S'è rotta a pazziella
Prime riflessioni su una rivoluzione probabile
© 1997 Nicola Zitara
 
A causa  dei tempi  alquanto lunghi  con cui  le idee  degli
avversari del  sistema raggiungono  il pubblico,  credo  che
questa nota  vedrà il  sole  dopo  che  la  Bicamerale  avrà
portato a  completa  cottura  la  sua  indigesta  ciambella;
sicuramente  una   ciambella  senza  buco.  Tempo  e  denaro
sprecati senza ritegno.
Non starò a soffermarmi sul tema se è il disordine mentale a
rendere disordinata  la vita  in Italia, o se è il disordine
sociale  a   impedire  alle  italiche  teste  di  ragionare.
L'interrogativo ha  troppe risposte.  Per arrivare a qualche
conclusione è consigliabile, quindi, enucleare le domande.
La scaletta  segna tre  piani: l'europeo,  il nazionale,  il
regionale.
Sul piano europeo,
nonostante molte difficoltà, tutto sembra
portare  al   medio  traguardo   della  moneta   unica.   Le
probabilità che  l'Europa ci  arrivi, e  che l'Italia arrivi
con gli  altri paesi,  sono alte.  Il grande  padronato e  i
signori delle banche certamente non amerebbero di ritrovarsi
con la  valuta nazionale  sedotta e  abbandonata, che  corre
dietro il  forte Euro.  E poi  tutto il  notabilato politico
europeo e  i maggiori  partiti di  ciascun paese  associando
stanno giocandosi la propria credibilità e il proprio futuro
elettorale su questa carta. Ma varato l'Euro non è detto che
tutti i  giochi siano  fatti e  che la  Luna Nera  non venga
fuori quando meno ce lo aspettiamo.
Ma dov'è  la trappola  che potrebbe  trasformare il castello
così faticosamente  costruito in   una  Torre di  Babele? Di
regola, sopra  la moneta non c'è Dio, come  vorrebbero farci
credere, ma un comando, sia esso del Re, del Presidente, del
Parlamento, del  Governatore. Non avendo molta fiducia l'uno
nell'altro -  e al  fine  di  essere  tutti  uguali  come  i
Cavalieri della  Tavola Rotonda   - i Quindici, al posto del
Re,  hanno messo un automatismo, una specie di termostato al
mercurio. "Tu  hai freddo?  Metti il cappotto. Tu hai caldo?
Togli il  cappotto".   Ora, nessun economista  ama assumersi
il ruolo  di Cassandra,  inascoltata profetessa di sventure,
eppure c'è  una domanda centrale che resta appesa alla volta
celeste: premesso  che  l'occupazione  e  il  benessere  dei
popoli europei  dipende dal  settore  industriale;  premesso
ancora che  detto settore  non  può  sopravvivere  senza  il
servizio (servizievole)  di un  suo  sistema  finanziario  e
bancario (non  ricordate con  quanta foga si  diceva, ancora
due anni  fa, Azienda-nazione?); premesso altresì che questo
servizio (servizievole)  è stato  sempre nazionale  e che le
Aziende-nazioni restano  al  plurale  nonostante  la  moneta
unica: tutto  ciò detto  e premesso,  non potrebbe  per caso
accadere che,  per via  del  mercurio,    qualche  industria
nazionale (per  caso  francese)  venga  a  trovarsi  con  la
schiena finanziaria scoperta?
E se  ciò accadesse,  le infauste estati del 1914 e del 1939
sarebbero vicine o lontane?
Ma non  occorre pensare   al  peggio per  avere argomenti di
riflessione. Che  il Sud  stia scomodo  nel sistema europeo,
solo i politici e i giornalisti italiani non lo dicono. Come
è a  tutti noto,  l'Unione Europea  è un sistema commerciale
integrato al  suo  interno,  ma  fortemente  protezionistico
verso  l'esterno,   sia  per   quanto  riguarda   le   merci
industriali, sia  specialmente per  i prodotti  agricoli. Da
questo sistema  il Sud non riceve che danni. Infatti scambia
-  anzi   è  costretto   a  scambiare  -  prodotti  agricoli
scarsamente protetti,  come le arance, il vino e l'olio, con
prodotti  agricoli,  i  cui  prezzi  sono  innaturalmente  e
favolosamente innalzati  per effetto  della protezione, come
il latte, i formaggi, il burro, la carne.
       Ci  martellano con  la minaccia  che se  il Sud perde
l'appuntamento con  l'Europa precipita  fra  le  sabbie  del
Sahara. Personalmente  penso  che  è  già    caduto  in  una
trappola da  bracconieri e che se per un evento fortunato ci
liberassimo dall'obbligo  di  finanziare  il  benessere  dei
contadini tedeschi,  padani e  olandesi, qui  il prezzo  dei
beni essenziali si abbatterebbe a un terzo dell'attuale; una
cosa che  non sarebbe  senza ripercussioni  sul livello  dei
salari; a  sua vola  argomento fortemente convincente quando
si parla di sviluppo.
      In conclusione,  la prospettiva  europea  è  densa  di
difficoltà che  vengono saltate  con troppa leggerezza dalla
classe politica  nazionale. Comunque  i gravi  danni che gli
italiani del  Sud stanno  subendo impongono  che il  governo
italiano vada  alla    rinegoziazione degli accordi agricoli
(si spera,  ad opera  di negoziatori che non debbano passare
dallo  studio   di  Gianni   Agnelli,  prima  di  recarsi  a
Bruxelles).

Piano nazionale.
La frivolezza  con cui  in Italia  vengono
affrontati i  problemi nazionali   non  può essere  spiegata
altrimenti  che   con  il  totale  fallimento  della  classe
politica  presente   in  scena.   Le  smodate  speranze  che
l'effetto Europa  ridisciplini  le  nostre  cose  interne  è
antica. Ricordate  Dante? "O  Alberto tedesco (l'imperatore)
che abbandoni costei (l'Italia) che ormai è fatta indomita e
selvaggia..." Siamo  intorno al  1300  e    dalla  pressante
invocazione di  Dante sono passati la bellezza di settecento
anni, ma è come fossimo ancora allo stesso punto.
Come le  speranze di  Dante, anche le nostre sono infondate.
Ma non per colpa dei tedeschi, che ci abbandonano. Con tutta
la sua  buona volontà, il bagnino Helmut non potrebbe trarci
in salvo,  se, agitandoci  scompostamente nel  mare   per la
paura o  per altro,  facciamo sì  che la  stazza  del nostro
corpo raddoppi.
