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GABRIELE D’ANNUNZIO 

1. Vita e Opere 5. Un'ambigua stanchezza
2. Canto Novo e Terra Vergine 6. L'avvento del superuomo
3. La vita mondana a Roma 7. Le laudi
4. Il piacere e l'estetismo 8. La prosa di memoria

 


1. “VITA E OPERE”

Protagonista degli anni italiani fra la fine dell’Ottocento e il primo Novecento è Gabriele d’Annunzio. La sua vita appartiene, oltre che alla storia della letteratura, anche alla storia politica e del costume. Nato a Pescara (1863), frequenta il ginnasio e il liceo al collegio Cicognini di Prato (dal ‘74 all’ ‘81), distinguendosi sia per irrequietezza e insofferenza di indole, sia per accanimento nello studio dettato dalla volontà precisa di farsi un nome grande. Esordisce nella poesia con Primo vere (‘79), ottenendo un precocissimo successo che gli schiude le porte della capitale, dove giunge nell’ ‘81. A Roma (1881-1891) è accolto, ammirato e conteso nella società mondana e letteraria; conduce una vita frenetica, ricca di amori e di avventure; collabora a vari giornali quale cronista dell’aristocrazia della capitale. Svolge una febbrile attività, oltre che di giornalista, di lirico e di narratore, sempre coronata da un grande successo editoriale. Compone, con vena inesausta, i versi di Canto novo (‘82), dell’Intermezzo di rime (‘83) e di Isaotta Guttodàuro ed altre poesie (‘86; profondamente rielaborati nelle raccolte L’lsotteo e La Chimera, 1890). Pubblica novelle di ambiente abruzzese: Terra Vergine (‘82), Libro delle vergini (‘84), San Pantaleone (‘86), poi riunite sotto il titolo di Le novelle della Pescara (1902). Scrive il suo primo romanzo, Il Piacere (‘89), dove trova consacrazione lo spirito mondano ed estetizzante con cui vive gli anni romani. Seguono altri romanzi (Giovanni Episcopo, ‘91; L’Innocente, ‘92) e altre raccolte di poesie (Le elegie romane, ‘90; lI Poema paradisiaco, ‘93). Nel ‘94 esce il Trionfo della morte e nel ‘95 Le Vergini delle rocce, dove si affaccia l’ideologia del superuomo che diverrà dominante in tutta la produzione successiva.

NeI 1897 D’Annunzio inizia un’ampia produzione teatrale destinata a segnare il gusto di un’epoca: Sogno d’un mattino di primavera (‘97), Sogno d’un tramonto d’autunno (‘98), La città morta (‘98), La Gioconda (‘99), Francesca da Rimini (1901), La figlia di Jorio (1903). Dopo una breve parentesi politica con la nomina a deputato e un clamoroso passaggio dai banchi dell’estrema destra a quelli dell’estrema sinistra, lo scrittore, nel 1898, si trasferisce a Settignano presso Firenze, nella splendida villa della « Capponcina” arredata con sfarzo e preziose suppellettili. Vive, tra lussi e scandali, numerose relazioni sentimentali, la più famosa delle quali con l’attrice Eleonora Duse, poi descritta in un nuovo romanzo, Il Fuoco (1900). Alla Capponcina porta a termine i primi tre libri (Maia, Elettra, Alcyone) delle Laudi del cielo, del mare, della terra, degli eroi, pubblicati nel 1903-04; contengono alcuni dei versi più belli della sua lirica. Nel 1910 ritorna al romanzo con Forse che si forse che no. Nello stesso anno, nell’impossibilità di far fronte ai debiti contratti in una ‘Vita dispendiosa e brillante, perseguitato dai creditori, fugge in Francia ad Arcachon; là compone, fra l’altro, il quarto libro delle Laudi, Merope (12), a celebrazione della guerra di Libia.

