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Sito telematico dedicato all'informazione, al confronto, al dibattito sui problemi connessi con il primo CONTRATTO DEI DIRIGENTI SCOLASTICI – a cura del D.S. Paolo Quintavalla  in servizio presso la Direzione Didattica 3° Circolo di Parma - In Rete dal maggio 2000 –

 

 

 

 

 

L'integrazione dell'allievo disabile nella scuola superiore 

Web Scuola - 5 giugno 2003

05/06/03 - Intervista a Dario D'Andrea - Dirigente I.P.S.C.T. "E.Falck" - Sesto San Giovanni

Cosa è emerso dal corso Anfass (Associazione Nazionale di Famiglie di Disabili Intellettivi e Relazionali) dedicato ai problemi dell’integrazione degli allievi disabili nelle scuole superiori che lei ha frequentato insieme a docenti e non docenti della realtà milanese?

E’ stata un’ottima idea riunire intorno a un tavolo i diversi soggetti che interagiscono in modo forte con i disabili nella scuola.
Non esiste infatti nella scuola un momento di incontro tra gli tutti gli operatori per riflettere sulla loro attività con i disabili, se non in parte nel consiglio di istituto e nel Glh (Gruppo di lavoro sull'handicap), che comunque rischia spesso di essere un organo formale e non operativo. Inoltre non si sono riprodotte le solite dinamiche corporative in cui ciascuno parla “ai propri simili”, e anche per merito degli operatori Anfass che sono intervenuti, nemmeno nella disposizione intorno al tavolone. Non c’erano i docenti da una parte altre figure professionali dall’altra.
Eravamo tutti intorno a un tavolo non tanto per ragionare sul singolo caso, ma per esprimere le nostre percezioni: difficoltà e punti di forza rispetto all’integrazione dei ragazzi disabili.
C’è stato un rapporto molto più paritario e interattivo in cui emerse tutte le differenze e quelle cose che si dicono solo a mezza voce nei corridoi.

Ad esempio?  

Penso al collaboratore scolastico che vede il ragazzo disabile o come destinatario di solidarietà affettuosa o come elemento problematico che è costretto ad accompagnare in bagno o che  gira per i corridoi, se è portatore di disabilità psichiche. Il personale di segreteria che se ne occupa come pratiche da trattare e vorrebbe capirci qualcosa di più, ma i docenti sostengono che non sia affar loro.

Come si può far tesoro di un’esperienza come questa all’interno del proprio istituto?

All’interno della scuola va ripresa questa idea di mettere a confronto le diverse componenti uscendo da un modello di adempimento burocratico. Probabilmente la soluzione di mediazione è costituita dal fatto di “rigenerare” il  Gruppo di lavoro sull’ handicap (Glh) previsto dalla legge 104/92, trasformandolo in un organismo funzionale e non pro-forma.

Il Glh d’istituto è una struttura che si potrebbe benissimo potenziare e forzare rispetto alle rappresentatività formali. Si potrebbe cominciare l’anno scolastico con un incontro aperto a tutte le componenti, con l'obiettivo di creare un gruppo che parta da una rilevazione della situazione ad inizio anno e si faccia carico di elaborare collettivamente proposte su come  utilizzare le risorse e su come calibrare gli interventi. Questo gruppo allargato potrebbe avere l’incarico di riformulare il Pof per quanto concerne il segmento dell’integrazione. Comunque credo che nel momento in cui il mugugno del collaboratore scolastico anzi che restare confinato nel corridoio venga fuori, nel contempo venga metabolizzato da una rappresentanza significativa degli operatori della scuola e anche delle famiglie. Forse c’è la necessità di forzare questa struttura che esiste nella normativa. Trasformandola in un gruppo di lavoro realmente operativo. Su questo versante  il corso ha aperto orizzonti interessanti.

Come ripensare la didattica per favorire l’integrazione degli studenti disabili?

La soluzione più intelligente è quella di usare la presenza degli studenti disabili come ariete per far emergere nei consigli di classe un’attenzione ad una didattica nuova. Significa spostare il centro dell’attenzione dall’insegnamento all’apprendimento.

Cioè?