Quando i  giornalisti italiani  - evidentemente su richiesta
della Confindustria  (che evidentemente  ama  non  tanto  la
pronta cassa,  quanto la  cassa pronta... alle richieste dei
suoi grandi  associati) -  cominciarono a  parlare di debito
pubblico avevo  ancora i  capelli scuri  e trentuno denti su
32. Oggi non ho più i capelli e, aimé, neppure i denti hanno
retto.   E' passata  un'intera stagione  della mia vita. Ero
solamente anziano  e adesso sono vecchio. Eppure il problema
è ancora lì, anzi, per la gente del Sud, si è trasformato in
un disastro epocale.
Esistono due  milioni di  miliardi di  debito pubblico - una
cifra impressionante.  Cominciamo con  il dire  che  nessuno
può tirare  la prima  pietra. L'indebitamento  del tesoro  è
essenziale alla  vita di  uno  Stato  moderno  (e  non  solo
moderno)  e  alla  vicenda  economica  nazionale,  quanto  i
carabinieri, i giudici, i palamidati uscieri posti a guardia
sui portoni  dei sacri  palazzi del potere, le borse-valori,
le banche, le cambiali, ecc.
Nella storia  del debito  pubblico  bisogna  distinguere  il
singolo rapporto  (io compro  un Bot da un milione, lo Stato
mi restituisce  il milione,   in  più mi  ha pagato un certo
interesse) dalla  questione generale  di  finanza  pubblica.
Salvo qualche  tristissima eccezione, gli Stati hanno sempre
rimborsato il  debito pubblico,  perché in  effetti  non  lo
pagano (il  milione che  ha restituito  a me  lo ha avuto in
prestito da  un altro). Il marchingegno dello Stato che paga
non pagando  sta tutto  nell'inflazione, che di regola corre
tranquilla come un fiume verso la foce, ma che  nel corso di
un secolo  scatta due  o tre  volte. Nella  fase normale, lo
Stato   quietamente   rinnova   il   debito,   poi,   quando
sopraggiunge l'evento  liberatorio, si  purga. E  una  volta
purgato, ricomincia.
Mia madre  possedeva 300.000  lire di Buoni del tesoro 1925.
Diceva sempre  che quella  cifra era  l'equivalente  di  300
tomolate di  ottimo oliveto.  Con la  rendita di quei titoli
campava la  famiglia. Questo fino al 1942/43, allorché, come
tutti avranno  sentito raccontare, cominciò l'inflazione. La
quale andò  avanti. Quando  lei morì,  nel 1961,  noi  figli
andammo alla  Banca d'Italia  a farci pagare le cartelle. Lo
Stato non  tergiversò. Messe le debite firme, il cassiere ci
dette il  danaro. Con   quel denaro  noi figli comprammo chi
un vestito  e chi  un paio  di scarpe. L'inflazione ci aveva
fatto perdere  (o donare  allo Stato)  l'equivalente di  300
tomolate di oliveto, meno quattro paia di scarpe.
Colui che  mise, o coloro che misero, ultimamente,  lo Stato
sulla strada del forte indebitamento erano andati ovviamente
a scuola  e avevano  imparato le  cose che vi ho bene o male
raccontate.  Immaginavano   che  prima  o  poi  l'inflazione
avrebbe aggiustato  i  conti  del  tesoro,  come    era  già
avvenuto ben  tre volte  in Italia. Invece, tra il capo e il
collo degli   italici  ministri del tesoro è arrivata  prima
l'inconvertibilità del  dollaro   e  poi  una  teoria  dello
sviluppo  capitalistico   avversa  ai  deficit  di  bilancio
(inflazione più  o meno  pilotata),  in  quanto  i  capitali
finanziari privati  debbono potersi  muovere tranquillamente
di qua  e di  là, senza  l'assillo che  un  qualche  governo
indisciplinato giochi  loro un  brutto tiro.  Effettivamente
l'unica misura  del   valore di una moneta rimasta in vita è
la sua  quotazione sul  mercato  internazionale  dei  cambi.
Tradotto in  termini pratici (e politici), ciò vuol dire, in
primis,   che gli  Stati Uniti  non possono  più inondare il
mondo  di   biglietti  inconvertibili,   anche  se    muniti
dell'imperiale profumo  del dollaro,  e in secondo luogo che
il diritto  di giudicare   le  monete è  riservano ai grandi
finanzieri internazionali  - quelli  che fanno  lavorare  le
borse -  signori tipo quel  Soros che nel 1991 mandò a gambe
levate la lira.
Questi signori,  come gli  antichi accaparratori di merci (i
quali, però,  sono trattati  in termini durissimi da tutti i
libri di  storia), possiedono  tali quantità  di ogni moneta
che possono  determinare improvvise  abbondanze o   penurie.
Conoscendo le  carte,  giocano  sulle  varie  borse,  magari
facendosi aiutare  dal computer,   e  di solito  vincono.  A
pagare poi provvede la gente, come ben sanno gli italiani, i
quali hanno  sborsato (cioè fisicamente bruciato, mandato al
rogo) in sei anni ben 500 mila miliardi, per ripuntellare la
lira (e il dolor ancor m'offende).
Mutata radicalmente  la  prassi,  né  l'illustre  economista
Ciampi, né  il   meno illustre economista Dini, né tantomeno
l'impacciato economista  Fazio annunziano  i loro  progetti.
Che  fanno?   Aspettano   un   mutamento   della   filosofia
macroeconomica e  monetaria, di  modo che l'inflazione possa
dissolvere anche questa volta  il debito? Giocano a Gratta e
Vinci, mettendo  le vincite  in un  salvadanaio, per  pagare
quando avranno messo assieme due milioni di miliardi?
 Una  classe politica  rispettosa dei  cittadini avrebbe già
dato una  risposta. Sia  una risposta  generale, sia  alcune
particolari. Per  esempio, io  non sono  riuscito  ancora  a
capire se chi governa vuole lo Stato impotente, tale essendo
uno Stato  paurosamente gravato da interessi passivi, oppure
se i  governanti italiani  ritengano doveroso,  per il  buon
andamento della  società, remunerare  con alti  interessi la
liquidità (trasformata  ovviamente in  Bot) delle  banche  e
delle società  d'assicurazione, delle grandi industrie e dei
cittadini più  ricchi, o  infine se siano veramente incapaci
di far pagare le tasse dai cittadini.
