Pier Giulio Bonifacio – Note critiche

 


 

 

Ø     Viana Conti

Ø     Sandro Ricaldone

Ø     Alberto Veca

Ø    Marisa Vescovo

 

 


 

 

 

La lunga esperienza del vuoto come condizione mentale e come spazio di eventi, che risultano essere minimali sul piano della rappresentazione ma rilevanti su quello dell’emozione, consegna l’artista a una riappropriazione espressiva in termini di colore. A questo punto la sua indagine astratta, la radicalità linguistica non si riduce ai valori monotonali del grigio ma si confronta decisamente con la complessità della scala cromatica.

 

Anche se privo di qualsiasi referente naturalistico, l’artista non può assentarsi dalle sollecitazioni retiniche ed estetiche che il cambiamento di ambiente comporta. Anche una semplice variazione di atelier può modificare, non solo interiormente, sensazioni e motivazioni del lavoro.

 

Trasferito su un piano musicale, il suo registro monotonale diventa polifonico. Non è più una voce unica che parla, ma una sonorità corale; non è più un unico piano che fonda l’impianto compositivo ma una stratigrafia di livelli. Le ultime strutture formali, ancora legate alla declinazione del grigio, anticipano già, in qualche modo, l’esigenza di scandire piani più che di modularli. Il prisma, lo spigolo vivo hanno sottratto terreno alla smarginatura inquieta, mentre la solarità, come pregnanza della visione,ha messo in distanza il “clima nordico” della composizione.

 

Queste geometrie di confine tra forma e informe, colore e non colore, totalità e frammento, piano unico e tridimensione virtuale, hanno acquisito una complessità meno inquietante sul piano della coscienza e più risonante su quello dell’armonia.

 

Viana Conti

 

(giugno 1995)

 

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Frazionata in gruppi legati a poetiche divergenti, la scena pittorica italiana dei primi anni Cinquanta presentava nel solo ambito della ricerca non figurativa - contrastata, nel suo insieme, dal contenutismo ideologico dei neorealisti - una grande varietà di opzioni, saggiate talvolta con entusiasmo ancora ingenuo (è il caso dell’astrazione postcubista originariamente seguita dai giovani romani di “Forma 1” come dell’esplozione informale dei “nucleari” milanesi), talaltra con rigore schematico (da parte dei neoconcreti del MAC); praticate con l’impulso di una maturità subitamente acquisita, quale si ravvisa nella vicenda materica di Burri, o sulla scorta dell’aspirazione a superare i limiti del quadro, propugnata da Fontana e dagli Spazialisti. E’ in un simile contesto – conosciuto direttamente attraverso le frequentazioni degli ambienti torinesi e milanesi (legate agli studi di architettura), del melting pot cosmopolita di Albisola – che Pier Giulio Bonifacio si accosta alla pratica dell’arte.

 

E’ agevole avvertire come i risvolti riflessivi e, si potrebbe dire, progettuali che rendono la pittura, per Bonifacio, “strumento di pensiero” non siano la risultante di un algido calcolare valori e interazioni di forma. Dietro la “severità dell’immagine” rilevata da Angelo Savelli, sta infatti una sensibilità acuta per la componente germinale del segno.

 

L’ordine viene quindi a porsi, nella sua ricerca, non come deduzione da un a priori formale bensì in termini di processo, accidentato e interminabile. Di una tale disposizione testimoniano l’asimmetria e il persistente rigetto dell’ortogonalità (rintracciabile persino nei pezzi d’intonazione minimalista – grandi sagome monocrome, modellate geometricamente in obliquo – prodotti fra il 1980 e il 1981); l’impiego, anche nei più controllati lavori ultimi, dove si radicalizza la riduzione della gamma cromatica, ristretta al grigio e al nero, al bianco e al rosso, di stesure qua e là rarefatte, da cui traspare, secondo una casualità attentamente governata, la vibrazione del fondo. Od, anche, l’irregolarità impercettibile, l’accennata marginatura di taluni elementi lineari, definiti ricoprendo lo spazio circostante, con un mettere per levare che – in certo modo – “consente all’artista di costruire il vuoto in pittura” (Conti).