Rientrato in Italia nell’imminenza dello scoppio della prima guerra mondiale, partecipa attivamente alla propaganda interventista, poi a clamorose ed ardite azioni militari ampiamente autocelebrate, quali la beffa di Buccari e il volo su Vienna. La guerra è per D’Annunzio l’occasione più propizia per tradurre nella realtà il mito di una vita inimitabile, vagheggiato letterariamente e rivissuto mondanamente. In seguito ad un incidente aereo, rimane ferito ad un occhio e durante la degenza scrive il Notturno (1916). Alla fine delle ostilità, protagonista della protesta per “la vittoria mutilata” con un gruppo di legionari marcia su Fiume e occupa la città (1919), fino a quando nel ‘21 è costretto a ritirarsi dall’intervento dell’esercito governativo italiano. Saluta con entusiasmo l’avvento del fascismo, ma, dopo avergli ottenuto adesioni e consensi, è messo precipitosamente da parte da Mussolini. Viene isolato a Gardone nella villa del Vittoriale, un assurdo museo-mausoleo dove raccoglie le reliquie della sua vita gloriosa, conclusasi nel 1938 dopo una malinconica vecchiaia. Negli ultimi anni pubblica le sue più note prose d’arte il Notturno (1921); Le Faville del meglio (1924-1928); il Libro Segreto (1935). Postumi sono usciti i Taccuini (1966).


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2. “CANTO NOVO” E “TERRA VERGINE”

Le prime raccolte poetiche di D’Annunzio - Primo Vere, 1879; Canto Novo, 1882 - rivelano, accanto ad un’imitazione tutta esteriore di Carducci, una fervida adesione alla gioia dei sensi, la ricerca di una voluttà senza confini, l’esaltazione dell’istinto vitale, l’impeto giovanile, l’ardore esuberante, Il giovane poeta celebra soprattutto l’immensa gioia di vivere / d’essere forte, d’essere giovane, / di mordere i frutti terrestri. Canta, in un canto freneticamente disteso, la natura rigogliosa e violenta, cui si avvicendano immagini più riposanti ed estenuate come questa di una natura quasi dissolta nella luce diffusa del tramonto: ecco, e la barca per entro a ‘l vapor de l’occaso / discende il corso fluviale placida.

Da una parte c’è dunque l’ossessivo desiderio del possesso, la ricerca della sensazione acre e violenta; dall’altra, seppur solo a tratti, il dissolversi del parossismo sensitivo in immagini riposanti, alleggerite, risolte entro un’inquadratura “nostalgico-idillica”. Sono questi i due poli della sensualità dannunziana: potenza e stanchezza, desiderio e appagamento, esuberanza vitale e languore, grido e sospiro, esaltazione e tregua; due costanti rintracciabili in tutta la produzione dello scrittore, dove non è possibile isolarle, ritrovarle allo stato puro, ma sempre in un rapporto conflittuale e alternante, perché “sono due volti non solo di una stessa personalità, ma di un’analoga esperienza” (A. Noferi).

L’ispirazione sensuale e l’iterata esaltazione della natura trovano ampio spazio anche in Terra Vergine, la raccolta di novelle apparsa nel 1882 e primo nucleo della raccolta successiva Novelle della Pescara. Le prime prose dannunziane captano echi, risonanze, vicinanza di effetti da Vita dei Campi di Verga, ma del Verismo possiedono solo l’apparenza e la maniera, Il giovane D’Annunzio, infatti, pur trattando temi veristi (le plebi abruzzesi, fatti di passione e di sangue), è spinto non da motivi ideologici o affettivi, estremamente labili se non del tutto mancanti, ma soprattutto dall’urgenza di celebrare miti naturali, un trionfo di vita vegetativa. Il serbatoio dell’ispirazione è la natura, colta, come in Canto Novo, in un urto di impressioni, di umori, di ‘trasalimenti del sangue”.

Ma l’impressionismo di queste prime prove, sia in versi che in prosa, tende a consumarsi in una pura “addizione di immagini” (E. Raìmondi), unite da un movimento spezzato, frantumato, che non riesce a liberarsi in un canto disteso. L’entusiasmo si risolve in un descrittivismo tutto esteriore, annulla la concezione del tempo (incombe infatti un tempo tutto presente), e brucia qualsiasi possibilità di durata, di struttura narrativa. Il poeta, per esprimere la molteplicità e contemporaneità delle sensazioni, ricorre, oltre all’uso frequente delle sospensioni, soprattutto all’uso dell’esclamativo che, anche dove non è graficamente espresso, resta riconoscibile nel tono alto della frase, nel ritmo degli accenti. L’impianto del discorso è sostanzialmente paratattico, come in un diario di appunti, in un taccuino; la parola è gustata più che per il suo significato, per il suo valore analogico, fonico e cromatico.