Le  logiche   economiche  attualmente   imperanti,  di  cui,
peraltro i  signori Ciampi,  Dini e  Fazio sono assertori, o
per tali  si presentano  al pubblico, sono per il pagamento.
In tal  caso il  ripiano fiscale  del debito  pubblico è  in
teoria  a portata di mano.
Al Centronord l'entità dei redditi privati è tale da rendere
attonito il  resto del  paese. Anche  al Sud   le  categorie
fortunate non  mancano, invero. Enorme è il dato complessivo
e statistico,  grande si  suppone  la  parte  nascosta.  Non
occorre, infatti,   svoltare  l'angolo o  allungare il naso.
L'evasione è  alla luce  del sole,  diffusa come i raggi del
sole. A  occhio e  croce essa   supera   i 500 mila miliardi
all'anno. I  capitali che  gli italiani,  sospinti da insane
paure, nascondono  in Svizzera  hanno fatto di questo paese,
un tempo cantato dagli anarchici e dai perseguitati politici
di ogni colore, un'appendice bancaria del Lombardo-Veneto.

*
Con tutto  questo grasso  in giro  non si  capisce perché lo
Stato abbia  bloccato il  calendario sul Venerdì di magro. O
si capisce  molto bene.  La verità  è che la classe politica
tace perché  ha paura  della secessione  del  Nord.  E  alla
diffusa voglia  che i settentrionali  mostrano di non pagare
le tasse   provvede  con l'elargizione d' indulgenze, invece
che con la comminazione di penitenze.
Certo, essa  non vorrebbe  perdere né  il  Sud  né  il  Nord
perché, storicamente, non ha una funzione di guida politica,
ma solo  quella di  mediare sotto  banco i patti segreti che
intercorrono tra la Confindustria e i poteri che di volta in
volta hanno voce in capitolo a Roma e nel Sud.
 Ma  le conseguenze  di questa  classe -  dico i  De Mita, i
Casini, i  Berlusconi, i D'Alema, i Fini e  quant'altri - le
sta  miserevolmente   pagando  il   Sud  strapiombato  nella
disoccupazione. Tutt'al  più -  e solo  in alcune  regioni -
nell'occupazione tetra  di cui  Luca Meldolesi mette in luce
l'esistenza. Ma noi, i nostri figli, nati non fummo a vivere
come bruti.  Disoccupati e  male  occupati,    qui  è  stata
bruciata   sull'altare   delle   impotenze   e   castrazioni
politiche un'intera  generazione;  per  essere  precisi  una
classe d'età,  quella compresa  tra i  25 e  35 anni,  e  si
prepara il falò per la successiva, quella che adesso sta tra
i 14 e 24 anni.
Un altro  anno come  i cinque trascorsi e qui ci ritroveremo
tutti affiliati  alla mafia,  nella speranza  che ci procuri
qualche occasione di lavoro, sia pure illecito.
 

Sul piano regionale iataliano
è bene  dirla chiara e tonda:
per il  Sud il federalismo è un bidone, il quale si presenta
come il  seguito del mal congegnato governo dei banchieri, a
sua volta fomentato dall'arlecchinata bossista.
Nell'attuale  assetto   dei  rapporti   di  proprietà  e  di
produzione, al  Sud uno  Stato federale  significherebbe  la
consegna del  paese e  del popolo meridionale alla borghesia
parassitaria che  si produce  e riproduce  nella  corruzione
romana, cioè alla peggiore classe di malfattori che si possa
immaginare - peggio, molto peggio, dei cortigiani angioini e
dei baroni  spagnoli, gentaglia  che ci  porterebbe a un Sud
più vile, più volgare, più disperato dell'attuale.
L'alternativa che  il Sud  Sud (quello  che ancora  conserva
l'uso della  testa e del resto) pone è netta. Se l'Italia si
rompe, si  rompe anche il mercato nazionale delle merci, dei
surplus e degli uomini. Per noi, la strada è indicata  dalle
necessità che la storia addita, in primo luogo dall'esigenza
improrogabile  di  lavorare,    produrre,  commerciare.  Una
svolta che, sicuramente, non potrà  essere concepita a Roma,
né diretta da Roma.
La rottura  comporterà sicuramente  un costo  per le  classi
impiegatizie,  ma  probabilmente  gioverebbe  moltissimo  al
resto delle classi. D'altra parte, siccome  il nostro grande
passato  si  è  sviluppato  nel  Mediterraneo,  mentre  alla
presenza  dell'Europa   ha  sempre  corrisposto  una  nostra
sudditanza, è  certo che il nostro avvenire  non è l'Europa,
ma il Mediterraneo.
E se  si rompe, il passato ha il diritto e persino il dovere
di riaffiorare sulla ribalta della storia, nella quale i 137
anni  di   unità  saranno   classificati  come  una  nefasta
parentesi.
L'altra ipotesi  è la  conservazione  dello  Stato  centrale
italiano e  una politica  di sviluppo  industriale.   In tal
caso il  resto d'Italia   finanzierà,  come   è sua  precisa
obbligazione di  fronte alla  storia e agli uomini, le opere
necessarie, la  cui   direzione sarà  affidata a  persone di
provata capacità  e di  retti  costumi,  preferibilmente  di
provenienza non  politica e non meridionale, possibilmente a
esperti di cittadinanza tedesca e inglese.

IL comune sentire degli Anni Sessanta
Non   ho mai  soverchiamente creduto a quell'adagio che dice
"l'abito non fa il monaco".  L'articolo precedente continua,
ma lo  rompo deliberatamente  perché un giornalista sa che i
testi lunghi  annoiano il  lettore. Voglio, con questo dire,
che nel   momento in cui finalmente il popolo meridionale si
rende conto  dei pericoli  che incombono  e  percepisce  che
grandi  cambiamenti   sono  possibili   anche  a  brevissima
scadenza, la  voglia di  parlare e  di dire  cose pensate in
quarant'anni  di   solitudine  sarebbe   tanta,  eppure   va
trattenuta in omaggio al mestiere.
Non vi  offenda l'immodestia,  ma quando  ce vo,  ce vo. Tra
Bossi, separatista, e il sottoscritto, anche lui separatista
da trent'anni,  c'è di  mezzo non una questione di stile, ma
la diversa statura umana e culturale.