Penso a docenti professionalmente e personalmente onestissimi, presenti soprattutto nei licei, convinti di aver fatto il proprio lavoro quando sono entrati in aula per fare una bella conferenza: corretta, organica, chiara.
Le ricadute sugli studenti non riguardano in quel momento gli insegnanti. Il docente verificherà poi i contenuti con le interrogazioni e i compiti in classe. C’è lo scollamento tra una fase in cui trasmetto il messaggio e un’altra in cui ne verifico la comprensione. Questo modo di fare scuola è ancora molto diffuso. Non dovremmo assumere a scelta l’atteggiamento dell’attore sul palcoscenico o del sindacalista in un’assemblea, che si avvale della  capacità di convincere per far arrivare il messaggio. Serve una maggiore attenzione agli stili comunicativi  da parte del docente, una maggiore attenzione ai feedback non verbali che gli studenti ti mandano.
E' necessaria una riproposizione in chiave diversa dei temi affrontati e una maggiore interattività.

E questo come può avvenire, secondo lei?

Io ero un insegnante di geografia. In un liceo posso stare 25 minuti a parlare delle caratteristiche della Francia, indicando ogni tanto con la bacchetta sulla carta geografica gli elementi da considerare. In un istituto professionale, invece, ottengo forse gli stessi obiettivi cognitivi se parto dalle fotografie sul libro di testo, dalla carta e da qualche grafico. E con questi strumenti comincio a fare un po’ di brain storming con i ragazzi. Se questa modalità non viene diffusa è evidente che non si fa molta strada.

Quale ruolo riveste lo studente disabile in questo processo di cambiamento?

La figura del disabile e quella dell’insegnante di sostegno assolvono una funzione di apripista, costringono i docenti curricolari a prestare una maggiore attenzione alla relazione e a riconcettualizzare alcuni contenuti. Gli studenti disabili sono gli unici giuridicamente tutelati in modo forte e possono favorire il successo formativo degli altri, perché quando un insegnante di matematica si rende conto che servono 4-5 modalità didattiche differenti per far acquisire certe abilità agli allievi; poi mette in pratica queste strategie con tutti i suoi alunni.
Ovviamente, le tecniche da considerare sono molte, esse sono in parte possedute da una quota significativa di docenti e possono essere condivise con i colleghi. Si tratta di individuare momenti di discussione e di formazione. Spesso lo scambio di informazioni tra colleghi passa con modalità polemica. Se si riuscisse ad abbassare questa competizione latente e questo fortissimo individualismo si otterrebbero risultati migliori.

In che modo può essere gestita la risorsa dell’insegnante di sostegno?

I docenti di sostegno rivestono un ruolo importante nel consiglio di classe, in primo luogo perché, se sono specializzati, hanno lavorato molto sul tema dell’importanza e sulla gestione  delle relazioni interpersonali.  E quindi diventano dei consulenti per i colleghi su questi temi. Inoltre sono presenti nella classe per diverse ore e durante le lezioni di discipline diverse. E, con tutte le cautele del caso, sono in grado di fornire un feed back su come sono stati affrontati determinati problemi didattici nelle varie discipline e possono aiutare i colleghi a correggere gli eventuali errori di approccio con gli allievi.

Non è facile però...

In questo caso svolge un ruolo chiave chi coordina il dipartimento di materia, ma anche il consiglio di classe. Non mi riferisco necessariamente al dirigente, ma al coordinatore di classe che deve riuscire a rendere il meno burocratici possibile questo momenti e fare qualche provocazione che non ingeneri  risposte difensive, far uscire questi messaggi soprattutto da parte dei docenti di sostegno, evitando che si scada nella polemica sull’operato dei colleghi. Si tratta di piccole tattiche che vanno valorizzate.

E come può essere valorizzata la figura del docente di  sostegno?

Nella nostra scuola 5 o 6 anni fa  abbiamo deciso di affidare il coordinamento di classe agli insegnanti di sostegno, in tutti i casi in cui questo sia possibile.

Una scelta dirompente...

Una scelta che ha avuto numerose ricadute: in primo luogo una forte legittimazione. Di solito molti insegnanti nemmeno sanno che si tratta di un docente di classe. In secondo luogo esercitano quella funzione di mappatura delle reazioni degli studenti che presentano qualche disagio, certificato o meno. E’ chiaro che viene esercitata con più facilità da chi sta in classe per più ore. In terzo luogo un docente di sostegno che in molti casi ha buone competenze e governa meglio di altri i processi relazionali per gestire tutte le tattiche di cui si parlava prima.

In altre realtà il docente di sostegno è visto male, spesso non è specializzato ed è visto come un  docente di materia riciclato, a cui spesso sono richieste competenze disciplinari molto ampie che non possiede...

