La
posta in gioco: le due concezioni e le due
pratiche dell’autonomia delle scuole
Giuseppe Bertagna
INTERVENTI
E STUDI
http://www.seieditrice.com/sei/Docenti/
ORIENTAMENTI
PEDAGOGICI
Anno
XLVIII - n. 5 (287)
Settembre-Ottobre 2001
Ci
sono due modi di affrontare il problema
dell’autonomia in generale e delle scuole in
particolare, introdotta nel nostro ordinamento. Il
primo è quello di prendere la normativa esistente
al riguardo, censirla e commentarla. Per
normativa, in questo contesto, non si intende
tanto o soltanto quella primaria (le leggi, i Dpr),
ma anche quella secondaria (Dlgs, Dm,
Regolamenti), e, perfino, quella amministrativa (Om,
Cm, Direttive ecc.). Prospettiva utile, perché
spesso non la si conosce, sebbene sia ormai in
vigore da qualche anno.
1. L’autonomia ossimorica della minorità
Per
quanto utile, tuttavia, questo modo di accostare
il problema è un singolare controesempio del
principio dell’autonomia stessa. Infatti, dà
per scontato che l’autonomia sia quella che si
presenta nelle forme e nei modi indicati nella
normativa e che il nostro compito consista nel
prenderne atto e, per quanto possibile,
nell’agire tenendone diligentemente conto. È
come se ci si dicesse: tu sei libero e
responsabile nei modi e nelle forme che ti detto e
che ti delimito. Bella libertà e responsabilità
che si dimostra; bella libertà e responsabilità
che ci è concessa! In fondo, non è altro che una
rivisitazione del principio medievale d’autorità:
l’ha detto Aristotele, dunque è vero; ipse
dixit; commento a sentenza. Adesso, invece,
avremmo: l’ha detto la legge, l’ha detto il
Ministero che questa è l’autonomia (con le sue
migliaia di pagine annuali che «interpretano» la
normativa primaria e secondaria e la triturano ad
uso e consumi dei «sottoposti»); dunque sono
autonomo se agisco nelle forme e nei modi che essa
analiticamente prevede.
Il
fatto che sia l’accostamento più praticato al
nostro tema non solo tra i docenti e le scuole, ma
anche tra la maggior parte degli stessi organismi
incaricati di offrire sostegno e orientamento
all’azione dei docenti (Irre, Cis, Direzioni
generali regionali, ministero, perfino molte
università) nelle migliaia di corsi di
aggiornamento organizzati sulla questione (24.000
finanziati dal Ministero solo nell’annata
scolastica 1999/2000), non vuol dire che sia anche
quello più ragionevole sul piano sia tecnico sia,
soprattutto, pedagogico. Sembra piuttosto la
conferma di quanto sia difficile uscire
dall’abitudine alla dipendenza mentale e dal
kantiano «stato di minorità», l’esatto
contrario dell’autonomia. Kant ha scritto che
perfino quando si fosse stati «affrancati dall’eterodirezione»,
la pavidità, la prigrizia e addirittura la viltà
di «tanta parte degli uomini» li spingerebbero a
mantenersi in un non esaltante, ma comodo, stato
di subordinazione, ormai diventato, per loro, «una
seconda natura». Questo senza peraltro aggiungere
che «a far sì che la stragrande maggioranza
degli uomini (…) ritenga il passaggio allo stato
di maggiorità, oltre che difficile, anche
pericoloso, provvedono già quei tutori che si
sono assunti con tanta benevolenza l’alta
sorveglianza sopra costoro»[i][1].
2. L’autonomia come maggiorità
Conviene,
allora, considerare il secondo modo di affrontare
le sfide dell’autonomia. Il primo, come si
diceva, non è inutile. Si può anzi dire che sia
indispensabile. Bisogna sapere che cosa dice la
legge n. 59/97, tutta la normativa delegata e
tutta la normativa ministeriale che
l’accompagna. Il problema è non limitarsi qui.
Leggere, infatti, questa estesa documentazione
normativa come se fosse la fonte indiscutibile del
nostro modo di intendere e praticare l’autonomia
vuol dire consegnarsi ad una condizione acritica
di dipendenza che scambia il pleonasmo per novità
e l’assecondamento ossequioso per libertà e
responsabilità. Leggere, invece, questa estesa
documentazione per considerare se e fino a che
punto essa recepisca un certo modo di intendere e
di praticare l’autonomia che si è cercato e si
cerca di vivere e di far vivere nella pratica
professionale, individuale e sociale, vuol dire
non essere più dipendenti dalla normativa, ma
farla dipendere da noi.