L'Italia è  uscita dalla  barbarie ordalica  a  partire  dal
sesto secolo avanti Cristo. Quindi neanche a Bossi e ai suoi
dovrebbero far difetto gli elementi della civiltà. Tuttavia,
siccome gli  italiani del Nord hanno paura di perdere, nello
scontro con la concorrenza industriale europea e a causa dei
gravami fiscali  che  dovrebbero  giustamente  ricadere  sui
redditi, una  condizione che  essi  credono  miracolosamente
raggiunta, o  comunque raggiunta  per meriti  propri - e che
invece è  in larga  parte frutto  del flusso a basso prezzo,
nei due  decenni trascorsi, dei narcodollari investiti o ivi
portati per  la ripulitura dalle cosche mafiose meridionali,
nella misura   certamente  di milioni  di miliardi  - questo
ignobile e  losco soggetto,  ignorante e per giunta vanesio,
più spesso  sbronzo che  sobrio e  probabilmente  finanziato
sottobanco dall'industria   d'Oltralpe,  uno che, se Alberto
da Giussano  è veramente  esistito,  ora  sta  rimorendo  di
vergogna  nella   tomba,  si   è  erto   a  capo   tribù  di
un'imbufalita  orda  di  pessimi  cittadini  e  di  italiani
inediti (perché  a tutto  si  erano  piegati  gli  italiani,
persino a  fingersi degli imperiali imbecilli con Mussolini,
finché non  venne il  10 Giugno 1940, il giorno fatale della
verità, ma  mai ad  assecondare i cani arrabbiati, come oggi
pare stia accadendo).
 Qust'ignobile  beone,    resosi  conto  che  sarebbe  stato
l'ultimo fra  le persone  civili, ha finto d'  imbarbarirsi,
d'impazzire: ha messo il cappello a sonagli;  come dice Nino
Taranto s'è fatta a faccia do pazzo.
Diversamente da  Bossi, anzi da persona che si reputa civile
-  e   come  tale   volendo  seguire,   finché  le  cose  lo
permetteranno, procedure  civili  -  credo  mio  dovere  non
omettere la  verità (quantomeno  quello   che credo  sia  la
verità),   anche se  enunziarla potrebbe  apparire  un  atto
contrario  agli   interessi   dello   schieramento   a   cui
appartengo.
La verità  a cui mi riferisco riguarda l'atteggiamento degli
italiani del  Centronord, al tempo della politica cosiddetta
dell'intervento straordinario.
Sul finire degli Anni Cinquanta, ancor prima che il miracolo
economico italiano  raggiungesse l'apogeo,  una parte  della
classe politica   chiese  al paese di intensificare  l'opera
di rinascita  del Sud,  con interventi  pubblici nel settore
della produzione industriale. Anche se la sinistra comunista
e i  sindacati nicchiarono,  le regioni  settentrionali  del
paese -  quelle più  dense di   popolazione  operaia  -  non
sollevarono obiezioni.  Bisogna intendere che acconsentirono
a un  maggior peso  tributario, in  nome dell'unità  e della
pari dignità nazionale.
Espressero,   invece,   una   fiera   opposizione   sia   la
Confindustria sia  il sistema bancario, il quale è da sempre
al servizio  delle grandi famiglie. Ma quando capirono che i
loro giornali  - e  i grandissimi giornalisti al soldo - non
ce l'avrebbero  fatta a   sollevare  l'opposizione popolare,
cambiarono tattica:  italianamente si  infilarono nel  gioco
per scassarlo  e trarne  il massimo  profitto.  In  effetti,
l'industrializzazione  nel   Sud,  un   anno  dopo  l'altro,
raggiunse i livelli della pagliacciata.
A profittarne  fu principalmente   il  settore  industriale,
naturalmente padano,  anche se  l'ignobile  farsa  fu  tutta
rappresentata dalla  classe politica nazionale, specialmente
da quella  meridionale, fra  cui non pochi santoni e santini
oggi venerati in  paradiso.
Allora la  gente  giustamente  pensò  che  negli  affari  un
pizzico di  disonestà poteva   essere perdonato. Altrettanto
giustamente pensò che chi operava in politica avrebbe dovuto
limitarsi all'inganno  del vaniloquio,  senza sforare  nella
corruzione e  nel bengodi del pubblico danaro (che in teoria
- ma solo in teoria - è di tutti).
Quei comportamenti  politici pesarono -  giustamente - sulla
prosecuzione dell'intervento,  il quale  si arenò.  Come  se
fosse una nota a piè di pagina, qui vorrei far notare che la
spavalda cuccagna  seguita al  terremoto in  Irpinia non  si
lega alle  imprese precedenti.  Infatti, negli Anni Ottanta,
il consociativismo  e il  craxismo aggiunsero  ai  caratteri
somatici della  classe politica connotati che essa non aveva
ancora  negli   Anni  Sessanta.   Fra  questi,  sicuramente,
l'arroganza e il disprezzo della pubblica opinione.
Fin qui  la premessa. Ora debbo spiegare perché -   tolta la
Confindustria e  la banca  -  la nazione italiana accettò la
politica  cosiddetta   dell'intervento  straordinario  e  il
relativo peso economico.
Risposta estremamente  semplice: Perché, in quegli anni,  il
Nord per  la prima  volta   poté toccare  con  mano  che  il
disagio  occupazionale   del  Sud   si  riproduceva  con  il
riprodursi  degli   esseri  umani.  Anche  chi  non  si  era
addentrato nello studio della questione meridionale cominciò
a capire  che  il Nord troppo aveva (o aveva avuto)  per non
dover dare  (o restituire)  almeno in  parte; quantomeno ciò
che era  indispensabile  per    sollevare  da  quel  malanno
sociale le future generazioni del Sud.
I più acculturati percepirono che gli interessi meridionali,
sacrificati  per   oltre  un   secolo  in  nome  del  comune
risorgimento, non potevano essere cacciati né dalla porta né
dalla finestra.
Certamente era  un   comune  sentire,  assai  diverso  dagli
strafalcioni che  ci somministra  in TV  quel  Rigoletto  di
Bossi, che  ha per nome Miglio; un sentire ormai disperso, e
non solo  per colpa  delle legioni  di  svogliati  impiegati
postali e  di insegnanti  impreparati che  il Sud ha spedito
per quarant'anni  oltre il  Volturno, ma  anche a  causa del
complesso d'inferiorità  che i  capitani d'industria  padani
avvertono  verso   i  loro   colleghi  tedeschi,  inglesi  e
francesi.

