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LA
GRANDE EPURAZIONE DEI PUBBLICI DIRIGENTI
La
Repubblica – 6 ottobre 2002
di
Mario Pirani
LA «Blitzkrieg» berlusconiana allarga la sua offensiva
a nuovi settori. Dopo l' informazione e la giustizia
penale, il prossimo obiettivo della guerra-lampo,
applicata con studiata strategia dopo l' ascesa al
potere, sono i vertici della pubblica amministrazione.
Il 7 ottobre, infatti, è la data capestro entro la
quale tutti i direttori generali dei ministeri e degli
enti, non esplicitamente confermati, verranno
considerati decaduti dall' incarico. Per un anno, se non
otterranno un' altra collocazione, riceveranno il minimo
di stipendio, poi nessuno lo sa. Una iniziativa di tale
generale portata non venne presa né all' avvento del
fascismo né dopo la Liberazione. Estremamente ristretta
fu, infatti, in questo campo, l' epurazione operata nel
1945-46 dai primi governi democratici e, in quasi tutti
i casi sottoposti a ricorso, rapidamente rientrata.
Quanto al regime fascista, fin dal periodo del suo
consolidamento iniziale (1922-1925), il problema di un
collegamento organico tra governo e amministrazione
venne affrontato «rafforzando i poteri discrezionali
dell' Esecutivo in materia di nomina, di trasferimento e
di destituzione, ma restando fondamentalmente intatte le
garanzie tradizionali... il punto di maggior novità era
rappresentato dal rigido inquadramento gerarchico del
personale civile con l' estensione dei cosiddetti gradi,
dai vertici fino al più umile dei subalterni» (da
"L' Italia fascista" di Danilo Veneruso, ed Il
Mulino, 1981). Il colpo di ramazza in atto oggi è ancor
più radicale. La legge che ne definisce le
caratteristiche viene, peraltro, presentata come il
prosieguo, pur con «numerose e profonde modifiche»
(come recita la circolare applicativa del ministro
Frattini), del decreto legislativo Bassanini del 30
marzo 2001, con cui il centro-sinistra al governo aveva
introdotto una prima, profonda riforma nella dirigenza
statale. Ora, è pur vero che l' impianto ispirativo è
riconducibile a quell' indirizzo, avviato, del resto,
fin dall' inizio degli anni Novanta dai primi governi
Amato e Ciampi e proseguito poi con i ministeri di
centro sinistra, tendente ad introdurre alcuni principi
privatistici e contrattuali nell' ordinamento del
pubblico impiego e della sua dirigenza, fino allora
regolato unicamente dalla legge e dalle norme del
diritto amministrativo. Ciò non toglie che la virata e
i tempi imposti dal governo attuale, faranno in breve
precipitare l' alta burocrazia dello Stato ad un grado
di sudditanza non dissimile da quello della Rai. Quando
nel '96 (governo Prodi) il ministro Bassanini,
coadiuvato da Massimo D' Antona, allora suo direttore
generale, mise mano alla riforma della dirigenza, la
situazione dei quadri superiori era nettamente
diversificata: un gruppo di circa 600 persone, formato
da prefetti, questori, ambasciatori, vertici militari e
delle forze dell' ordine, era soggetto a nomina e
rimozione su iniziativa governativa mentre i circa 400
direttori generali di ministeri ed enti collegati, una
volta nominati, potevano essere spostati solo col loro
consenso, il che obbligava a «promozioni» al Consiglio
di Stato o a presidenze varie ogni qualvolta il ministro
giudicava indispensabile la sostituzione. Per converso,
era chiaro - ed oggi risulta chiarissimo - che l'
inamovibilità, pur non incentivando l' efficienza e la
responsabilità, rappresentava una garanzia di autonomia
del dirigente. Prevalse allora, invece, come missione
prioritaria l' ammodernamento della pubblica
amministrazione, recependo criteri tipici dell' azienda
privata. Di qui, quindi, un rapporto non più regolato
dal diritto amministrativo e dai suoi formalismi ma da
un contratto, in parte individuale (e per il trattamento
di base, collettivo-sindacale) correlato, dal punto di
vista retributivo, alla funzione e al rendimento,
verificabile ed eventualmente rinnovabile in tempi
determinati (dai 2 ai 7 anni). Inoltre la dirigenza, per
assicurare la professionalità, non sarebbe più stata
scelta attraverso concorsi interni pilotati, ministero
per ministero, ma in base ad un più severo concorso
unico, con una graduatoria che avrebbe determinato, a
scalare, le singole scelte dei vincenti. Infine il 5%
dei dirigenti poteva essere attinto liberamente dal
governo, al di fuori dell' Amministrazione (quota
portata da Frattini al 10%). Va anche riconosciuto che
nella ispirazione del centro sinistra conviveva l' ansia
rinnovatrice ed efficentistica dei neo riformisti con il
sottinteso desiderio di penetrare nei gangli operativi
della gestione del potere che la titolarietà pura e
semplice di un ministero non assicurava, almeno per chi
non era stato allevato alla sapiente duttilità della
vecchia Dc. Non era assente, peraltro, la preoccupazione
che, pur operando a fin di bene, si potesse sboccare in