Vuol
dire, infatti, che si ha già in testa una
concezione dell’autonomia, coltivata anche nella
memoria e nell’esperienza della tradizione
culturale e sociale da cui si proviene, e si
guarda vigili e critici all’autonomia passata
nella legge. Pur apprezzandola, non la si
considera un ipse dixit, ma la si discute per considerare se e quanto abbia accolto
le nostre sensibilità; né la si ritiene un
traguardo finale, ma solo intermedio: la tappa di
un cammino ancora da percorrere. In altre parole,
vuol dire che si è già autonomi, maggiori e che
si guarda alla norma per vedere se e fino a che
punto essa non ci tratta da minori, ma valorizza
la nostra condizione di soggetti liberi e
responsabili nell’azione sociale e
professionale.
Ora,
sebbene con qualche piccola forzatura introdotta a
scopo didattico, si può dire che dietro a questi
due modi di accostare ed intendere il tema
dell’autonomia, l’uno da maggiorità l’altro
da minorità, siano esistite ed esistano due
concezioni specularmente opposte del rapporto
esistente tra Stato e società, da un lato, e del
concetto di libertà, dall’altro. Prenderne
coscienza è già una maniera di non subire la
scelta, ma di agirla.
3. Due concezioni del rapporto
Stato-società
Per
quanto riguarda il rapporto tra Stato e società,
la prima concezione che sottende il modo minore di
affrontare l’autonomia è quella
paradigmaticamente interpretata da Hobbes e
Rousseau e poi confluita nella tradizione
giacobina: è lo Stato che crea la società. «La
gente – scrisse Rousseau nel suo Discorso
sull’economia politica – diventa alla
lunga ciò che il governo fa di essa»; «è la
legislazione che fa nascere i costumi», scrive
nel Contratto
sociale (VII, 7). Un’idea poi passata nel
marxismo e nel leninismo, che si ritrova nel
fascismo, trova consensi nell’azionismo, si
rintraccia anche in alcune componenti del
cattolicesimo del dopoguerra, si esalta, infine,
nel ’68 e nei suoi epigoni politici e culturali.
La
seconda concezione del rapporto tra Stato e società,
che sottende il modo maggiore di affrontare
l’autonomia, afferma, invece, il contrario: è
la società che crea lo Stato. La tradizione è
quella che da Aristotele e Tommaso giunge a
Maritain, Mounier, Sturzo. Rosmini, come è noto,
la rilesse in maniera particolarmente felice e
sistematica nella sua Filosofia della politica. In un’altra sua opera, definì «oltre
misura ingiusto e tirannico» il Paese in cui la
politica, lo Stato, «possa tutto, assorbisca
tutte le altre società, annienti tutte le
individualità e le località, si senta ella sola
di esistere, e che tutto il resto esista
precariamente per una grazia e per un favor suo»
[ii][2].
A suo avviso (Filosofia
del diritto), una «società civile» è,
invece, tale se le articolazioni che la
costituiscono, dalla famiglia agli enti locali
(Regioni, Province, Comuni), dai partiti alle
istituzioni scolastiche, sono «pure da ogni
elemento signorile statale»[iii][3]
e trovano, al contrario, lo Stato in una posizione
etimologicamente ministeriale, di servizio
rispetto ad esse ed alla loro diffusa
affermazione.
Nella
prima concezione, le diverse articolazioni sociali
(famiglia, scuola, enti, ecc.) ricevono dallo
Stato i poteri e gli spazi che ne caratterizzano
l’azione. Devono, quindi, «dipendere» nel loro
agire dalle leggi statali: sono le leggi statali,
e il loro rispetto, che fanno «buoni» i
cittadini, la famiglia, la scuola, gli ospedali
ecc. Nella seconda concezione, invece, le diverse
articolazioni sociali esercitano poteri e si
muovono in spazi che sono per loro originari e
sussistenti, e che la legge dello Stato si limita
a riconoscere. Essa è «dipendente» dalle
pratiche delle autonomie sociali ed è un
risultato della loro dialettica. Per dirla con
Isocrate e poi con il diritto romano, la legge
dello Stato non fa altro che formalizzare i «buoni»
costumi dei cittadini e sostenerne e premiarne
l’esercizio.