Il debito degli italiani
   Il  vero e  grosso debito dello Stato italiano - e di
tutti gli  Italiani -  al quale  la  Confindustria  vorrebbe
sottrarsi con  l'aiuto di Bossi, non è costituito dai famosi
due milioni  di miliardi  di Bot  improvvidamente emessi dal
tesoro, ma  dall'obbligazione che  il  resto  del  paese  ha
contratto con il Sud.
Quando l'Italia  aveva ancora qualche pudore, la cosa veniva
chiamata impropriamente questione meridionale. Oggi, chi più
se n'è dimenticato, meglio si sente.
Proveremo restituirgli  la memoria.  Cos'era,  dunque,    la
cosiddetta questione?
La sconfitta   di  Napoleone (1814) e il successivo patto di
mutuo appoggio  tra le  tradizionali potenze dinastiche  non
ebbero la  forza di  cancellare l'idea,  allora nuova,    di
Stato-nazione, con cui venticinque anni prima la Rivoluzione
del 1789  aveva sostituito  "lo Stato sono io" di Luigi XIV:
il soppresso potere assoluto e divino dei re.
  Presa  coscienza  del  cambiamento,  dove  le  nazionalità
possedevano  una   qualche  forza   militare,  le    potenze
dinastiche  si   astennero  da   offese  flagranti   a  quel
principio.  Non   così  con   le  nazionalità   storicamente
soggette.  Fra   queste   l'Italia,   debole,   però,   solo
diplomaticamente, come  dire  solo  sulle  scartoffie  delle
cancellerie imperiali.  L'Italia, infatti,  agli occhi degli
intellettuali italiani ed europei era non solo la più antica
nazione  d'Europa   -  l'unica   nazione  nata  prima  delle
invasioni barbariche  - nonché  fonte e  culla  riconosciuta
della civiltà  occidentale, ma  ,   per  le  sue  dimensioni
geografiche,   per il numero degli abitanti, per il grado di
civiltà, per  la sua  ricchezza potenziale  e in  atto,   in
pectore, anche una grande nazione.
Il moto  nazionale italiano,  il  Risorgimento  -  in  buona
sostanza una lunga rivoluzione contro l'Austria, il papato e
le  dinastie   regionali,  ivi  compresa  quella  sabauda  -
investe l'intero periodo  che va dal 1815, data del proclama
di Rimini e della fucilazione di  Gioacchino Murat, al 1860,
anno in  cui insorge  la Sicilia  e Garibaldi,  dopo  essere
sbarcato  incolume   a  Marsala,   compie  una   specie   di
passeggiata militare  fino a  Napoli (Venezia  sarà liberata
nel 1866,  Roma   nel 1870,  Trento e Trieste lo saranno nel
1918).
Per capire  quel che  avvenne dopo il 1860, a unità fatta, è
necessario ricordare  che il Risorgimento cade nella fase in
cui le  grandi potenze europee sono a copiare l'Inghilterra,
onde arrivare  a costruirsi  anch'esse   un grande  apparato
industriale. Pertanto,  in Italia  la parola    Risorgimento
assume  il  doppio  significato  di  unità  nazionale  e  di
modernizzazione industriale.   E' già noto, infatti,  che la
prosperità e  la civiltà  di un paese sono indissolubilmente
legate alle  nuove tecnologie.  Gli  economisti  si  battono
per l'unificazione  del mercato   nazionale. Sanno, infatti,
che si  tratta di  una   pre-condizione dello  sviluppo. Gli
eredi dell'illuminismo  settecentesco,   i Ferrara  e    gli
Scialoja, approdati  dal Sud a Torino, a sostenere Cavour; a
Milano  Cattaneo, Correnti, Maestri, Casati,  che continuano
la pregnante opera di Romagnosi con  Il Politecnico, avviano
gli italiani ai problemi della nuova vita economica.
Le idee  di Cavour  sono lucide  e pratiche.  Unico fra  gli
statisti ed  economisti del  tempo, capisce  che l'Italia ha
una grossa  carta da  giocare con le sue produzioni agricole
quasi monopolistiche - la seta, l'olio, il vino, la frutta -
che tutta l'Europa sviluppata chiede e paga bene.
    Non  si sbaglia. In effetti, le produzioni mediterranee,
nei decenni  a venire,  pagheranno la  costruzione del paese
italiano.
      Ma l'Italia,  nazione   sin dai  tempi di  Orazio e di
Virgilio,  nazione   anche  nel   Medioevo   nonostante   le
scorribande e  le occupazioni barbariche, nazione per Dante,
nel 1300,  e per  Machiavelli, nel  l500,  crolla  sotto  il
dualismo sabaudo,  proprio quando era finalmente divenuta un
solo paese politico.

*
Al momento  dell'unità molte  aree e  regioni del Centronord
erano realmente  povere, più  povere di  quanto  in  effetti
fosse il  Sud, ma   nel   complesso   niente   appariva  più
povero e  arretrato del  lontano Sud, incuneato in quel mare
che l'Europa  aveva disertato  da tre secoli. Qui i punti di
modernità e  prosperità non erano diffusi, ma non mancavano.
Specialmente dove  il paesaggio  era dominato  dall'ulivo in
piantagione, le  relazioni  commerciali  con  l'Europa,  con
l'Italia restante  e l'America  erano vivaci; le entrate dei
proprietari consistenti.
Proprio nell'ultimo  scorcio della  fase pre-unitaria,    si
erano andate   sviluppando  anche la viticoltura e l'agrume,
sicuramente ad  opera di un settore più moderno della classe
agraria. Tuttavia  l'immagine complessiva  del Sud  agricolo
era quella  di un  paese appena  uscito dal  medioevo e  dai
rapporti feudali.  I governi  senza amore  di sovrano  e  le
esternazioni a  favore della corte spagnola avevano lasciato
profondi   segni   nella   vita   di   queste   popolazioni,
specialmente in  campagna (dove, solo da ultimo l'attenzione
dei due Ferdinando, nonno e nipote, fu ripagata con insolita
devozione, talché,  parafrasando o  integrando  Carlo  Levi,
potremmo dire  che i  contadini meridionali  riconobbero due
sole sovranità,  quella dei  Borbone e quella dei presidenti
USA, la  terra della  sperata libertà);  una situazione resa
ancora più  pesante dal  fatto che, crollata l'aristocrazia,
la classe proprietaria era divenuta enormemente più numerosa
- e  anche più esosa, per effetto della nefasta combinazione
tra il disprezzo castigliano per il lavoro fatto in vista di
un  profitto  e  il  continuo  rinnovarsi  ed  elevarsi  dei
bisogni di consumo e di quelli, altrettanto spagnoleschi, di
fasto familiare.
