Libero

MARINO MORETTI



La vita e le opere


Marino Moretti nasce nel 1885 in Romagna, a Cesenatico, dove morirà vecchissimo, dopo una vita appartata e densa di lavoro, nel 1979. Interotti gli studi, ad appena diciassette anni, si reca a Firenze, una città destinata a lasciare in lui un segno indelebile. Qui frequenta la scuola di recitazione di via Laura, dove conosce Aldo Palazzeschi: accompagnati anche dallo scarso successo delle loro ambizioni teatrali, i due intrecciano un'amicizia feconda e saldissima. L'opera prima di Moretti, la raccolta di versi "Fraternità" (1905), viene recensita dall'amico; al quale è ricambiato il favore per "i cavalli bianchi", prima raccolta di Palazzeschi che - lo si noti - riprende nel titolo un'immagine tratta dall'opera morettiana. Qualche anno dopo vedono la luce i libri più importanti di Moretti, da "Poesie scritte col lapis" (1910) a "Poesie di tutti i giorni" (1911), cui seguirà "Il giardino deii frutti" (1916). Si tratta di testi ispirati sin dai titoli a una vena crepuscolare di poesia quotidiana e abbassata di tono. E' significativo che editore di tutte e tre le raccolte sia Ricciardi di Napoli, che in quegli anni andava pubblicando anche le opere di Sergio Corazzini. Allo scoppio della Grande Guerra, Moretti si arruola volontario, ma ben presto gli è assegnato il ruolo di addetto stampa della Croce Rossa a Roma. Al termine del conflitto, il poeta sente significativamente il bisogno di presentare una selezione antologica della propria produzione giovanile e, insieme, di accomiatarsene (la guerra è stata un potente discrimine anche in senso culturale): nel 1919 esce pertanto presso l'editore Treves di Milano un volume di "Poesie scritte col lapis" che comprende una scelta di testi provenienti dalle precedenti raccolte. L'esperienza crepuscolare è così formalmente conclusa. In realtà, essa non muore del tutto; piuttosto, si rinnova segretamente nell'ispirazione del poeta e nella sua stessa sensibilità critica. Non per caso l'antologia appena citata rivedrà la luce trent'anni dopo la prima edizione, questa volta da Mondadori, e con nuove modifiche: il poeta vuole insomma suggerirci che il suo "lapis" (la matita) è sempre stato ben vitale.


Ma intanto Moretti, dopo alcuni racconti giovanili, ha iniziato a pubblicare anche i suoi primi romanzi, vale a dire "Il sole del sabato"(1913) e "Guenda"(1915), caratterizzati, come del resto i racconti, da un vivace 'colore' romagnolo. La produzione in prosa sembra prendere il sopravvento a partire dagli anni Venti. Nel '22 Moretti inizia a collaborare al "Corriere della sera"; nel biennio successivo pubblica due opere dedicate alla madre, "Mia madre" e "Il romanzo della mamma"; ma del '23 è anche un altro romanzo, "I puri di cuore". C'è quindi l'adesione (1925) al Manifesto antifascista di Benedetto Croce, ciò che, unito alla pubblicazione del nuovo romanzo "Il trono dei poveri"(1928), poco gradito al regime, induce Moretti a riparare per qualche tempo a Parigi e nei Paesi Bassi (l'iniziale antifascismo non modifica comunque il temperamento essenzialmente apolitico e appartato del poeta).
Successivamente escono i suoi romanzi più belli e fortunati, capaci di rendere con piglio agile e pittoresco ambienti e atmosfere della piccola borghesia provinciale: così "L'Andreana"(1935) e "La vedova Fioravanti"(1941): certo i due romanzi morettiani più fortunati. Da ricordare però anche "La camera degli sposi"(1958), così come vanno menzionate per la felicità della loro vena memorialistica opere come "Il tempo felice"(1929), "Via Laura. Il libro dei sorprendenti vent'anni"(1931) e "I grilli di Pazzo Pazzi"(1951).