La
prima concezione, come è facile intuire, sfocia
nelle forme più o meno esplicite di statalismo.
Ritenere che lo Stato sia tutto e che solo tutto
ciò che proviene dallo Stato sia equo, legittimo
e ordinato. I soggetti diversi dallo Stato,
lasciati a se stessi, avrebbero un’inclinazione
naturale a determinare caratteristiche opposte:
iniquità, trasgressione egoistica, disordine. La
seconda concezione, al contrario, porta allo Stato
minimo, perché considera ogni soggetto
individuale o collettivo non kantianamente
bisognoso delle dande legislative statali per
agire con dignità, e sapere meglio di chiunque
altro, tanto più delle burocrazie ministeriali,
sebbene possa risultare incolto, quale sia e debba
essere il proprio e lo altrui bene. Solo se tale
capacità non fosse per tante ragioni esercitata,
o non fosse esercitata nel rispetto delle regole
reciprocamente pattuite ai fini del bene comune
nelle leggi, interverrebbe il cosiddetto principio
di sussidiarietà orizzontale e verticale, ovvero
l’autorizzazione ad un intervento suppletivo da
parte di altre autonomie individuali e sociali
oppure da parte dello Stato stesso, con le sue
Amministrazioni.
4. Due concezioni della libertà
Dietro
il primo modo di accostarsi ed intendere il
problema dell’autonomia sta anche, in maniera
nemmeno troppo dissimulata, la concezione della
libertà inaugurata in modo paradigmatico da
Hobbes e dal suo Leviatano
moderno. Come si rammenterà, per Hobbes ogni
decisione presa dallo Stato sancisce la fine della
libertà dei cittadini a riguardo della decisione
presa. Per Hobbes, infatti, la libertà è
potenzialità, il poter fare o non fare qualcosa
che si vuole[iv][4].
Decidere a livello statale, quindi emanare leggi,
vuol dire, nella sua visione, abrogare questa
potenzialità. Ed è giusto, dal suo punto di
vista, che sia così perché l’uomo, preso per sé,
per la sua libertà, lui conclude, non è un
animale sociale, positivo per gli altri, ma è
piuttosto un rissoso cercatore di gloria e di
dominio personale. Lo Stato nasce proprio per
chiudere questa condizione di pericolosa
belligeranza e imporre
una scelta per il bene stesso di tutti i cittadini[v][5].
Dietro
il secondo modo di accostare ed intendere il
problema dell’autonomia, invece, oltre
all’idea che è la società a creare lo Stato,
sta anche una concezione della libertà molto
lontana da quella appena ricordata. I nomi sono
ancora Aristotele, Tommaso e, per non apparire
troppo integralista e desueto, Vico[vi][6]
e Kant[vii][7].
Soprattutto il Kant che scrive che «l’uscita
dell’uomo da uno stato di minorità» implica
sempre decisioni che aprono, non chiudono, le
potenzialità, le possibilità, le libertà
personali e collettive. Anche lo Stato, quindi,
quando decide le leggi in modo davvero da Aufklärung,
deve decidere in questo modo: aprire spazi, non
circoscriverli, lasciare che i cittadini li
riempiano della loro piena libertà e
responsabilità, cioè rispondendo di persona, nel
bene e nel male, dei loro atti, non volendo
imporre loro scelte, perché non sono minori da
mantenere sotto tutela e di cui diffidare.
Ogni
persona, infatti, è quanto di più perfetto sia
dato in natura, cioè nel nostro mondo naturale e
sociale imperfetto[viii][8],
ed è tale, come recitava il diritto romano, perché
consapevole di sé (conscius
sui) e liberamente responsabile dei propri
atti (compos
sui). In questo senso, davvero «attività
suprema» da cui sorge il dovere morale «di non
lederla, di non fare pure un pensiero, un
tentativo volto ad offenderla, spogliandola della
sua naturale supremazia», perché essa «ha nella
sua natura stessa tutti i costitutivi del diritto:
essa è dunque il diritto sussistente»[ix][9],
il fine verso cui tutto il resto, aggregazioni
sociali, logica economica, istituzioni dello Stato
comprese, acquistano senso e si devono moralmente
disporre.