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3. LA VITA MONDANA A ROMA

Gli anni romani (1881-1891) vedono D’Annunzio astro nascente non solo del firmamento letterario, ma anche di quello mondano della capitale: un personaggio ricercato nei salotti dell’aristocrazia, nelle redazioni dei giornali, al centro di amori teatrali, duelli clamorosi, imprese sportive, che fanno notizia, scandalo e tanta pubblicità allo scrittore e alle sue opere.

Da buon cronista, vicino ad argomenti di una certa serietà (Baudelaire, Zola, Wagner, ecc.), D’Annunzio nelle pagine mondane commenta la vita nei salotti e nei teatri della Roma umbertina, duelli e ricevimenti; parla anche di architettura, non mancando mai di segnalare le brutture e i modi volgari della vita moderna; alterna novellette, parabole, allegorie. Pronto a rispondere agli eventi del giorno e a sua volta a suscitarli, dà in pasto a un pubblico nobile e alto-borghese i miti dell’eros e del nazionalismo. Dunque, dall’ambiente frequentato, dall’interlocutore scelto, dal ruolo assunto di abile produttore letterario che ben conosce i prodotti preferiti dal pubblico ed è pronto a muovere incontro alle esigenze di mercato, D’Annunzio ricava due linee di tendenza: da un lato la necessità di soddisfare lo spirito mondano ed estetizzante delle classi privilegiate, che troverà la sua consacrazione nel Piacere; dall’altro il disprezzo violento per ‘Italia ufficiale, per il regime parlamentare, per l’arroganza delle plebi , per la borghesia della speculazione edilizia, che porterà all’avvento del «superuomo».


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4. “IL PIACERE” E L’ESTETISMO

Nel 1888 D’Annunzio scrive il suo primo romanzo, Il Piacere, dove da abile commerciante letterario si appropria dell’Estetismo, sensuale e aristocraticamente antidemocratico, allora di moda in Europa ed esemplato dallo scrittore francese Joris-Karl Huysmans con il romanzo Controcorrente del 1884

 

IL PIACERE

La vicenda si svolge sul finire dell’Ottocento nel mondo dell’alta aristocrazia romana, tra concerti, balli, corse di cavalli, aste di raffinati oggetti antichi, pranzi ornati di fiori e di donne, frivole discussioni salottiere. Protagonista è il conte Andrea Sperelli Fieschi d’Ugenta, l’ultimo discendente di una antica nobile famiglia, tutto penetrato e imbevuto di Arte, avido di amore e di piacere, amante raffinato, elegantissimo, circondato di lusso, ma pieno di contraddizioni senza alcuna forza morale e volontà, innamoratosi dell’afftascinante duchessa Elena Muti, vive con lei un’intensa avventura. Ma quando la donna abbandona improvvisamente Roma, Andrea cerca invano di dimenticarla passando con incredibile leggerezza attraverso altre avventure erotiche e vagheggiando nel medesimo tempo diversi amori.

Rimasto ferito in duello, il giovane conte trascorre nella villa di Schifanoja una lunga convalescenza, durante la quale sembra ritrovare se stesso nell’Arte e nell’incontro con Maria Ferres, che lo conquista con la squisitezza della sua sensibilità, la raffinatezza della sua educazione, l’ampiezza della sua cultura, alimentando l’illusione di un amore finalmente sano. Ma Andrea, in cui la voce del volere è sempre soverchiata da quella degli istinti, una volta rientrato a Roma, è subito ripreso nel gran cerchio mondano, si rituffa nel “piacere”, si getta nella vita come in una grande avventura senza scopo, alla ricerca del godimento, dell’occasione, dell’attimo felice, affidandosi al destino, alle vicende, al caso.

A due anni dal primo incontro riappare Elena, ormai sposata per denaro con un ricco inglese; ella accetta di rivedere Andrea, ma lo rifiuta sprezzantemente. La passione per quella donna non più sua lo riavvolge nuovamente, i ricordi del possesso lo torturano. Esasperato per l’inganno e la menzogna (lui che dell’inganno e della menzogna s’era fatto nella vita un abito), sembra trovare rifugio e consolazione nell’amore per Maria; ma in una morbosa complicazione, non fa che sfogare coscientemente su di lei la libidine che ancora gli desta il ricordo di Elena, giungendo a non potere più separare, nell’idea di voluttà, le due donne. Questo ambiguo ed equivoco rapporto viene troncato allorché Andrea, nel trasporto erotico con Maria, si lascia involontariamente sfuggire il nome di Elena. Maria fugge sconvolta e abbandona definitivamente Andrea, che resta solo nella stanza a gridare e supplicare invano.