Lo so, però ormai c’è da considerare un dato: quello quantitativo. In questa scuola su 90 docenti 19 sono di sostegno e sono una lobby potente.
I docenti di sostegno di questa scuola si lamentano come gli altri per le difficoltà che hanno nel relazionarsi con i rispettivi consigli di classe. Non credo che esistano paradisi terrestri, sono tutte situazioni fortemente dinamiche Si tratta di  capire chi riesce a governare i conflitti e quali direzioni essi prendono.


A suo parere, quali opportunità e incognite per i disabili si presentano con la delega?

Io sono stato un grande sostenitore del disegno riformatore del precedente Governo. Sono però sufficientemente laico per non avere preclusioni nei confronti della legge 53. L’elemento preoccupante non è costituito dalla probabile regionalizzazione del comparto professionale e di buona parte degli istituti tecnici, perché, tutto sommato, in Lombardia ci sono progetti di qualità  e, in generale, molte esperienze europee vanno in questa direzione. Mi preoccupa invece la connotazione molto marcata dei due canali. A mio parere, nemmeno  nel cosiddetto modello berlingueriano le passerelle “in salita” dall’ipotetico liceo tecnologico ad altri tipi di licei sarebbero state all’ordine del giorno.Mi preoccupa che nei futuri licei venga data una netta priorità dell’approccio teorico. Il cosiddetto documento di Fiuggi va in questa direzione.

E cosa si dovrebbe fare?

Nel Documento dei Saggi, c’era un intervento di Clotilde Pontecorvo che invitava a ripartire dal  modello delle botteghe artigiane rinascimentali, vale a dire da un modello in cui il saper fare e i modelli teorici ad esso connessi sono fortemente intrecciati. Io a questo ho creduto molto e questo elemento, nel riordino dei cicli, nella prima bozza almeno, era sottolineato più volte e  stava alla base del progetto ’92. Poi il bilancio del progetto '92 non è stato sempre  così positivo, bisognava infatti intervenire con più decisione sul modo di lavorare dei docenti. Per costruire panorami di intreccio tra teoria e pratica servono da un lato modalità collaborative tra colleghi e dall’altro modalità partecipative e interattive con la classe.

Cosa la lascia perplesso del progetto Bertagna?

Il  progetto Bertagna è apparentemente rispettoso delle differenze e sembra offrire una risposta di buon senso difficile da contrastare.  Gli studenti che presentino una propensione per un approccio teorico trovano nel liceo la scuola adatta a loro, invece quelli con una propensione per l’operatività sono destinati al sistema dell’istruzione e della formazione professionale che permette anche di raggiungere orizzonti culturali, ma solo in un secondo tempo e, forse, nemmeno in tutti i casi.

E quindi bisogna rinunciare a rilievi di questo tipo?

No.Queste diversità, non occorre scomodare Don Milani, sono di per sé segni di appartenenze sociali e culturali diverse. Se le considera come naturali, la scuola rinuncia ad operare compensazioni socioculturali. Questo significa però che i ragazzi prima che cittadini italiani sono frutto del contesto socioculturale che li ha prodotti. A volte, invece, servono misure perequative. La rinuncia a misure perequative mi sembra molto presente nel progetto di riforma, anche se viene introdotta sotto forma di rispetto delle diversità. Difficilmente un modello che, in generale, rinuncia in generale ad operare compensazioni, potrà essere compensativo solo nello specifico della disabilità.    

Lei teme, cioè, che i disabili finiscano tutti nel canale dell’istruzione e della formazione professionale?

Beh, intendiamoci, in parte è quello che avviene anche adesso. Se un ragazzino e una ragazzina hanno alle spalle una famiglia molto determinata e consapevole, metaforicamente frequentatrice di “Mi manda Raitre”, possono studiare in un liceo altrimenti non è facilissimo che questo avvenga.
La direzione che sta prendendo la riforma aggrava questa situazione.

A proposito di timori diffusi, oggi sulla riforma girano voci incontrollate e paure infondate: non crede?

Questo progetto riformatore è poco pubblico:ci sono gli spot, momenti di promozione e alcune uscite sintetiche, ma si tratta di slogan. Io non sarò molto addentro nei salotti qualificati, ma sono attaccato a internet come tutti! Non è facile capire cosa stia succedendo.
Oggi il sito del Miur, nella sezione news, ci informa di premi letterari, ci fornisce qualche utile notizia a carattere normativo, ma dei documenti importanti come, ad esempio, quello di Fiuggi non c’è traccia. Se non hai un amico che ti dà la dritta per andare su un sito che parli di questi documenti, resti all’oscuro di tutto. 

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