale. Pertanto, in Italia la parola Risorgimento
assume il doppio significato di unità nazionale e di
modernizzazione industriale. E' già noto, infatti, che la
prosperità e la civiltà di un paese sono indissolubilmente
legate alle nuove tecnologie. Gli economisti si battono
per l'unificazione del mercato nazionale. Sanno, infatti,
che si tratta di una pre-condizione dello sviluppo. Gli
eredi dell'illuminismo settecentesco, i Ferrara e gli
Scialoja, approdati dal Sud a Torino, a sostenere Cavour; a
Milano Cattaneo, Correnti, Maestri, Casati, che continuano
la pregnante opera di Romagnosi con Il Politecnico, avviano
gli italiani ai problemi della nuova vita economica.
Le idee di Cavour sono lucide e pratiche. Unico fra gli
statisti ed economisti del tempo, capisce che l'Italia ha
una grossa carta da giocare con le sue produzioni agricole
quasi monopolistiche - la seta, l'olio, il vino, la frutta -
che tutta l'Europa sviluppata chiede e paga bene.
Non si sbaglia. In effetti, le produzioni mediterranee,
nei decenni a venire, pagheranno la costruzione del paese
italiano.
Ma l'Italia, nazione sin dai tempi di Orazio e di
Virgilio, nazione anche nel Medioevo nonostante le
scorribande e le occupazioni barbariche, nazione per Dante,
nel 1300, e per Machiavelli, nel l500, crolla sotto il
dualismo sabaudo, proprio quando era finalmente divenuta un
solo paese politico.
*
Al momento dell'unità molte aree e regioni del Centronord
erano realmente povere, più povere di quanto in effetti
fosse il Sud, ma nel complesso niente appariva più
povero e arretrato del lontano Sud, incuneato in quel mare
che l'Europa aveva disertato da tre secoli. Qui i punti di
modernità e prosperità non erano diffusi, ma non mancavano.
Specialmente dove il paesaggio era dominato dall'ulivo in
piantagione, le relazioni commerciali con l'Europa, con
l'Italia restante e l'America erano vivaci; le entrate dei
proprietari consistenti.
Proprio nell'ultimo scorcio della fase pre-unitaria, si
erano andate sviluppando anche la viticoltura e l'agrume,
sicuramente ad opera di un settore più moderno della classe
agraria. Tuttavia l'immagine complessiva del Sud agricolo
era quella di un paese appena uscito dal medioevo e dai
rapporti feudali. I governi senza amore di sovrano e le
esternazioni a favore della corte spagnola avevano lasciato
profondi segni nella vita di queste popolazioni,
specialmente in campagna (dove, solo da ultimo l'attenzione
dei due Ferdinando, nonno e nipote, fu ripagata con insolita
devozione, talché, parafrasando o integrando Carlo Levi,
potremmo dire che i contadini meridionali riconobbero due
sole sovranità, quella dei Borbone e quella dei presidenti
USA, la terra della sperata libertà); una situazione resa
ancora più pesante dal fatto che, crollata l'aristocrazia,
la classe proprietaria era divenuta enormemente più numerosa
- e anche più esosa, per effetto della nefasta combinazione
tra il disprezzo castigliano per il lavoro fatto in vista di
un profitto e il continuo rinnovarsi ed elevarsi dei
bisogni di consumo e di quelli, altrettanto spagnoleschi, di
fasto familiare.
Nonostante lo squallido panorama pubblico e privato,
l'Azienda-nazione Regno delle Due Sicilie è solida,
quantomeno rispetto agli altri Stati regionali. Un po'
perché le colture mediterranee a quel tempo non hanno gran
concorrenti e i mercanti napoletani vendono all'Inghilterra,
alla Francia, all'Austria, alla Russia profittando di una
condizione di quasi monopolio mondiale, un po' perché un
artigianato arretrato, ma diffusissimo, provvede ampiamente
ai bisogni che la popolazione ha di manufatti, un po' perché
i Borbone non spendono, un po' perché la grande
partecipazione al commercio mondiale ha esteso enormemente
la marineria, il lavoro e i profitti connessi - il Regno si
presenta all'appuntamento unitario delle regioni italiane
come la componente più danarosa, più ricca di circolante e
di risparmi.