un pericoloso asservimento partitico della dirigenza
pubblica. Furono per questo introdotte alcune norme di
salvaguardia come un comitato dei garanti (formato da un
giudice della Corte dei conti, un rappresentante eletto
dai dirigenti stessi ed un esperto di nomina
governativa) per dirimere gli eventuali contenziosi sul
contratto in essere ed un Collegio di controllo che,
allo scadere del contratto, ne valutasse i risultati, ne
promuovesse il rinnovo o una nomina di livello
equivalente. Quanti, poi, si fossero rivelati inidonei
sarebbero stati collocati in un «ruolo unico» della
dirigenza, da dove essere prescelti per un eventuale
altro compito. In ogni modo, per le figure di più alto
vertice e di raccordo diretto col governo (una
cinquantina tra segretari generali e capi dipartimento
dei ministeri) ogni nuovo governo, entro novanta giorni
dal suo insediamento, avrebbe avuto diritto di
confermarle o meno. Questo impianto con l' avvento di
Berlusconi ha subìto uno stravolgimento formale e
sostanziale. In primo luogo la decadenza, automatica e
praticamente immotivata, viene estesa dai massimi
livelli a tutta la dirigenza di primo livello (i 600-650
direttori generali dei ministeri ed enti pubblici) ed
anche coloro che fruiscono di un contratto tuttora
valido se lo sono visto annullato anzi tempo, con un
vulnus grave alla affidabilità pattizia dello Stato. In
secondo luogo la decadenza non scatta entro i primi tre
mesi di un nuovo governo ma oggi, quando il centro
destra è da un anno e mezzo a palazzo Chigi. Terzo, e
più grave codicillo, il periodo del nuovo contratto è
nettamente abbreviato e può andare da zero (per un
incarico mensile?) fino a tre anni. In tal modo tutti,
sia i confermati che i nuovi assunti, sanno che la
scadenza cadrà nel corso dell' attuale Legislatura e
che il rinnovo o meno del già precario incarico si
tradurrà in un test di verifica di fedeltà politica
alla maggioranza di centro destra, ancora in essere.
Viene inoltre abolito il ruolo unico e la sorte futura
degli epurati rimane in grembo a Giove. Naturalmente il
marchio politico imposto ai vertici dell'
Amministrazione si ripercuoterà anche sui 4600
dirigenti di seconda fascia e, più in generale, su
tutta la conduzione dei 3.700.000 dipendenti statali.
Per inciso ci sia consentito ricordare che uno dei più
solerti registi della messa a regime (mai definizione fu
più appropriata) della nuova normativa è stato il
sottosegretario al ministero della Funzione pubblica,
on. Saporito (An), il cui partito si mostra ognior più
sensibile al fascino della riconquista dell' apparato.
Gli strumenti sono, come è ovvio, aggiornati ai tempi
nostri: se il fascismo impose ai funzionari di ogni
ordine e grado il giuramento e l' orbace, i post
fascisti, approdati, felicemente per tutti, alla
democrazia liberale e i loro traghettatori di Forza
Italia, si contentano di più sofisticati incentivi alla
fedeltà. Il tutto nel contesto di una cultura (?) del
maggioritario inteso come mandato assoluto di dominio
del vincitore sull' indipendenza o la semplice autonomia
dei vari soggetti in cui si articola una società
liberale, dalla Magistratura all' informazione e agli
apparati di gestione neutra e apolitica della cosa
pubblica, dalla Sanità ai Lavori pubblici. Certo, al
punto cui sono giunte le cose, c' è anche da domandarsi
se l' empito riformatore e razionalizzante dei governi
di centro sinistra, non sempre ben calibrato in rapporto
alla situazione politico-culturale del Paese, non abbia
in certi casi subìto l' ingiuria della eterogenesi dei
fini, producendo effetti finali favorevoli al centro
destra. E' il caso - almeno a mio avviso - della nefasta
riforma federalistica, come anche di quella scolastica.
Quanto a quella della dirigenza pubblica l' esigenza
oggettiva e sentita di ammodernamento e di efficienza ha
portato probabilmente a sottovalutare i timori e gli
avvertimenti che, ad esempio, un eminente giurista,
Sabino Cassese, che è stato anche ministro della
Funzione pubblica con Ciampi (1993-94), aveva più volte
espresso. Egli scriveva proprio su queste colonne
("La Repubblica" del 21.2.1998) con lucida
preveggenza di quel che poteva avvenire ad ogni cambio
di maggioranza: «Per il ricambio e la mobilità basta
la revocabilità dell' incarico... non c' è bisogno,
però, di prevedere anche che tutti i dirigenti siano
nominati a tempo... il problema non è quello di
assicurare la pagnotta a persone che hanno fedelmente
servito lo Stato, bensì quello, diverso, se sia nell'
interesse dello Stato rendere precario il posto,
producendo una situazione di dipendenza che produrrà i
suoi effetti di conformismo anche se il dirigente non
verrà rimosso: basterà averlo posto sotto la minaccia
della rimozione per creare uno stato di soggezione».
Non c' è dubbio che aveva visto in anticipo quello che
poteva avvenire.
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