5. L’autonomia nella Costituzione
I
due modi di accostare ed intendere l’autonomia
che ho cercato di idealtipizzare sembrano essere
ambedue presenti nel nostro dettato
costituzionale. Il primo è stato poi molto
esaltato dalla nostra Costituzione materiale,
quella che, per inerzia storica o per convenienza
politica, è stata di fatto adottata nei primi 50
anni della Repubblica. Bisogna, tuttavia, anche
riconoscere che non mancano, nella stessa
Costituzione formale entrata in vigore nel 1948,
passi che la accreditano. Il secondo è, invece,
maggiormente rintracciabile nella Costituzione
formale, purtroppo finora scarsamente frequentata.
Il combinato disposto dell’articolo 2 e
dell’articolo 5 della Costituzione, ad esempio,
riconosce che l’unità e l’indivisibilità
della Repubblica si devono tutelare attraverso la
valorizzazione degli spazi di libertà e
responsabilità non solo dei singoli, ma anche
delle «formazioni sociali» entro cui le persone
«svolgono la loro personalità». In altri
termini, attraverso la valorizzazione e
l’esercizio dei diritti originari e costitutivi
sia delle persone singole, sia delle «formazioni
sociali» che scaturiscono dall’incontro diretto
tra persone e che, proprio per questo, si possono
anche dire «persone sociali», cioè organismi
volontari, consapevoli e responsabili di sé. Il
riferimento della Costituzione è alla famiglia (artt.
29 e 30 della Costituzione), agli Enti locali
(art. 5 e Parte II, titolo V), alle confessioni
religiose (art. 8), alle istituzioni scolastiche
ed universitarie (art. 33), alle associazioni volontarie
di assistenza (art. 38), ai sindacati (art. 39),
alle imprese e al mondo del lavoro (artt. 41 e
46), alle unioni cooperative (art. 46), ai partiti
politici (art. 49).
Queste
«formazioni sociali», al pari delle singole
persone dei cittadini, non ricevono, quindi, la
loro autonomia, e i diritti che ne conseguono,
dalle leggi della Repubblica, ma sono piuttosto le
leggi della Repubblica che devono riconoscere e
tutelare, attraverso la promozione di tali
diritti, l’autonomia non solo dei singoli, ma
anche delle «formazioni sociali» da loro
liberamente espresse. Che senso avrebbe, d’altra
parte, uno Stato che impone per legge ai suoi cittadini di fare famiglia, costituire un
Comune, aderire ad una religione, frequentare le
scuole e l’università, praticare il
volontariato ecc.?
6.
Una legge promettente: la n. 59/97
Ebbene,
nel campo della scuola e delle attività di
istruzione, dopo decenni di indiscussa egemonia
della prima concezione sia dei rapporti tra Stato
e società sia della libertà, la legge n. 59/97
ha segnato una prima, significativa inversione di
tendenza a vantaggio della seconda. Approvata
dalla stragrande maggioranza del Parlamento
repubblicano dopo una maturazione durata quasi
dieci anni, questa legge portava, quindi, con sé
un significato quasi «costituzionale» ed apriva,
rispetto alla nostra tradizione, prospettive che
potevano apparire per certi aspetti addirittura «eversive».
Tale
era senza dubbio quella che portava a confermare
il principio per cui lo Stato deve istituire
scuole autonome, non Ministeri della P.I. che le
gestiscano, per di più in maniera centralistica.
Lo Stato non ha né deve avere la «sua» scuola,
se con questa espressione si intende una qualche
«dipendenza proprietaria» della scuola
dall’apparato ministeriale. La scuola è di se
stessa: dei genitori, degli allievi, dei docenti,
della comunità locale in cui essi vivono. È una
«formazione sociale autonoma» nei confronti
della quale il Ministero della P.I. può svolgere
soltanto una funzione di sostegno e di servizio.
Non
meno innovativa, in secondo luogo, era la
prospettiva che annunciava una radicale
trasformazione del ruolo e della funzione del
Ministero della P.I. Esso non doveva più gestire,
sullo schema dell’unica persona giuridica
inventato dalla scuola storica tedesca del
diritto, nell’ottocento, né il personale né le
finanze né tantomeno l’organizzazione delle
istituzioni scolastiche autonome. Il suo compito
si sarebbe dovuto concentrare sul governo
del sistema di istruzione e di formazione nelle
forme ad esso delegate dalle leggi della
Repubblica; ovvero sulla definizione degli
obiettivi generali, degli ordinamenti, degli
obiettivi specifici di apprendimento, degli standard
di prestazione del servizio scolastico a cui tutte
le scuole della Repubblica, quelle statali e
quelle non statali che chiedono la parità, devono
attenersi nella loro gestione dei problemi
educativi dei loro allievi.