Nonostante  lo   squallido  panorama   pubblico  e  privato,
l'Azienda-nazione  Regno   delle  Due   Sicilie  è   solida,
quantomeno rispetto  agli  altri  Stati  regionali.  Un  po'
perché le  colture mediterranee  a quel tempo non hanno gran
concorrenti e i mercanti napoletani vendono all'Inghilterra,
alla Francia,  all'Austria, alla  Russia profittando  di una
condizione di  quasi monopolio  mondiale, un  po' perché  un
artigianato arretrato,  ma diffusissimo, provvede ampiamente
ai bisogni che la popolazione ha di manufatti, un po' perché
i  Borbone   non  spendono,   un  po'   perché   la   grande
partecipazione al  commercio mondiale  ha esteso enormemente
la marineria,  il lavoro e i profitti connessi - il Regno si
presenta all'appuntamento  unitario delle  regioni  italiane
come la  componente più  danarosa, più ricca di circolante e
di risparmi.
.     Dopo la dissanguante guerra con l'Austria, Cavour e la
sua anima  nera, Farini,  non hanno  scelte: o  il  Piemonte
spoglia Napoli  o i  Savoia saranno  costretti  a  lasciare,
poveri e bastonati, il tavolo su cui hanno puntato tutto.
        Il martirio del Sud  - che sarebbe stolto immaginare
in termini  attuali come  il disagio popolare per un sistema
tributario elevato  -   comincia subito,  appena  appare  la
camicia rossa  dei garibaldini.   Il  paese è prima razziato
nelle sue pubbliche proprietà e poi affogato in un alluvione
di tasse e balzelli. Garibaldi non ha il tempo di rifugiarsi
scontento  e  scornato  nel  suo  ritiro  di    Caprera  che
l'insurrezione popolare  - il  brigantaggio politico - è già
scoppiata. Essa  dura otto  anni, ma il governo torinese non
demorde: Mors tua, vita mea.

      La cosiddetta questione meridionale comincia in questo
momento. E solo in questo momento. Tutti gli Stati incassano
e spendono.  Anzi di  solito spendono prima d'incassare. Nel
caso  italiano  non  bisogna  tanto  vedere  come  ma  dove.
Mentre, a  livello centrosettentrionale  il  fiscalismo  dei
governi sabaudi  può  essere  spiegato  facendo  ricorso  al
concetto di  scontro di  classe  (i  contadini  pagano  e  i
profittatori del  nuovo regime  arricchiscono),  al  Sud  le
entrate  fiscali   non    hanno  una  ricaduta  nella  spesa
pubblica. Il  fiscalismo impoverisce tutti, sia i già poveri
sia i ricchi. Siccome  munge l'intero assetto sociale, senza
beneficio per  nessuno, il  fenomeno va inquadrato sotto una
luce diversa e definito con altro nome.
Sul personale  politico piemontese  era  grande  l'influenza
parigina. La  Parigi di  Napoleone  III  fu  incredibilmente
corrotta. E  quando si  dice Parigi,  si dice  la Francia. A
simiglianza dei  loro vicini  d'Oltralpe e  loro mentori  in
tutto, al tempo di Cavour i governanti piemontesi annegavano
nella  corruttela.   Chi  scorra   gli   atti   parlamentari
dell'epoca,  vede   insorgere  un  caso  a  ogni  seduta.  A
Confronto la   Tangentopoli  milanese sembra  quasi opera di
persone perbene.
Anche il  danaro che  fugge dalle  casse dello  Stato  sotto
forma di   peculato  o altro  è un investimento sociale (sia
pure illecito).  Difatti, nel  momento in cui era necessario
far germogliare una ricchezza capitalistica,  in vista di un
futuro industriale,  le larghe  maglie  dell'erario  sabaudo
(larghe persino  con il  re, ché  - anche lui - s'impossessò
illecitamente di  venti milioni)  la fondarono  partendo  da
zero. La  corruzione fece  da rosa dei venti dello sviluppo;
si mosse al seguito dei ladri di regime.
   Un caso esemplare di arricchimento all'italiana, è quello
del bancario  livornese  Pietro  Bastogi,  che  per  le  sue
indiscusse capacità  Cavour elevò  prima a  direttore  della
Banca Nazionale  e poi  a ministro  delle finanze.  Morto il
Conte, l'abile  Pietro fece  il resto  da sé.  Una delle sue
attività più  proficue consisteva  nel prestare  allo  Stato
italiano, ovviamente  a tassi  salatissimi,   i soldi che lo
Stato  gli   aveva  prestato.   In  questo  modo  rivaleggiò
nientemeno  che   con  i   Rothschild,  in  occasione  delle
concessioni ferroviarie.  Non essendo  però  un  Rothschild,
ottenne soltanto  le Ferrovie  Meridionali,   che secondo  i
calcoli avrebbero  fruttato di meno. Invece fruttarono tanto
che, a partire dagli Anni Novanta, Bastogi, promosso intanto
conte per  i proficui  consigli dati  in materia di mazzette
alla casa  regnante, fu alla testa dell'elettrificazione del
paese. Ai  suoi eredi  il Sud piacque tanto, che fissarono i
loro  affari  a  Napoli,  quali  proprietari  della  Società
Meridionale di  Elettricità, SME,  i  cui  meriti  non  sono
eguagliati neppure dai miracoli di  San Gennaro.
    Invece al Sud, la micragnosità della spesa statale è ben
lontana dal         favorire  la formazione di una classe di
nuovi  ricchi,  anche  se  non  sempre  perbene  -  come  in
Piemonte, in Lombardia, nel Veneto, a Firenze, a Roma - anzi
la debolezza  della lira  annienta  la  fiducia  di  cui  la
mercatura   napoletana    godeva   nelle   maggiori   piazze
commerciali, da  Odessa a  New York  e fa  abortire i solidi
germogli capitalistici che nella Napoli borbonica spuntavano
intorno agli affari commerciali.
      Questo sistema  fiscale, fondato  sul  prendere  senza
restituire l'equivalente in spesa pubblica, è stato definito
da Nitti  un drenaggio   di capitali dal Sud al Nord. E tale
fu in  effetti, anche  se forse è più pertinente definire il
fatto  un'espropriazione   di  surplus   economico  di  tipo
(autenticamente) coloniale.  La cosa   significa che, in una
prima fase,   la  fiscalità    annientò  la  possibilità  di
rinnovare compiutamente  il ciclo  produttivo  (esempio,  il
grano necessario  alla semina,  o gran  parte  di  esso,  fu
venduto per  pagare le  tasse, oppure, per lo stesso motivo,
un orticoltore  non poté  dotare il  suo campo di un pozzo).