. Dopo la dissanguante guerra con l'Austria, Cavour e la
sua anima nera, Farini, non hanno scelte: o il Piemonte
spoglia Napoli o i Savoia saranno costretti a lasciare,
poveri e bastonati, il tavolo su cui hanno puntato tutto.
Il martirio del Sud - che sarebbe stolto immaginare
in termini attuali come il disagio popolare per un sistema
tributario elevato - comincia subito, appena appare la
camicia rossa dei garibaldini. Il paese è prima razziato
nelle sue pubbliche proprietà e poi affogato in un alluvione
di tasse e balzelli. Garibaldi non ha il tempo di rifugiarsi
scontento e scornato nel suo ritiro di Caprera che
l'insurrezione popolare - il brigantaggio politico - è già
scoppiata. Essa dura otto anni, ma il governo torinese non
demorde: Mors tua, vita mea.
La cosiddetta questione meridionale comincia in questo
momento. E solo in questo momento. Tutti gli Stati incassano
e spendono. Anzi di solito spendono prima d'incassare. Nel
caso italiano non bisogna tanto vedere come ma dove.
Mentre, a livello centrosettentrionale il fiscalismo dei
governi sabaudi può essere spiegato facendo ricorso al
concetto di scontro di classe (i contadini pagano e i
profittatori del nuovo regime arricchiscono), al Sud le
entrate fiscali non hanno una ricaduta nella spesa
pubblica. Il fiscalismo impoverisce tutti, sia i già poveri
sia i ricchi. Siccome munge l'intero assetto sociale, senza
beneficio per nessuno, il fenomeno va inquadrato sotto una
luce diversa e definito con altro nome.
Sul personale politico piemontese era grande l'influenza
parigina. La Parigi di Napoleone III fu incredibilmente
corrotta. E quando si dice Parigi, si dice la Francia. A
simiglianza dei loro vicini d'Oltralpe e loro mentori in
tutto, al tempo di Cavour i governanti piemontesi annegavano
nella corruttela. Chi scorra gli atti parlamentari
dell'epoca, vede insorgere un caso a ogni seduta. A
Confronto la Tangentopoli milanese sembra quasi opera di
persone perbene.
Anche il danaro che fugge dalle casse dello Stato sotto
forma di peculato o altro è un investimento sociale (sia
pure illecito). Difatti, nel momento in cui era necessario
far germogliare una ricchezza capitalistica, in vista di un
futuro industriale, le larghe maglie dell'erario sabaudo
(larghe persino con il re, ché - anche lui - s'impossessò
illecitamente di venti milioni) la fondarono partendo da
zero. La corruzione fece da rosa dei venti dello sviluppo;
si mosse al seguito dei ladri di regime.
Un caso esemplare di arricchimento all'italiana, è quello
del bancario livornese Pietro Bastogi, che per le sue
indiscusse capacità Cavour elevò prima a direttore della
Banca Nazionale e poi a ministro delle finanze. Morto il
Conte, l'abile Pietro fece il resto da sé. Una delle sue
attività più proficue consisteva nel prestare allo Stato
italiano, ovviamente a tassi salatissimi, i soldi che lo
Stato gli aveva prestato. In questo modo rivaleggiò
nientemeno che con i Rothschild, in occasione delle
concessioni ferroviarie. Non essendo però un Rothschild,
ottenne soltanto le Ferrovie Meridionali, che secondo i
calcoli avrebbero fruttato di meno. Invece fruttarono tanto
che, a partire dagli Anni Novanta, Bastogi, promosso intanto
conte per i proficui consigli dati in materia di mazzette
alla casa regnante, fu alla testa dell'elettrificazione del
paese. Ai suoi eredi il Sud piacque tanto, che fissarono i
loro affari a Napoli, quali proprietari della Società
Meridionale di Elettricità, SME, i cui meriti non sono
eguagliati neppure dai miracoli di San Gennaro.
