Pier Giulio Bonifacio
– Note critiche
La lunga esperienza del vuoto come condizione
mentale e come spazio di eventi, che risultano essere minimali sul piano della
rappresentazione ma rilevanti su quello dell’emozione, consegna l’artista a una
riappropriazione espressiva in termini di colore. A questo punto la sua
indagine astratta, la radicalità linguistica non si riduce ai valori monotonali
del grigio ma si confronta decisamente con la complessità della scala
cromatica.
Anche se privo di qualsiasi referente naturalistico,
l’artista non può assentarsi dalle sollecitazioni retiniche ed estetiche che il
cambiamento di ambiente comporta. Anche una semplice variazione di atelier può
modificare, non solo interiormente, sensazioni e motivazioni del lavoro.
Trasferito su un piano musicale, il suo
registro monotonale diventa polifonico. Non è più una voce unica che parla, ma
una sonorità corale; non è più un unico piano che fonda l’impianto compositivo
ma una stratigrafia di livelli. Le ultime strutture formali, ancora legate alla
declinazione del grigio, anticipano già, in qualche modo, l’esigenza di
scandire piani più che di modularli. Il prisma, lo spigolo vivo hanno sottratto
terreno alla smarginatura inquieta, mentre la solarità, come pregnanza della
visione,ha messo in distanza il “clima nordico” della composizione.
Queste geometrie di confine tra forma e
informe, colore e non colore, totalità e frammento, piano unico e tridimensione
virtuale, hanno acquisito una complessità meno inquietante sul piano della
coscienza e più risonante su quello dell’armonia.
Viana Conti
(giugno 1995)
Frazionata in gruppi legati a poetiche divergenti,
la scena pittorica italiana dei primi anni Cinquanta presentava nel solo ambito
della ricerca non figurativa - contrastata, nel suo insieme, dal contenutismo
ideologico dei neorealisti - una grande varietà di opzioni, saggiate talvolta
con entusiasmo ancora ingenuo (è il caso dell’astrazione postcubista
originariamente seguita dai giovani romani di “Forma 1” come dell’esplozione
informale dei “nucleari” milanesi), talaltra con rigore schematico (da parte
dei neoconcreti del MAC); praticate con l’impulso di una maturità subitamente acquisita,
quale si ravvisa nella vicenda materica di Burri, o sulla scorta
dell’aspirazione a superare i limiti del quadro, propugnata da Fontana e dagli
Spazialisti. E’ in un simile contesto – conosciuto direttamente attraverso le
frequentazioni degli ambienti torinesi e milanesi (legate agli studi di
architettura), del melting pot cosmopolita di Albisola – che Pier Giulio
Bonifacio si accosta alla pratica dell’arte.
E’ agevole avvertire come i risvolti
riflessivi e, si potrebbe dire, progettuali che rendono la pittura, per
Bonifacio, “strumento di pensiero” non siano la risultante di un algido
calcolare valori e interazioni di forma. Dietro la “severità dell’immagine”
rilevata da Angelo Savelli, sta infatti una sensibilità acuta per la componente
germinale del segno.
L’ordine viene quindi a porsi, nella sua
ricerca, non come deduzione da un a priori formale bensì in termini di
processo, accidentato e interminabile. Di una tale disposizione testimoniano
l’asimmetria e il persistente rigetto dell’ortogonalità (rintracciabile persino
nei pezzi d’intonazione minimalista – grandi sagome monocrome, modellate
geometricamente in obliquo – prodotti fra il 1980 e il 1981); l’impiego, anche
nei più controllati lavori ultimi, dove si radicalizza la riduzione della gamma
cromatica, ristretta al grigio e al nero, al bianco e al rosso, di stesure qua
e là rarefatte, da cui traspare, secondo una casualità attentamente governata,
la vibrazione del fondo. Od, anche, l’irregolarità impercettibile, l’accennata
marginatura di taluni elementi lineari, definiti ricoprendo lo spazio
circostante, con un mettere per levare che – in certo modo – “consente
all’artista di costruire il vuoto in pittura” (Conti).