 

Il Piacere presenta alcune novità:

Andrea Sperelli diventa il modello dell’Estetismo decadente in Italia: aristocratico, raffinato, freddo, senza la tumultuosa e calda vita interiore dell’eroe romantico, individualista, teso solo al gusto del bello e del piacere, a fare della propria vita un’opera d’arte.

La dimensione aristocratica del protagonista, passando attraverso il rifiuto della volgarità, della mediocrità e della bassezza del mondo moderno, si risolve in una posizione antidemocratica di dileggio verso il grigio diluvio democratico odierno che tante belle cose e rare sommerge miseramente.

La sensualità istintiva e immediata della giovanile produzione dannunziana viene, nel romanzo, mediata psicologicamente e intellettualmente in un complicato gioco di conflitti estetici, erotici e spirituali della vicenda amorosa. Andrea vive un rituale estetico-mondano che implica “certi giochi voluttuosi, impiegandovi ora l’amante proterva e ora l’amante materna” (E. Mazzali); l’amore diviene allora artificio intellettualistico e tortuoso esercizio di sovrapposizione psicologica delle due amanti. È una prima forma di “superomismo estetizzante’, di vivere inimitabile, che però si risolve, come nel romanzo di Huysmans, nella sconfitta e nell’inettitudine a vivere. L’esteta Andrea Sperelli è il simbolo dell’aridità morale e del vuoto interiore di un mondo elegante e corrotto, quello dell’aristocrazia e dell’alta borghesia romana “fin de siècle”; D’Annunzio intuisce la crisi di valori di questo mondo, ma di esso descrive solo gli aspetti esteriori, rifiutando di comprendere il senso profondo degli avvenimenti che incalzano.

Sul piano strutturale Il Piacere, pur rimanendo legato alla tradizione, inizia a mettere in crisi alcuni elementi, quali ad esempio l’intreccio, attraverso le insistite descrizioni dell’ambiente e dei paesaggi e l’approfondimento psicologico degli stati d’animo, operazioni che saranno portate avanti con ben altra energia e consapevolezza dal romanzo novecentesco.


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5. UN’AMBIGUA STANCHEZZA

Tra il 1891 e il 1893, D’Annunzio pare operare una svolta, sollecitato da una certa stanchezza per le esaltate avventure mondane e sensuali e dalla propria conversione a nuovi modelli della cultura europea: Verlaine e i romanzieri russi (Tolstoj e Dostoevskij), di gran moda nell’Europa di quegli anni.

La lettera di dedica alla scrittrice Matilde Serao del Giovanni Episcopo, del 1891, documenta la crisi in atto nello scrittore: Mi pareva che tutte le mie facoltà di scrittore si fossero oscurate, indebolite, disperse. Mi sentivo in certe ore così profondamente distaccato dall’arte, così estraneo al mondo ideale in cui un tempo avevo vissuto, così arido, che nessuna instigazione valeva a scuotermi dall’inerzia pesante e triste in cui mi distendevo... Le pagine predilette, che un tempo avevano provocato nel mio cervello le più alte ebrezze, ora mi lasciavano freddo... Mi parevano vacue e false le più lucide forme verbali in cui m’ero compiaciuto.

Lo scrittore, che avverte la necessità di rinnovarsi o morire, nelle opere dì questo periodo (i romanzi Giovanni Episcopo e L’Innocente, la raccolta poetica Il Poema paradsiaco) si orienta così verso un ripiegamento stilistico e una tematica di ritorno all’infanzia, all’innocenza degli anni giovanili accanto alla madre, di ritorno alla campagna e agli avi, con la ricerca di valori umanitaristici ispirati dal romanzo russo.

Ma tale ricerca è ambigua, in quanto D’Annunzio è incapace di sentire autenticamente il dramma sociale del romanzo russo, ed è altresì incapace di eliminare la sensualità che permeava le opere precedenti e che ora mostra la sua faccia dimessa, languida, convalescenziale, tanto era invece aggressiva e prorompente l’altra.