Invece al Sud, la micragnosità della spesa statale è ben
lontana dal favorire la formazione di una classe di
nuovi ricchi, anche se non sempre perbene - come in
Piemonte, in Lombardia, nel Veneto, a Firenze, a Roma - anzi
la debolezza della lira annienta la fiducia di cui la
mercatura napoletana godeva nelle maggiori piazze
commerciali, da Odessa a New York e fa abortire i solidi
germogli capitalistici che nella Napoli borbonica spuntavano
intorno agli affari commerciali.
Questo sistema fiscale, fondato sul prendere senza
restituire l'equivalente in spesa pubblica, è stato definito
da Nitti un drenaggio di capitali dal Sud al Nord. E tale
fu in effetti, anche se forse è più pertinente definire il
fatto un'espropriazione di surplus economico di tipo
(autenticamente) coloniale. La cosa significa che, in una
prima fase, la fiscalità annientò la possibilità di
rinnovare compiutamente il ciclo produttivo (esempio, il
grano necessario alla semina, o gran parte di esso, fu
venduto per pagare le tasse, oppure, per lo stesso motivo,
un orticoltore non poté dotare il suo campo di un pozzo).
Nelle fasi successive, l'azione espropriatrice incontra una
realtà già priva di normali eccedenze, ma dà egualmente un
risultato in quanto il gettito fiscale viene dall'astinenza.
I proprietari s'indebitano per pagare le tasse (Nitti
registrò l'alto numero delle esecuzioni forzate richieste
dall'erario, regione per regione. Dovunque nel Sud
altissima, essa riguardava in Sardegna circa il 90 per cento
dei proprietari). I contadini, a cui nessuno fa credito,
stringono la cinghia, se non peggio, e vanno in America. Gli
artigiani, indebitati, vendono la casetta avita ed emigrano
come operai comuni.
A questo modo, il Sud già non ricco, s'impoverisce
ulteriormente e a ritmo esponenziale. Ciò nonostante si
verifica un inatteso miracolo. Le esportazioni di vino, di
agrumi si moltiplicano per due, tre, quattro, dieci, venti
volte. Quelle di olio crescono anch'esse. Con la valuta che
incassa, Roma riesce a portare in pareggio la bilancia
italiana dei pagamenti internazionali. Il paese è salvo, i
Savoia pure. Il capitalismo italiano è fatto. L'olio
pugliese vale quanto gli zuavi di Napoleone III, e il
pareggio del bilancio quanto dieci San Martino e venti
Solferino.
Infatti...(Infatti contiene le cose che, patriotticamente,
sono tenute nascoste). Infatti, quei crediti di Francia,
che tanto assillavano Quintino Sella e le altre degnissime
persone che in quel periodo governarono l'Italia e tuttora
dominano - su cavalli di bronzo - le nostre piazze, a loro
dedicate, non erano poi tutti francesi. In buona parte erano
ducati napoletani che, finiti non si sa come in tasche
piemontesi, erano stati spesi per comprare alla borsa di
Parigi le svalutate cartelle del tesoro italiano, dove
(diciamo per comodità) un Bot da 100 lire-oro si comprava
anche per il corrispondente in franchi di 21 lire.
Chi comprava faceva una scommessa, ma la scommessa adesso
risulta vincente. E' da credere che molta parte del valore
delle esportazioni venga intascato da quei finanzieri
toscopadani più vicini al governo, magari interni alla Banca
Nazionale, e dagli stessi uomini piemontesi di governo, che
erano riusciti a incassare oro dal Banco di Napoli in cambio
di biglietti della Banca Nazionale, la quale, poi, aveva la
lodevole consuetudine di fare doppie, triple e quadruple
tirature della stessa serie di biglietti (come dire tre
illecite su una autorizzata).
Dalla tomba, Cavour reclamava il riconoscimento d' aver
avuto ragione: se il valore della seta era caduto per
l'arrivo di quella giapponese, le esportazioni meridionali
tiravano il paese dal fango (almeno da quello finanziario).
Come in quella degli individui, vi sono anche nella storia
dei popoli momenti favorevoli, che poi non si ripetono. Se,
tra il 1860 e il 1914, il Sud avesse avuto un suo Stato - se
per caso fosse rimasto borbonico - il quasi monopolio delle
produzioni mediterranee gli avrebbe permesso di camminare
velocissimamente all'inseguimento di quel sistema
industriale, al quale tutta l'Europa e gli Stati Uniti
tendevano.