Gli ultimi, lunghi decenni della vita di Moretti vedono, a sorpresa, la ricomparsa della produzione lirica. Come si è detto, in realtà il poeta il poeta non ha mai abbandonato del tutto i suoi versi, tendendo piuttosto a ripercorrere, rinnovandoli, i solchi tracciati nella giovinezza. Ma c'è spazio anche per poesie nuove, originali. Nel 1965 esce, nell'ambito della complessiva edizione mondadoriana delle "Opere", il "Diario senza le date", che comprende liriche composte a partire dagli anni Venti: un'ulteriore dimostrazione che il filo della originaria ispirazione non si è dunque mai del tutto interrotto. Dopo di che, ecco nel giro di pochi anni una serie di nuove raccolte in versi, complessivamente omogenee: "Lultima estate"(1969), "Tre anni e un giorno"(1971), "Le poverazze. Diario a due voci"(1973) e infine una seconda, aggiornata edizione del "Diario senza le date"(1974).



Le due 'stagioni' di un crepuscolare


Possiamo riassumere quanto detto circa la produzione di Moretti in uno schema abbastanza preciso. Fecondo poeta crepuscolare all'esordio; quindi, specialmente a partire dalla Grande Guerra, soprattutto nattatore e memorialista; infine ancora poeta, capace insieme di restare fedele alla sua vena originaria e di modificarla.
Esaminiamo qui, nei suoi due momenti, lo sviluppo della produzione in versi di Moretti, più caratteristica e letterariamente decisiva di quella in prosa (la quale ha comunque valore, soprattutto per il suo vivace gusto realistico).
Tra i primi lettori di Moretti, lo scrittore Federico Tozzi osserva che, mentre Gozzano deriva la sua poesia da quella, tutta "esteriore", di D'Annunzio, quella morettiana si ispira piuttosto a una "interiorità" di tipo pascoliano. E' uno schema un po' forzato, e riduttivo per quanto concerne il giudizio su D'Annunzio, ma in sostanza efficace, tanto da essere ripreso - pur se con notevoli aggiustamenti - anche dalla critica più recente. Dal corregionale Pascoli, Moretti deriva effettivamente il gusto delle piccole cose di tutti i giorni, della realtà più minuta e modesta e, insomma, il gusto di tutto quel repertorio di oggetti, atmosfere, parole che 'fanno' il suo crepuscolarismo. Altra significativa affinità, tra i due romagnoli, è il radicatissimo e non taciuto affetto per la madre.
Ma, oltre a Pascoli, Moretti sa comunque attingere anche ai poeti franco-belgi già più volte ricordati come fonte per il Crepuscolarismo italiano, e ai coetanei come Govoni, l'amico Palazzeschi e, per certi aspetti, Gozzano. Nel complesso, egli rielabora "con candida astuzia" temi e modi linguistici dei predecessori; e quella che offre è dunque una poesia colta e raffinata, al di là della apparente 'ingenuità'.