Ancora
più inedita, in terzo luogo, era la prospettiva
per cui, se è dovere dello Stato «istituire
scuole statali per tutti gli ordini e gradi»
(art. 33, comma 2 della Costituzione), questo non
doveva significare in alcun modo legittimazione
del monopolio statale in questo campo. Come
esplicita il comma 3 dello stesso articolo
costituzionale, infatti, è un valore, per la
Repubblica, che, accanto alle scuole statali,
esistano anche quelle liberamente promosse dalle
Regioni, dai Comuni, dagli Enti morali, religiosi
e di fatto, dalle cooperative, dai privati. Deve
essere, infatti, garantita alle famiglie la libertà
di scelta educativa (art. 21, comma 9 della legge
n. 59/97). Questo ricco pluralismo istituzionale
obbligava ad una legge sulla completa parità di
trattamento per gli alunni che optano per scuole
istituite da Enti e privati piuttosto che dallo
Stato, purché fossero scuole che rispettassero le
«norme generali sull’istruzione».
Infine,
del tutto originale era lo scenario che invitava
la Repubblica ad istituire un Servizio
indipendente di valutazione capace di controllare
la produttività qualitativa, sia del sistema di
istruzione e di formazione composto dalle scuole
pubbliche statali e non statali, sia dell’azione
amministrativa del Ministero della P.I. e degli
organismi ad esso afferenti.
7.
Un’attuazione deludente: la decretazione
delegata sull’autonomia
Orbene,
pur nella positività di alcuni provvedimenti
specifici (penso, in particolare, al Dpr. 275/99),
si può leggere, tuttavia, nel complesso, la fase
attuativa della legge n. 59/1997 impostata dal
Governo della xiii
legislatura come un organico tentativo di
attenuare i caratteri più «rivoluzionari»
esplicitamente contenuti o solo incoati nella
legge stessa. La decretazione regolamentare
predisposta tra il 1997 e il 2001, infatti, un
po’ per realismo, un po’ per l’indubbia
influenza del centralismo burocratico ministeriale
e un po’ per la mentalità statalista sia della
maggior parte delle forze politiche della
maggioranza di governo sia di non poca cultura
sindacale, ha lasciato cadere non poche opportunità
di cambiamento, reintegrando la prevalenza del
primo modo di accostare l’autonomia, e quindi
anche del primo modo di intendere il rapporto tra
Stato e società e la libertà. Segnale immediato
in questa direzione è stata la scelta del Governo
di chiedere al Parlamento, nel 1997, di
soprassedere alla riforma degli organi collegiali
di istituto per concentrarsi sull’ingegneria dei
cicli. Il significato dell’inversione di priorità
era evidente. Per restituire alla società la
scuola che, per tante ragioni storiche e
politiche, lo Stato le aveva nel tempo confiscato,
il disegno dell’autonomia doveva essere per
forza rafforzato con due provvedimenti: il
riequilibrio dei «poteri» tra territorio,
comunità locale, famiglie e dirigenti/docenti
dentro l’istituzione scolastica e la parità,
ovvero la piena garanzia del diritto di scelta
educativa da parte delle famiglie. Il primo tema
non è stato proprio affrontato nemmeno nel
prosieguo della xiii
legislatura. Anche a livello di discussione
non è andato oltre i tentativi o di
razionalizzare l’impostazione del
partecipazionismo virtuale e consociativo dei
decreti delegati del 1974 o di accedere alla moda
similmanageriale, con la democrazia sociale
sacrificata all’altare di un neodirigismo
organizzativista. Il secondo, senza voler sposare
la tesi di chi sostiene che la legge n. 62/2000
abbia tutto sommato inclinato a statizzare le
scuole non statali rimaste piuttosto che ad
incentivarne la diffusione, è stato trattato in
maniera tale da limitarsi alla riaffermazione di
principi già esistenti, e in ogni caso senza
giungere ad un realistico avvaloramento della
libertà di scelta educativa da parte delle
famiglie. L’effetto di queste scelte è stato di
far apparire perfino l’autonomia delle
istituzioni scolastiche disegnata dalla legge n.