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6. L' AVVENTO DEL SUPERUOMO

Tra il 1893 e il 1900, rifacendosi al pensiero di Nietzsche, D’Annunzio elabora la versione italiana dì uno dei miti centrali del Decadentismo europeo, quello del superuomo, che rimarrà fondamentale nell’esperienza etico-politica dello scrittore. Ma anche la lettura dannunziana di Nietzsche, come un po’ tutte le precedenti sollecitazioni culturali, è una lettura superficiale e parziale, che svuota il pensiero nietzschiano del suo contenuto filosofico e della sua sostanza tragica, ne riduce la portata e il significato complessivo, accentuando solo le norme di comportamento e di morale connesse all’idea del superuomo. Si ha così, fin dalle conclusioni del Trionfo della Morte (1894), l’innesto dell’Estetismo del Piacere nell’ideale e nella morale superomistica, che proclamava la giustizia della ineguaglianza, che esaltava le energie terribili, il sentimento della potenza, l’istinto di lotta e di predominio, l’eccesso delle forze generatrici e fecondanti, tutte le virtù dell’uomo dionisiaco, del vincitore, del distruttore, del creatore.

L’ideologia superomistica, che trova la propria esposizione programmatica ne Le Vergini delle rocce (1896) e nel Fuoco (1900), presenta alcune caratteristiche fondamentali:

VOLUTTÀ, VOLONTÀ, ORGOGLIO, ISTINTO. Al di sopra della plebe, avvinta alla propria mediocrità, si leva il superuomo che coltiva il culto della forza, la volontà di affermazione e di dominio, il disprezzo del pericolo e l’amore per il rischio, la violenza, la guerra. Collegata con la forza, «è l’esuberanza sensuale, il libero disfrenarsi dei diritti della carne e della natura umana, e accanto ad essi si pone - senza contraddizione - il culto della bellezza, valore che pochi sono in grado di comprendere e di creare, linea discriminante degli eletti dalla plebe» (C. Salinari).

UNA CONCEZIONE ANTIDEMOCRATICA. E’ quella del superuomo una concezione aristocratica del mondo che porta al conseguente disprezzo della plebe, del mondo prosaico dell’uguaglianza democratica, della politica come ordinaria amministrazione, del regime parlamentare: Per fortuna lo Stato eretto su le basi del suffragio popolare e dell’uguaglianza, cementato dalla paura, non è soltanto una costruzione ignobile ma è anche precaria [...]. Le plebi restano sempre schiave, avendo un nativo bisogno di tendere i polsi ai vincoli [...]. Non vi lasciate ingannare dalle loro vociferazioni e dalle loro contorsioni sconce. Lo Stato non deve essere se non un instituto perfettamente adatto a favorire la graduale elevazione d’una classe privilegiata verso un’idea! forma di esistenza; d’altra parte la folla, considerata materia bruta, diventa l’oggetto da possedere e da conquistare, da plasmare e forgiare da parte del dominatore e signore con la parola e il gesto.

Totalmente negativo è il giudizio sull’Italia post-unitaria; occorrono energie nuove che la sollevino dal fango, in grado di realizzare una missione di potenza e di grandezza.

UNA VIOLENTA CARICA ANTIBORGHESE. Il superuomo condanna la volgarità della nuova borghesia dell’industria, del commercio, della prima speculazione edilizia; condanna i principi di libertà e di uguaglianza introdotti dalla rivoluzione borghese. La volgarità, per Claudio Cantelmo, protagonista delle Vergini delle rocce, trova il proprio simbolo in una Roma deturpata dalle speculazioni: Nel contrasto incessante degli affari, nella furia feroce degli appetiti e delle passioni, nell’esercizio disordinato ed esclusivo delle attività utili, ogni senso di decoro era smarrito, ogni rispetto del Passato era deposto. La lotta per il guadagno era combattuta con un accanimento implacabile, senza alcun freno. Il piccone, la cazzuola, la mala fede erano le armi. E da una settimana all’altra, con una rapidità quasi chimerica, sorgevano su le fondamenta riempite di macerie le gabbie enormi e vicine, crivellate di buchi rettangolari, sormontate da cornicioni posticci, incrostate da stucchi obbrobriosi. Una specie d’immenso tumore biancastro sporgeva dal fianco della vecchia Urbe e ne assaliva la vita.