La fessura, il cuneo, la linea spezzata
(quella sorta di ronciglio che tanto sovente si scopre nei suoi quadri)
assurgono ad un valore d’emblema, riverberano nella loro presenza geometrica
elementare la figura del tramite sottile di giunzione fra anima ed esattezza,
fra universale e singolare.
Sandro Ricaldone
(aprile 1994)
La definizione di un margine, di una soglia capace da
una parte di porsi come figura pregnante, dall’altra di funzionare da matrice,
segnale architettonico formativo, sembra percorrere le “pagine” di Pier Giulio
Bonifacio, una serie di appunti che si sommano via via.
Bonifacio non dipinge figure in un campo
vuoto, inerte: il suo disegno di frammenti – ora giocati sull’effetto
bidimensionale, ora, negli esiti più recenti, capaci di alludere prospettive
ambigue e volumi certi, vuoti e pieni, aggetti e arretramenti, proiezioni
percettivamente ambigue – è determinato da una manipolazione di una superficie
pittorica mai inerte, costantemente inquisita e messa in dubbio nelle sue forme
elementari.
Portare in evidenza figure nate
casualmente, renderle protagoniste riscattandole da un eventuale ruolo
comprimario: questo mi sembra uno dei luoghi espressivi che Bonifacio frequenta.
Se negli anni Ottanta e primi Novanta
era una monocromia frequentemente selezionata nella sfera dei grigi e
costantemente contraddetta dall’affioramento di tracce, ombre cromatiche
sottostanti, a dominare la superficie di base da cui emergevano i lacerti
figurali, ora la superficie può essere scandita da pigmenti diversi,
accentuando in questo modo una dialettica fra gli elementi elementari del fare
immagine, quel dialogo fra le parti che ho cercato di leggere nelle pieghe del
lavoro
Alberto Veca
(gennaio 1997)
Gli attuali lavori di Pier Giulio Bonifacio – che seguono le opere dal
1953 al 1986 pubblicate nella monografia edita nel 1986 con testi di Viana
Conti e di Marco Meneguzzo – ci dicono che i ritmi seriali che oggi vengono
massivamente imposti alle nostre facoltà percettive non escludono, né
impediscono, i semplici processi psicologici di sviluppo spazio-temporale,
accumulo di esperienze, e ricerca di valori qualitativi più che quantitativi.
Oggi l’artista sdoppia la superficie in due piani: il piano
del noto e il piano dell’ignoto, esplora la possibilità di una convivenza di
una zona calma e di una zona fluente, di una zona morbida e di una zona in
tensione; ovvero fa una proposta di totalità formale. Il pensiero che sta alla
base è comunque quello di conciliare due principi eterni: il livello comune e
l’emergere, ovvero l’essere e l’esistere.
Ognuna di queste forme “disegnate”, o “tracciate”, ritrova nella propria progressione nello
spazio i ritmi di un “racconto” collegato alla dimensione interna dell’uomo, a
quel mondo di impulsi e di sedimenti che stanno in fondo ad ognuno di noi:
pungente stimolo a ritrovare nell’arte la precisa trascrizione di un atto
mentale.
Ciò che accade sulla superficie sono le forme ma anche i
suoni, infatti si sente un’apertura dell’artista sia a quei suoni che
casualmente si verificano nell’intorno fisico, ma anche a quelli che si danno
come sedimentazioni che nascono da una lunga frequentazione di musica “colta”.
Il suono-segno è evento, è aletheia.
In questi ultimi lavori il vuoto diventa lo sfondo
inaugurale di ogni nuova impresa, cioè “il mondo che deve essere”, ovvero il
grande nesso etico-estetico che ancora non esiste, ma il vuoto è anche l’enigma
che si interpone nella comunicazione fra un uomo e ciascun altro. L’opera di
Bonifacio ci fa “sentire” quel resto misterioso che sta fra la somma dell’esistenza
e la nostra ragione.
Marisa Vescovo
(gennaio 1997)
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