59/97 più come una riallineamento efficientista
dell’attuale apparato scolastico
central-statalistico che come l’inizio della sua
destrutturazione a vantaggio del modello presente
nella Costituzione formale.
Con
la progettazione dei cicli, inoltre, l’effetto
è stato quello di riaccreditare il carattere
demiurgico e «illuminato» dello Stato e, in
particolare, delle sue amministrazioni
burocratiche, piuttosto che esaltare la sua
duplice funzione, da un lato, di catalizzatore
delle effettive dinamiche sociali e professionali
accese, in questo caso, in tema di educazione, dai
singoli (docenti, genitori, allievi) e dalle «formazioni
sociali», scuola compresa; dall’altro lato, di
moltiplicatore di tali effettive dinamiche con
l’allargamento degli spazi di libertà e di
responsabilità affidati ai soggetti personali e
istituzionali nella progettazione sociale a favore
dell’educazione. Quasi che si sia confezionata
la riforma dei cicli, con tutto quello che ne
consegue, insomma, più per rivendicare il ruolo
ingegneristico e socialmente costruzionistico
della politica statuale e delle sue élites
amministrative che per una risposta ai reali
problemi educativi e scolastici percepiti dai
soggetti interessati. Una conferma, insomma,
dell’intrinseca minorità delle persone singole
e collettive, che sarebbero incapaci di
autogoverno e di socialità politica, a vantaggio,
invece, della maggiorità dei vertici politici e
amministrativi, gli unici in grado di identificare
non solo il loro bene ma anche quello di tutti gli
altri. Sono così riesplose, fortissime, le
inerzie neostatalistiche e neocentralistiche.
Il
Ministero della P.I., in questo modo, è stato sì
riformato; tuttavia, oltre che continuare a
mantenere una forte ramificazione territoriale,
chiaro messaggio del desiderio di voler continuare
a presidiare in presa diretta la periferia
(soprattutto a livello regionale, anche per
contenere le crescenti istanze federalistiche),
continua ad avere compiti
decisivi di gestione (si pensi agli organici,
ai trasferimenti e alle nomine del personale o al
controllo dei flussi finanziari) che, in un primo
momento, sembrava potessero essere benissimo
assegnati alla responsabilità delle scuole e
delle reti di scuole. Né si è provveduto ad
istituire un Ente terzo di valutazione dei
risultati del sistema di istruzione, ma si è
trasformato il Cede in un Istituto Nazionale per
la Valutazione del Sistema di Istruzione (Invsi)
che resta subordinato alle direttive del Ministro
e dei suoi Dirigenti generali, cosicché
controllato e controllore coincidono. Anche il
trasferimento dei poteri dal centro alla periferia
è avvenuto all’insegna della reticenza
statalistica. Come è noto, infatti, si è scelto
non già di restituire alle istituzioni
scolastiche molti attuali poteri statali in fatto
di gestione del sistema di istruzione, bensì di
trasferirne, peraltro molto meno di quelli
possibili, alle Regioni e agli Enti locali (artt.
138 e 139 del D.lgs.n. 112 del 31 marzo 1998; Dpr.
18 giugno 1998, n. 233 e lo stesso articolo 1 del
Dpr. 8 marzo 1999, n. 275). In questa maniera non
tanto e non solo si è indebolita la consistenza
dell’autonomia delle scuole, ma si sono poste le
condizioni per instaurare un rapporto non
paritario, ma gerarchico tra istituzioni
scolastiche ed Enti locali. Agli Enti locali,
infatti, si sono trasferite competenze che
potevano e forse dovevano essere con maggior
profitto delegate alle scuole e alle reti di
scuole (si pensi, tanto per fare qualche esempio,
alla programmazione dell’offerta formativa
risultante dall’integrazione tra scuole e centri
della formazione professionale; oppure alla
gestione del calendario scolastico, degli edifici
e delle attrezzature scolastiche per fini anche
non scolastici, alla sospensione delle lezioni in
casi gravi e urgenti, ai piani per l’educazione
degli adulti, agli interventi integrati di
orientamento scolastico e professionale, alla
continuità in verticale e orizzontale tra i
diversi gradi e ordini di scuola, alle attività
contro la dispersione scolastica e per
l’educazione della salute). Non si sono invece
trasferite competenze (si pensi, tanto per fare un
esempio, all’istruzione professionale, che
poteva integrarsi con la formazione professionale
già regionale; o alla gestione del personale, se
non dello stato giuridico, e, soprattutto, dei
flussi finanziari per l’intero sistema di
istruzione e di formazione) che in un’ottica di
valorizzazione degli Enti territoriali sarebbe
stato possibile assegnare alle Regioni. Quasi che
lo Stato, impaurito dalla prospettiva che le
Regioni e gli Enti locali potessero rivendicare la
delega di poteri molto più consistenti, si fosse
affrettato a tacitare il loro desiderio di
protagonismo con la responsabilità su materie
che, in un sistema di istruzione e di formazione
fondato sulla seconda concezione dei rapporti tra
Stato e società e della libertà, sarebbe stato
bene assegnare alle istituzioni scolastiche.