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7. LE LAUDI

Tra il 1899 e il 1904, e quindi nel momento di pieno fervore per la morale del superuomo, D’Annunzio progetta il più ambizioso programma della propria lirica: Laudi del cielo, del mare, della terra e degli eroi. La raccolta comprende quattro libri che prendono il nome dalle costellazioni delle Pleiadi, le mitiche figlie di Atlante che Giove trasformò in stelle: Maia, Elettra, Alcyone, Merope. Un quinto libro, Asterope, è a parte e celebra le vicende della Grande Guerra. Veramente importanti, nella storia della poesia dannunziana, sono i primi tre libri.

Maia (1903, o Laus Vitae, Lode della Vita) è un lungo poema di 8.400 versi che, incarnando i miti dell’Ellade, celebra la nuova morale degli eroi e dei superuomini. Vi si canta la gioia di vivere come esuberanza sensuale, come libero disfrenarsi dei sensi in intima comunione con la natura, rigeneratrice di energia, gioia vitale al di là del bene e del male. Le esperienze estetiche e superomistiche, la retorica esaltata e la tonalità oracolare, l’impressionismo descrittivo di un ambizioso disegno, mascherano un sostanziale vuoto, una estrema povertà e superficialità di vita interiore. Molti i versi ricchi di sonorità, ma pochi gli accenti di profonda poesia.

Elettra (1904). È il libro dove si celebrano gli eroi e si esalta, sempre in sintonia col mito estetico e superomistico, la grandezza e la bellezza dell’eroismo. È l’esaltazione degli eroi della guerra, del pensiero e dell’arte, l’esaltazione anche delle città italiane cariche di gloria passata, le città del silenzio. Chiude questo secondo libro delle Laudi un Canto augura/e per la nazione eletta, presagio e incitamento alla riscossa dell’Ialia: Così veda tu un giorno il mare latino coprirsi / di strage alla tua guerra / e per le tue corone piegarsi i tuoi lauri e i tuoi mirti, / o Semprerinascente, / o fiore di tutte le stirpi, / aroma di tutta la terra, / Italia, Italia, / sacra alla nuova Aurora / con l’aratro e la prora! Qui D’Annunzio è veramente la voce delle aspirazioni nazionalistiche e imperialistiche delle classi egemoni, italiane ed europee, che già stanno scatenando quella politica di potenza che porterà alla prima guerra mondiale e poi all’affermazione del fascismo.

Alcyone (1903). Alcyone, il terzo libro delle Laudi, è, per giudizio unanime, considerato la vetta dell’opera poetica di D’Annunzio. Eppure in esso è tutto del D’Annunzio precedente: il sensualismo, l’estetismo, la morale eroica e superomistica, l’artifex gloriosus»; ma ora tutti questi elementi paiono meno esasperati, depurati dalle eccedenze, dagli umori più ossessivi. Ad esempio, il mito del superuomo «si decanta dei suoi umori più torbidi, delle sue cupe ed esasperate immaginazioni di lussuria, di conquista, di eroismo disumano e d’avventura. Rimane pura gioia istintiva, vitalità che si riversa ebbra di calda luce solare, che anela a cogliere in sé tutte le sensazioni e la vita di ogni cosa, a immedesimarsi col Tutto» (M.   Pazzaglia). Diceva D’Annunzio: Talvolta è in noi una verità ancora informe che vuol essere soccorsa per venire alla luce: una verità ancora mescolata al nostro sangue, ai nostri muscoli, ai nostri istinti. In Alcyone, canto della divina Estate, il poeta cerca allora di far venire alla luce le esigenze più remote e segrete dell’animo, sfoltendo, alleggerendo, decantando la pagina dai giochi di bravura, dalla febbre della parola, dall’ossessione del possesso e della lussuria, dalla violenza sanguigna ed esasperata delle immagini.

Così, a prezzo di un’estrema calibratura, dopo tanto vistoso consumo di stile, D’Annunzio raggiunge una nuova capacità di organizzare l’impressione, le sensazioni, la gioia istintiva, la vitalità dell’anima in intima comunione col palpito e l’anima segreta delle cose. Dalla violenta tensione per la conquista e il possesso della natura, in Alcyone il poeta passa alla consonanza con la natura, ad una segreta ed intima immedesimazione con i suoi elementi, in una “ebbrezza panica” capace di cogliere i più tenui riflessi della vita interiore.