Che questa ingenuità sia, appunto, apparente, lo dimostra bene, oltre alla raffinatezza formale delle composizioni, anche l'idea stessa che Moretti ha della poesia e del ruolo di poeta. C'è infatti in lui una negazione della eloquenza poetica, e della 'storia' in cui questa eloquenza si dovrebbe manifestare, che in un certo senso, è ancor più radicale rispetto agli altri crepuscolari; se, per esempio, Gozzano diceva di vergognarsi di essere un poeta e Corazzini negava addirittura di esserlo, Moretti va oltre e afferma di non avere "niente da dire", giudica il poeta un essere di "poco cervello" che non sa nulla della vita, conoscendola solo dalla "giostra2 della poesia: insomma, una sorta di "pagliaccio", infinitamente distante dai "VATI" che alla poesia davano così tanta importanza.
Ne deriva, come osserva Fausto Curi, una vera "profanazione della poesia". L'autore applica il suo "lapis" alla realtà più banale e quotidiana, non però con l'idea di ricavarne 'epifanie' o simbolismi come fa Pascoli con le sue "Myricae", ma piuttosto per restituirla così come è, nel suo colore scialbo e inerte ('il grigio che incombe / sui cuori'). Di qui, ancora secondo la tesi di curi, il rovesciarsi del pascolismo morettiano in un sostanziale 'antipascolismo': se Pascoli è protagonista attivo della propria poesia, Moretti 'subisce' gli oggetti che canta e li registra annullandosi, per così dire, in essi.
Ma al di là di queste - forse un poco forzate - interpretazioni, quali sono tali oggetti? Quali i temi della poetica morettiana? Il repertorio non muta troppo rispetto alla maniera crepuscolare: giardini 'chiusi'(come quelli delle stazioni ferroviarie); ambienti e arredi domestici(per esempio la cucina con i tegami smaltati, gli aromi, il paiuolo che brontola); educandati e conventi, farmacie e botteghini del lotto; e poi beghinaggi, organetti, tristezza domenicale (il tipico 'giorno crepuscolare'); e ancora quaderni, matite, maestrine, compagni di scuola. Ma si potrebbe continuare a lungo.
In ogni caso, cantando simili oggetti e simili atmosfere, il poeta si ripiega in sè, ricerca sentimenti persino morbosamente tesi (per esempio, la 'gelosia' per la sorella sposata nella poesia "A Cesena"): c'è insomma - per riprendere il confronto - la sensibilità esasperata di Pascoli, non la sua 'felicità' dinanzi al 'manifestarsi' delle cose.


Ne consegue una scrittura di "grado zero"(Bàrberi-Squarotti), senza picchi espressivi. Una "prosa-poesia", come la definisce lo stesso Moretti nel testo d'apertura del "Giardino dei frutti", in cui il discorso è costantemente abbassato a un tono colloquiale e, appunto, prosastico. Di qui, quella "omogeinità tendente al grigio" che corrisponde all'assunto del "non avere nulla da dire". La sintassi è conseguentemente lineare, spesso franta, adattandosi ai poveri ritmi della realtà che rappresenta (si veda "Piove. E' mercoledì. Sono a Cesena"). Il lessico, ovviamente, è umile e semplice come il 'lapis' che gli dà vita.
Ma in tale contesto così atonale, spicca una - talvolta ben celata - squisitezza metrica e, più in generale, stilistica. Una raffinatezza formale certo in contrasto con il 'lassismo' che, come si è visto, ha caratterizzato la produzione crepuscolare rispetto al magistero di Carducci, Pascoli e D'Annunzio. Proprio da Pascoli anzi, Moretti deriva certe eleganti sperimentazioni e, in particolare, il gusto per le rime e le forme metriche chiuse (si ricordi come invece un Corazzini procedesse senz'altro nella direzione del verso libero). Non mancano poi arguti 'giochi di prestigio': se Gozzano rimava "Nietzche" con "camicie", Moretti ("La maestra di piano") fa quasi lo stesso con gli accoppiamenti "Piove:Beethoven" e "quaderni:Czerny". Nella sostanza, la "prosa-poesia" morettiana implica un aumento, non una diminuzione, d'artificio, che la allontana dalla prosaicità.


Nelle raccolte degli ultimi anni la poesia di Moretti tende a un gusto diaristico ed epigrammatico: un'evoluzione che come si è detto non contraddice, ma semplicemente sviluppa la primitiva maniera. Sono al riguardo preziose, in queste raccolte, le testimonianze poetiche che risalgono alla fase di mezzo della produzione morettiana (quella che appariva monopolizzata dagli scritti in prosa). Grazie a esse possiamo notare come l'originaria vena crepuscolare non scompaia mai del tutto ma, come dire, si modifichi prosciugandosi - poco per volta - in una dimensione più netta e priva di ripiegamenti 'sentimentali'. Ne risulta una ironia (e autoironia) non di rado beffarda, che riflette sulla vita e sulla morte, sulla poesia e sulla vecchiaia. Lo stile, di conseguenza, si innervosisce in una sintassi ancora più franta, mentre il metro, pur in apparenza piu' libero rispetto ai primi testi, rimane vigilatissimo. Vale più che mai insomma il giudizio della critica circa la "candida astuzia" del poeta.