Caduta la Destra, erede del sabaudismo cavouriano, morto il
piemontese Depretis che ne fu - nonostante ogni contraria
declinazione d'identità - il più navigato dei continuatori,
i truffatori di regime, coloro che erano cresciuti sotto
l'ala protettrice del grande ministro e che si erano
arricchiti con i soldi dei contribuenti, una volta fatte e
rifatte le ferrovie e le strade, intendono che lo Stato
provveda a rigenerare le fonti d'arricchimento. E qual fonte
migliore dell'industria? Bismark, che vuole tirare l'Italia
dalla sua parte, dà una mano. L'Italia, che è vissuta
d'esportazioni in Francia, rompe con la sorella latina e
inaugura il protezionismo industriale (e anche quello
granario, per compensare i latifondisti).
Pronubo Francesco Crispi (dopo 30 anni d'unità, il primo
meridionale a essere presidente del consiglio, ma
evidentemente scelto non a caso, perché basteranno solo
200.000 lire per corromperlo), nasce in Italia una grande
industria, la quale si dice moderna, ma che in effetti è
gracilissima. Infatti riuscirà a presentarsi sul mercato
mondiale, dopo qualche sporadico episodio come il raion
(Anni Trenta) e la Vespa (Dopoguerra), soltanto intorno al
1960, mercé lo sfondamento operato dagli elettrodomestici
leggeri.
Intanto, per 70 anni e più, mentre i governi nazionali
dirottano la valuta rimessa dagli emigranti - e si tratta di
cifre favolose - al finanziamento e rifinaziamento del
Tesoro, di lor signori e delle banche, che essi (appunto lor
signori) hanno il garbo di far fallire una dietro l'altra,
gli italiani pagano le automobili, i concimi, le macchine da
scrivere e quant'altro due, tre, quattro, dieci volte il
loro prezzo sul mercato mondiale. E si ripete qui la
sceneggiata già vista con le tasse: i meridionali pagano la
mazzetta ai signori dell'industria, e non hanno
contropartite. Anche la gente del Nord paga la mazzetta, ma
almeno i lavoratori settentrionali hanno il beneficio che
l'industria protetta dissemina lavoro all'interno del
Triangolo industriale.
*
Ho detto l'essenziale della storia lontana. Lo scandalo del
Piano Marshall e dei dollari intascati esclusivamente dalla
FIAT, nonché il contributo dato dal lavoro meridionale
all'industria del Triangolo (che fu l'ultimo uovo della
Gallina dalle Uova d'Oro), una vera Befana salariale per gli
Agnelli, sono nozioni troppo recenti perché qualcuno
l'ignori. Ma quanto è costato al Sud tutto questo?
E' arcinoto: più di venti milioni di emigrati. Un altro Sud
disperso per il mondo. Ma oggi questa nozione patetica non
basta più. Bossi ha cominciato a parlar di denari. Era un
argomento da non toccare da parte di un padano.
Accortamente, nessuno l'aveva fatto prima di lui, e ciò
dimostra ancora una volta (se ce n'è bisogno) che abbiamo a
che fare con un asino sbronzo.
O voi che sostenete di lavorare e produrre, anche noi
sappiamo fare i conti. E non per celia.
Per sapere quanto costano a un paese 20 milioni di emigrati,
definite la cifra che si spende ad allevare un ragazzo,
sommatela con il valore che un uomo genera nel corso della
sua vita lavorativa. Ciò fatto moltiplicate - appunto - per
20 milioni. La cifra che viene fuori compra le città di
Roma, Milano, Firenze, Genova, Bologna messe assieme, con le
loro vie e i loro palazzi, nonché interamente le terre e le
fabbriche delle regioni di cui sono capitali.
Ma il risarcimento del danno è solo una parte del
credito. Dal punto di vista patrimoniale uno Stato non è che
un' associazione, le cui norme vanno estese al caso Sud/Nord
. Quando una associazione si scioglie e l'attivo supera il
passivo, dovunque nel mondo civile l'attivo si ripartisce
fra gli associati, nel nostro caso 57,7 milioni di italiani.