La musica nuova di Alcyone è ottenuta con un calcolato ed equilibrato uso delle parole caricate di valore allusivo ed evocativo, eliminando la loro sonorità esteriore a favore della melodia e del contrappunto, e, ancora, creando «intorno alle parole, al di sopra delle parole, una rete sottilissima di rapporti e rispondenze sillabiche e foniche, una espertissima musicalità verbale» (A. Noferi). Non più una parola che soverchia l’ispirazione, ma una parola attenuata o trattenuta; non più il “grido, ma il “canto.


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8. LA PROSA DI MEMORIA

Col Forse che sì, forse che no (1910), D’Annunzio è ormai alle soglie di una nuova fase, quella che la critica ha definito della prosa «allusiva» o «notturna» o «segreta», in contrapposizione alla prosa solare e diurna della prima maniera. Ma il D’Annunzio «notturno» si dispiega nelle vere e proprie «prose di memoria»: Le faville del maglio (1924-1928), il Notturno (1916), il Libro Segreto (1935), dove lo scrittore semina, come in un diario, i propri ricordi e le proprie allucinazioni, rinunziando all’ambiziosa costruzione dei romanzi, in cui un impalcatura di decorazioni ottocentesche e di ritmi retorici sopprimeva la parte più intima.

Quali i punti chiave di questa prosa nuova? In primo luogo D’Annunzio non ha inteso il recupero del passato realizzato dal grande monumento narrativo proustiano. «La memoria recupera soltanto figure e fatti del passato e li rappresenta nel presente, dopo che li ha liberati dalle scorie del tempo e della realtà quotidiana. Questa liberazione dal tempo e dal contingente si esprime in una celebre sentenza dannunziana: Rimemorare non è per me aver vissuto nè rivivere, ma vivere nel vivere. In secondo luogo entra in campo l’attenzione. Questa isola le cose dal tempo e dalla realtà presente, tanto che guardate con occhi quasi allucinati, ascoltate con orecchi capaci di coglierne le minime vibrazioni, toccate dalle mani di un artefice sapiente, odorate da narici sensibilissime, le cose si trasformano o si trasfigurano in balenii di colori o in trasparenze di colori nell’ombra, in suoni sottili, in linee e volumi simili ad arabeschi decorativi. In terzo luogo interviene una sorta di ripiegamento, di rimeditazione, di auscultazione interiore» (Ettore Mazzali).

Resta dunque intatta e acutissima l’attenzione dei sensi (ora io ho un orecchio più sensibile di quello che musicò La pioggia nel pineto, dirà D’Annunzio nel Notturno); ma si attenua la volontà di possedere, di godere, di conquistare. Si allentano e si decongestionano le componenti superomistiche, e D’Annunzio viene scoprendo un altro se stesso, acquista una dimensione umana più vera e più autentica, in un sentimento a volte ossessivo del vuoto, della malinconia, della tristezza profonda, dell’angoscia della morte, del ripiegamento deluso. Lo scrittore inclina decisamente verso una “disposizione nichilistica” dell’esistenza, pur non rinunciando del tutto all’etica della vitalità eroica e alla sua autosufficiente mitologia.

Emerge, nella prosa «notturna», anche una nuova maniera di scrittura. Nasce, infatti, un periodare in cui vengono meno i giri di frase dall’andatura ampia e architettata, e in cui il ruolo del verbo si esaurisce fino al limite della sua soppressione. Subentra un comporre più sciolto e alleggerito: la parola è assottigliata, scorporata, alleviandosi in poesia e in musica; l’uso della punteggiatura da logico-grammaticale tende a diventare psicologico; la sintassi è franta, scarnificata, tesa all’essenzialità. La critica ha parlato anche di prosa «impressionistica», ma non si tratta più dell’impressionismo esteriore di Canto Novo e di Terra Vergine, che troppo spesso si risolveva in visione lussureggiante e in eccessivo peso carnale; ritorna sì lo stile impressionistico, "ma con una densità più lacerante e una freschezza più grave, nella scansione nuda di un presente assoluto"

(Ezio Raimondi)

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