 

La fessura, il cuneo, la linea spezzata (quella sorta di ronciglio che tanto sovente si scopre nei suoi quadri) assurgono ad un valore d’emblema, riverberano nella loro presenza geometrica elementare la figura del tramite sottile di giunzione fra anima ed esattezza, fra universale e singolare.

 

Sandro Ricaldone

 

(aprile 1994)

 

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La definizione di un margine, di una soglia capace da una parte di porsi come figura pregnante, dall’altra di funzionare da matrice, segnale architettonico formativo, sembra percorrere le “pagine” di Pier Giulio Bonifacio, una serie di appunti che si sommano via via.

 

Bonifacio non dipinge figure in un campo vuoto, inerte: il suo disegno di frammenti – ora giocati sull’effetto bidimensionale, ora, negli esiti più recenti, capaci di alludere prospettive ambigue e volumi certi, vuoti e pieni, aggetti e arretramenti, proiezioni percettivamente ambigue – è determinato da una manipolazione di una superficie pittorica mai inerte, costantemente inquisita e messa in dubbio nelle sue forme elementari.

 

Portare in evidenza figure nate casualmente, renderle protagoniste riscattandole da un eventuale ruolo comprimario: questo mi sembra uno dei luoghi espressivi che Bonifacio frequenta.

 

Se negli anni Ottanta e primi Novanta era una monocromia frequentemente selezionata nella sfera dei grigi e costantemente contraddetta dall’affioramento di tracce, ombre cromatiche sottostanti, a dominare la superficie di base da cui emergevano i lacerti figurali, ora la superficie può essere scandita da pigmenti diversi, accentuando in questo modo una dialettica fra gli elementi elementari del fare immagine, quel dialogo fra le parti che ho cercato di leggere nelle pieghe del lavoro

 

Alberto Veca

 

(gennaio 1997)

 

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Gli attuali lavori di Pier Giulio Bonifacio – che seguono le opere dal 1953 al 1986 pubblicate nella monografia edita nel 1986 con testi di Viana Conti e di Marco Meneguzzo – ci dicono che i ritmi seriali che oggi vengono massivamente imposti alle nostre facoltà percettive non escludono, né impediscono, i semplici processi psicologici di sviluppo spazio-temporale, accumulo di esperienze, e ricerca di valori qualitativi più che quantitativi.

 

Oggi l’artista sdoppia la superficie in due piani: il piano del noto e il piano dell’ignoto, esplora la possibilità di una convivenza di una zona calma e di una zona fluente, di una zona morbida e di una zona in tensione; ovvero fa una proposta di totalità formale. Il pensiero che sta alla base è comunque quello di conciliare due principi eterni: il livello comune e l’emergere, ovvero l’essere e l’esistere.

 

Ognuna di queste forme “disegnate”, o “tracciate”,  ritrova nella propria progressione nello spazio i ritmi di un “racconto” collegato alla dimensione interna dell’uomo, a quel mondo di impulsi e di sedimenti che stanno in fondo ad ognuno di noi: pungente stimolo a ritrovare nell’arte la precisa trascrizione di un atto mentale.

 

Ciò che accade sulla superficie sono le forme ma anche i suoni, infatti si sente un’apertura dell’artista sia a quei suoni che casualmente si verificano nell’intorno fisico, ma anche a quelli che si danno come sedimentazioni che nascono da una lunga frequentazione di musica “colta”. Il suono-segno è evento, è aletheia.

 

In questi ultimi lavori il vuoto diventa lo sfondo inaugurale di ogni nuova impresa, cioè “il mondo che deve essere”, ovvero il grande nesso etico-estetico che ancora non esiste, ma il vuoto è anche l’enigma che si interpone nella comunicazione fra un uomo e ciascun altro. L’opera di Bonifacio ci fa “sentire” quel resto misterioso che sta fra la somma dell’esistenza e la nostra ragione.

 

Marisa Vescovo

 

(gennaio 1997)

 

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