Ma quant'è, oggi, la quota di attivo che dovrà essere
restituita al Sud?
Il conto può esser fatto in vari modi. Per esempio
calcolando il capitale fisso sociale istallato. Oppure
facendo un conto dei profitti e delle perdite; risommando,
cioè, le entrate e le uscite pubbliche, più le incidenze
del protezionismo industriale, più lo spostamento di
manodopera, più la crescita a ritmo geometrico
dell'improduttività per l'esaurimento dei surplus, ecc.
Un modo sicuramente più economico per chi deve restituire
considera il prodotto netto annuale nazionale, di cui
l'ISTAT ci dà anche la media pro capite. In tal caso i
meridionali, che stanno sotto la media nazionale di 8
milioni a testa (20.500.000 teste), vanno rimborsati di
altrettanto per il presente e per il passato. 164 mila
miliardi per 137 anni. In totale 22, 5 milioni di miliardi.
Come è facile capire, il debito italiano verso il Sud
è nell'ordine di centinaia di volte il debito in Bot. Con
cifre del genere, il campanile di San Marco, più che
conquistarlo, i serenissimi se lo debbono vendere, insieme
con tutte le Ghirlandine, le Torri e i Torrazzi, di cui è
felicemente ricca la Padania bossista, nonché con tutti i
Duomi e le Piazze e i Palazzi, ma anche i quadri del
Mantegna e di Tiziano, le statue di Michelangelo e magari
anche i manoscritti di don Lisander, di Montale, di Carlo
Cattaneo e di Gianfranco Miglio, nonché le aste tracciate da
quel somarello di Bossi l'ultima volta che andò a scuola.
Se proprio arriveremo a un pagamento in natura, io chiedo
una fresca valle del Trentino per l'estate, magari la stessa
dove un mio zio ci lasciò la pelle per liberare Trento.
Fuor di celia, i conti si faranno - certamente bene - e il
Nord, padano o austroungarico che sia nel frattempo
divenuto, pagherà il dovuto. Pagherà sicuramente,
nonostante i ringhi di Bossi e il salmodiare di Miglio.
*
Tiriamo le conclusioni. Uno. Di un Sud federale abbiamo
le preimmagini. Basta guardare la faccia e ascoltare qualche
frase dei discorsi di D'Onofrio, di Mastella, di Mattarella
per sapere ciò che ci capiterebbe. In un paese interamente
da ricostruire è necessario un potere che rispecchi gli
interessi prevalenti e non il vaneggiare dei quaquaracquà.
Due. Potremmo dire sì a un'Italia che proceda da subito
all'industrializzazione del Sud e la porti avanti a marce
forzate. A sacrificarsi sull'altare degli equilibri monetari
o di bilancio, come adesso è di moda, saranno altri, per
esempio i professionisti, gli operatori autonomi e le
società che realizzano superprofitti, ordinariamente
scialacquati alla Seychelles o altrove. L'opera deve
comunque andare rapidamente avanti fino al traguardo di un
milione e mezzo di nuovi posti di lavoro.
Sebbene l'Europa abbia un volto poco simpatico, potremmo
dire sì a un'Italia che, in sede comunitaria, proceda
immediatamente alla ricontrattazione dei prezzi agricoli e
alla revisione della politica mediterranea.
Se no, no. Di gente che vuol vendere, oggi ce n'è tanta; a
scarseggiare sono invece i compratori. D'altra parte siamo
un popolo forte e più giovane degli altri, e abbiamo una
voglia di nuovo che altri non hanno. Dovunque arrivi, uno di
noi fa presto ad affermarsi e a farsi amare. Alla fin fine,
da soli faremo sicuramente prima.
Tre. I latini dicevano le cose con molta efficacia. Uno dei
loro detti più famosi si usa ancora. Dice: Si vis pacem,
para bellum. Se vuoi la pace, sii pronto a far guerra.
Purtroppo la vita, anche quella dei popoli, non si svolge su
un prato di margherite in fiore.