Nelle fasi  successive, l'azione espropriatrice incontra una
realtà già  priva di  normali eccedenze, ma dà egualmente un
risultato in quanto il gettito fiscale viene dall'astinenza.
I  proprietari  s'indebitano  per  pagare  le  tasse  (Nitti
registrò l'alto  numero delle  esecuzioni forzate  richieste
dall'erario,  regione   per  regione.   Dovunque   nel   Sud
altissima, essa riguardava in Sardegna circa il 90 per cento
dei proprietari).  I contadini,  a cui  nessuno fa  credito,
stringono la cinghia, se non peggio, e vanno in America. Gli
artigiani, indebitati,  vendono la casetta avita ed emigrano
come operai comuni.
          A questo modo, il Sud già non ricco, s'impoverisce
ulteriormente e  a ritmo  esponenziale.  Ciò  nonostante  si
verifica un  inatteso miracolo.  Le esportazioni di vino, di
agrumi si  moltiplicano per  due, tre, quattro, dieci, venti
volte. Quelle  di olio crescono anch'esse. Con la valuta che
incassa, Roma  riesce a  portare  in  pareggio  la  bilancia
italiana dei  pagamenti internazionali.  Il paese è salvo, i
Savoia  pure.   Il  capitalismo  italiano  è  fatto.  L'olio
pugliese vale  quanto gli  zuavi  di  Napoleone  III,  e  il
pareggio del  bilancio quanto  dieci  San  Martino  e  venti
Solferino.
Infatti...(Infatti contiene  le cose  che, patriotticamente,
sono tenute   nascoste).  Infatti, quei  crediti di Francia,
che tanto  assillavano Quintino  Sella e le altre degnissime
persone che  in quel  periodo governarono l'Italia e tuttora
dominano -  su cavalli  di bronzo - le nostre piazze, a loro
dedicate, non erano poi tutti francesi. In buona parte erano
ducati napoletani  che, finiti  non si  sa  come  in  tasche
piemontesi, erano  stati spesi  per comprare  alla borsa  di
Parigi le  svalutate  cartelle  del  tesoro  italiano,  dove
(diciamo per  comodità) un  Bot da  100 lire-oro si comprava
anche per il corrispondente in franchi di 21 lire.
Chi comprava  faceva una  scommessa, ma  la scommessa adesso
risulta vincente.  E' da credere che molta parte del  valore
delle  esportazioni   venga  intascato  da  quei  finanzieri
toscopadani più vicini al governo, magari interni alla Banca
Nazionale,  e dagli stessi uomini piemontesi di governo, che
erano riusciti a incassare oro dal Banco di Napoli in cambio
di biglietti della Banca Nazionale, la quale, poi,  aveva la
lodevole consuetudine  di fare  doppie, triple  e  quadruple
tirature della  stessa serie  di biglietti  (come  dire  tre
illecite su una autorizzata).
Dalla tomba,  Cavour reclamava  il  riconoscimento  d'  aver
avuto ragione:  se   il valore  della seta  era  caduto  per
l'arrivo di  quella giapponese,  le esportazioni meridionali
tiravano il paese dal fango (almeno da quello finanziario).
Come in  quella degli  individui, vi sono anche nella storia
dei popoli momenti favorevoli, che poi non si ripetono.  Se,
tra il 1860 e il 1914, il Sud avesse avuto un suo Stato - se
per caso  fosse rimasto borbonico - il quasi monopolio delle
produzioni mediterranee  gli avrebbe  permesso di  camminare
velocissimamente   all'inseguimento    di    quel    sistema
industriale, al  quale tutta  l'Europa  e  gli  Stati  Uniti
tendevano.

Caduta la  Destra, erede del sabaudismo cavouriano, morto il
piemontese Depretis  che ne  fu -  nonostante ogni contraria
declinazione  d'identità - il più navigato dei continuatori,
i truffatori  di regime,  coloro che  erano cresciuti  sotto
l'ala  protettrice  del  grande  ministro  e  che  si  erano
arricchiti con  i soldi dei contribuenti,  una volta fatte e
rifatte le  ferrovie e  le strade,  intendono che  lo  Stato
provveda a rigenerare le fonti d'arricchimento. E qual fonte
migliore dell'industria?  Bismark, che vuole tirare l'Italia
dalla sua  parte, dà  una  mano.  L'Italia,  che  è  vissuta
d'esportazioni in  Francia, rompe  con la  sorella latina  e
inaugura  il   protezionismo  industriale  (e  anche  quello
granario,  per compensare i latifondisti).
Pronubo Francesco  Crispi   (dopo 30  anni d'unità, il primo
meridionale  a   essere   presidente   del   consiglio,   ma
evidentemente scelto  non a  caso,  perché  basteranno  solo
200.000 lire  per corromperlo), nasce  in Italia una  grande
industria, la  quale   si dice  moderna, ma che in effetti è
gracilissima. Infatti  riuscirà a  presentarsi   sul mercato
mondiale, dopo  qualche sporadico  episodio  come  il  raion
(Anni Trenta)  e la  Vespa (Dopoguerra), soltanto intorno al
1960, mercé  lo sfondamento  operato dagli  elettrodomestici
leggeri.
Intanto, per  70 anni  e più,  mentre  i  governi  nazionali
dirottano la valuta rimessa dagli emigranti - e si tratta di
cifre favolose  -   al finanziamento  e  rifinaziamento  del
Tesoro, di lor signori e delle banche, che essi (appunto lor
signori) hanno  il garbo  di far fallire una dietro l'altra,
gli italiani pagano le automobili, i concimi, le macchine da
scrivere e  quant'altro due,  tre, quattro,  dieci volte  il
loro prezzo  sul mercato  mondiale. E  si  ripete  qui    la
sceneggiata già  vista con le tasse: i meridionali pagano la
mazzetta   ai    signori   dell'industria,   e   non   hanno
contropartite. Anche la gente del Nord  paga la mazzetta, ma
almeno i  lavoratori settentrionali  hanno il  beneficio che
l'industria  protetta   dissemina  lavoro   all'interno  del
Triangolo industriale.