La biografia e la carriera letteraria di Marino Moretti sono in definitiva quelle, per così dire, di un crepuscolare sopravvissuto. Nella sua vicenda possiamo così riconoscere quell'evoluzione, nella 'maniera' poetica ma anche esistenziale, che in altri autori è stata negata dalla morte precoce (Gozzano e Corazzini) o da mutate attitudini (Govoni e Palazzeschi), e in ogni caso dall'avvento della Grande Guerra che, come si è detto, ha inevitabilmente concluso la stagione crepuscolare.
A differenza di Govoni e Palazzeschi, passati dalle prime prove crepuscolari al Futurismo e a successive variegate esperienze, Moretti rimane sostanzialmente fedele a un suo 'tono', adattandolo però di volta in volta, rivisitandolo e ricreandolo continuamente. Tanto che pubblicherà più volte, con successive variazioni e sino agli anni maturi, la scelta giovanile delle "Poesie scritte col lapis": segno indiscutibile di fedeltà all'ispirazione poetica dei primi anni.


La Piè (Il pane dei poveri)
di Marino Moretti

Sotto la luce che gli batteva nel mezzo, il tagliere parve abbagliare nella scura cucina.

Cristina portò il matterello della piada, ch'era più corto e più sottile, un granatello quasi nuovo, e lo staccio mezzano: era il vaglio più rado, quello che toglieva la crusca alla farina, ma lasciava il cruschello.

La Menghinina era d'avviso che un po' di cruschello desse miglior sapore alla piada.

E poi poteva mancare il cruschello al pane dei poveri?

Ella era una donna antica, un'azdora (la massaia) della tradizione e si mostrava contrarissima alle azdore giovani che facevano della piada una pizza, un dolce qualsiasi, adoperando - le schizzinose - il puro fior di farina, gramolando e impastando col latte, lo strutto e la chiara d'uovo, aggiungendo perfino alla miscela appiccicosa quell'altra porcheriola del bicarbonato!

La piada era la piada: era pane.

Stacciava ella ritmicamente sul tagliere candido, e il vaglio leggero come una piuma nella sua mano agile pareva quasi autonomo, pareva girar su se stesso prillando, rialzandosi a ritmo da una parte o dall'altra, divenendo aereo talvolta, cantando lievemente stridulo nella danza concentrica: ma di mano in mano che la farina vagliata sfuggiva di sotto allo staccio sparpagliandoglisi a poco a poco torno torno, il canto si faceva più debole, s'attutiva, si smorzava come un passo su un tappeto, sull'erba o sulla polvere.

Ecco fatto, - disse infine la Menghinina e parve più vecchia, perché un altro po' di bianco le s'era posato sui capelli, sul corpetto, fin sulle ciglia.

Prima d'impastare, pensò al fuoco.

Per cuocere la piada occorre la fiamma, la bella fiamma caduca, la vampata, il falò.

Il grande testo rotondo, grande quanto lo staccio, deve riscaldarsi così prima che vi si adagi la pasta.

La Menghinina sa che per ottenere questa fiamma occorrono cannarelli che prendono subito, che s'incendiano con un solo fiammifero; e, oltre ai cannarelli, quelle pigne rade, vuote e leggere che si chiamano sgòbole e che son più resistenti e finiscono di cuocere la pasta quando la fiamma è caduta.
La vecchia s'appressò al camino solennemente come il sacerdote all'altare, preparò le tre pietre che dispose a triangolo sull'arola alta, sotto la cappa: erano le tre pietre affumicate che dovevano reggere il testo.