                                                           *
Ho detto  l'essenziale della storia lontana. Lo scandalo del
Piano Marshall  e dei dollari intascati esclusivamente dalla
FIAT,   nonché il  contributo dato  dal  lavoro  meridionale
all'industria del  Triangolo (che  fu  l'ultimo  uovo  della
Gallina dalle Uova d'Oro), una vera Befana salariale per gli
Agnelli,  sono   nozioni  troppo   recenti  perché  qualcuno
l'ignori. Ma quanto è costato al Sud tutto questo?
E' arcinoto:  più di venti milioni di emigrati. Un altro Sud
disperso per  il mondo.  Ma oggi questa nozione patetica non
basta più.  Bossi ha  cominciato  a parlar di denari. Era un
argomento  da   non  toccare   da  parte   di   un   padano.
Accortamente, nessuno  l'aveva fatto  prima di  lui,  e  ciò
dimostra ancora  una volta (se ce n'è bisogno) che abbiamo a
che fare con un asino sbronzo.
O voi  che sostenete  di  lavorare  e  produrre,  anche  noi
sappiamo fare i conti. E non per celia.
Per sapere quanto costano a un paese 20 milioni di emigrati,
definite la  cifra che  si spende  ad allevare  un  ragazzo,
sommatela con  il valore  che un uomo genera nel corso della
sua vita  lavorativa. Ciò fatto moltiplicate - appunto - per
20 milioni.  La cifra  che viene  fuori compra  le città  di
Roma, Milano, Firenze, Genova, Bologna messe assieme, con le
loro vie e i loro palazzi, nonché interamente  le terre e le
fabbriche delle regioni di cui sono capitali.
      Ma il  risarcimento del  danno è  solo una  parte  del
credito. Dal punto di vista patrimoniale uno Stato non è che
un' associazione, le cui norme vanno estese al caso Sud/Nord
. Quando  una associazione  si scioglie e l'attivo supera il
passivo, dovunque  nel mondo  civile l'attivo  si ripartisce
fra gli associati, nel nostro caso 57,7 milioni di italiani.
Ma quant'è,  oggi, la  quota  di  attivo  che  dovrà  essere
restituita al Sud?
Il  conto   può  esser  fatto  in  vari  modi.  Per  esempio
calcolando  il  capitale  fisso  sociale  istallato.  Oppure
facendo un  conto dei  profitti e delle perdite; risommando,
cioè,   le entrate  e le  uscite pubbliche, più le incidenze
del  protezionismo   industriale,  più   lo  spostamento  di
manodopera,   più    la   crescita    a   ritmo   geometrico
dell'improduttività  per l'esaurimento dei  surplus, ecc.
 Un  modo sicuramente  più economico per chi deve restituire
considera  il  prodotto  netto  annuale  nazionale,  di  cui
l'ISTAT ci  dà anche  la media  pro capite.  In tal  caso  i
meridionali, che  stanno  sotto  la  media  nazionale  di  8
milioni a  testa (20.500.000  teste),  vanno  rimborsati  di
altrettanto per  il presente  e per  il  passato.  164  mila
miliardi per 137 anni. In totale 22, 5 milioni di miliardi.
       Come è facile capire, il debito italiano verso il Sud
è nell'ordine  di centinaia  di volte  il debito in Bot. Con
cifre del  genere,  il  campanile  di  San  Marco,  più  che
conquistarlo, i  serenissimi se  lo debbono vendere, insieme
con tutte  le Ghirlandine,  le Torri  e i Torrazzi, di cui è
felicemente ricca  la Padania  bossista, nonché  con tutti i
Duomi e  le Piazze  e i  Palazzi,  ma  anche  i  quadri  del
Mantegna e   di  Tiziano, le statue di Michelangelo e magari
anche i  manoscritti di  don Lisander,  di Montale, di Carlo
Cattaneo e di Gianfranco Miglio, nonché le aste tracciate da
quel somarello di Bossi l'ultima volta che andò a scuola.
Se proprio  arriveremo a  un pagamento  in natura, io chiedo
una fresca valle del Trentino per l'estate, magari la stessa
dove un mio zio ci lasciò la pelle per liberare Trento.
Fuor di  celia, i  conti si faranno - certamente bene - e il
Nord,  padano   o  austroungarico   che  sia  nel  frattempo
divenuto,     pagherà  il   dovuto.   Pagherà   sicuramente,
nonostante i ringhi di Bossi e il salmodiare di Miglio.
                                                     *

    Tiriamo  le conclusioni. Uno. Di un Sud federale abbiamo
le preimmagini. Basta guardare la faccia e ascoltare qualche
frase dei  discorsi di D'Onofrio, di Mastella, di Mattarella
per sapere  ciò che  ci capiterebbe. In un paese interamente
da ricostruire  è necessario  un potere  che  rispecchi  gli
interessi prevalenti e non il vaneggiare dei quaquaracquà.
Due. Potremmo  dire sì  a un'Italia  che   proceda da subito
all'industrializzazione del  Sud e   la porti avanti a marce
forzate. A sacrificarsi sull'altare degli equilibri monetari
o di  bilancio, come  adesso è  di moda,  saranno altri, per
esempio  i  professionisti,  gli  operatori  autonomi  e  le
società     che  realizzano   superprofitti,  ordinariamente
scialacquati  alla   Seychelles  o   altrove.  L'opera  deve
comunque andare  rapidamente avanti  fino al traguardo di un
milione e mezzo di nuovi posti di lavoro.
Sebbene l'Europa  abbia un  volto poco  simpatico,  potremmo
dire sì  a un'Italia  che, in  sede  comunitaria,    proceda
immediatamente alla  ricontrattazione dei  prezzi agricoli e
alla revisione della  politica  mediterranea.
Se no,  no. Di  gente che vuol vendere, oggi ce n'è tanta; a
scarseggiare sono  invece i compratori.  D'altra parte siamo
un popolo  forte e  più giovane  degli altri,  e abbiamo una
voglia di nuovo che altri non hanno. Dovunque arrivi, uno di
noi fa  presto ad affermarsi e a farsi amare. Alla fin fine,
da soli faremo sicuramente prima.
Tre. I  latini dicevano le cose con molta efficacia. Uno dei
loro detti  più famosi  si usa  ancora. Dice:  Si vis pacem,
para bellum.  Se vuoi  la pace,  sii pronto  a  far  guerra.
Purtroppo la vita, anche quella dei popoli, non si svolge su
un prato di margherite in fiore.
 
Nicola Zitara - Editore - 89048 Siderno - Piazza Portosalvo 1
Fax 0964 380498

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