Preparò il fuoco, pigne e cannarelli, facendo una gran buca nel centro, perché poi le fiamme salissero agli orli del testo e non bruciassero in mezzo la sfoglia sottile; si pulì le mani col grembiule che aveva sotto la parananza e ritornò al suo tagliere.

Intanto la vecchia era riuscita a render la pasta più compatta sotto la gagliardia delle sue mani che parevan puntarsi sul tagliere con tutto il polso, mentre la sua persona aderiva allo sforzo ritmicamente, curvandosi, con un'ostinazione penosa che dava un leggero dondolio alla testa abbassata tanto da lasciar la povera nuca scoperta, e un piccolo tremito alle spalle.

Ecco: il più era fatto: la pasta era ben lavorata, pronta per il matterello.

La Menghinina si drizzò tutta come per togliersi l'indolenzimento di dosso: la schiena le doleva, povera vecchia.

Afferrò un coltello, divise la pasta in tre parti uguali, a occhio, per le tre sfoglie.

Ma prima di spianarle col matterello diede l'ordine alla padroncina di accendere.

La fiamma sorse subito, gaia, scoppiettante, crepitante, schiacciata dal testo; sempre nuove fiammelle ne lambivano gli orli, quasi curiose di vedere se la piada cruda era già stata distesa, un po' più piccola del testo arroventato.

Si udiva tratto tratto una sgòbola scoppiare nella fiamma, e la fanciulla aveva la sensazione dello scoppiare d'un mortaretto in lontananza per una festa di domani.

Ma ecco la Menghinina avanzare solennemente, appressarsi all'arola con le sue gote infossate di vecchia, rosse di fatica e di caldo.

Teneva sulle due palme aperte, così come si tiene una cosa ricca, la prima candida sfoglia che ricadeva floscia dalle sue mani in pieghe molli di stoffa morbida e spessa.

Con abilità sorprendente, di colpo la gettò sul testo facendovela ricadere senza una piega, perfetta.

Cristina, entusiasticamente, abbracciò la sua serva.

Mi lasci, mi lasci stare! - gridava la Menghinina divincolandosi.

Mi lasci stare quando lavoro!

Ecco, la piada si brucia!

Bisogna voltare la piada!

Mi lasci, mi lasci! -

Si sciolse in tempo da quell'abbraccio furioso: la piada non s'era bruciata, ma bisognava voltarla. Aveva fatto un po' di crosta indurendosi agli orli ed era già picchiettata di bruciaticcio; bollicine si sollevavan qua e là nel calore giusto della terracotta, si colorivan leggermente, taluna si bruciava e scoppiava.

La vecchia insinuò il coltello da cucina fra testo e piada perché questa non cuoceva troppo nel mezzo, e chinatasi, soffiò sulle sgòbole che si disfacevano ardendo senza quasi più fiamma.

D'un tratto giunse di lontano un suono strano, caratteristico, quasi lugubre, di oggetti di rame o di bandone sbattuti ritmicamente, a pause, simile al suono di una campana a martello di cui si propagasse l'eco dall'una all'altra riva, nel silenzio notturno.

Cristina si alzò spaventata.

I barchetti entrano in porto col pesce - spiegò la Menghinina.

Sente?

Devono battere la secchia; a quest'ora!

La prima piada era fatta.

Ella la ritirò col coltello, la prese poi col pollice e l'indice incalliti, che non temevano le scottature, la mostrò con orgoglio alla padroncina tenendola sollevata in alto, bella, tonda, compatta, fantastica, religiosa, miracolosa, come una grande ostia da spezzarsi nel rito domestico: la portò poi sulla credenza e la mise lì, ritta contro il muro, dietro i candelieri, perché non rinvenisse.

Si finisce di cuocere - mormorò poi con dolcezza, riprendendo il matterello.


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