Il
rischio, a questo punto, è che anche a causa
dell’oggettiva inconsistenza dei trasferimenti
loro riconosciuti, Regioni ed Enti locali possano
propendere, pur di affermare il proprio ruolo
istituzionale, a rubare la «scena» alle scuole e
a ripetere, nel rapporto con esse,
l’impostazione gerarchica e piramidale finora
tipica della modalità statalistica e
centralistica. Quasi a dire, secondo la più
collaudata dinamica freudiana della compensazione,
che non essendo riusciti a strappare allo Stato
centrale l’esercizio di poteri/doveri
significativi, gli Enti locali possano avere la
tentazione di rivalersi sulle scuole, trattandole
da minori, al posto che da maggiori, e da
istituzioni dipendenti, piuttosto che autonome.
Alle
spalle delle scuole e dello spirito della legge n.
59/97, si potrebbe, perciò, realizzare una
saldatura tra le mai sopite tendenze
neocentraliste della burocrazia ministeriale che,
come tutte le burocrazie mal sopporta qualsiasi
ridimensionamento, anche lieve, delle proprie
tradizionali prerogative, e le tendenze dello
stesso tenore emergenti, questa volta, a livello
di Regione e di Enti locali. Una specie di
oggettiva alleanza tra statalismo e regionalismo
per continuare a considerare le scuole, e le reti
di scuole, più oggetti che soggetti di autonoma
azione istituzionale territoriale e comunitaria
nel campo dell’istruzione e della formazione.
Questa prospettiva di svilimento dello spessore
dell’autonomia delle istituzioni scolastiche si
rivelerebbe particolarmente preoccupante nel caso
in cui il nostro Paese dovesse davvero pervenire,
nell’arco di qualche anno, anche ad una parziale
regionalizzazione delle competenze sul governo e
sulla gestione del sistema di istruzione. Ci si
troverebbe, infatti, soltanto ad aver moltiplicato
per venti il modello dell’attuale centralismo
ministeriale. L’idea aristotelica, toquevilliana,
ma anche rosminiana e sturziana di una società
civile pluralistica, ricca e pulsante, capace di
autogoverno, nell’autosignoria e nell’autofinalismo
delle «formazioni sociali» che la compongono,
con burocrazie e tecnostrutture di Stato (o
Sovrastato, leggi Ue, o Regionali) ridotte al
minimo indispensabile e comunque mai invasive,
riceverebbe, purtroppo, un colpo forse mortale.
8.
Un’attuazione deludente: provvedimenti più
recenti
Che
in questi ultimi anni si sia vissuta una stagione
che ha tentato, purtroppo nella disattenzione
generale, di ridimensionare l’autonomia delle
istituzioni scolastiche concepita nel primo modo
che si è cercato di tipizzare si può evincere
non solo dall’insieme della decretazione
relativa alla legge n. 59/97, ma anche da alcuni
altri provvedimenti in materia di istruzione. Ne
segnaliamo tre, di peso normativo e culturale
diverso, ma proprio per questo ancora più
significativi.
1)
Indirizzi curricolari per la scuola di base, emanati dal Ministro De
Mauro in attuazione della riforma dei cicli
scolastici, primo paragrafo della parte I,
intitolato «Scuola secondo Costituzione». Si
scrive che, secondo la nostra Carta fondamentale,
lo Stato ha l’obbligo di istituire scuole
statali, «ammettendo»
anche l’esistenza di scuole non statali: ammettendo,
cioè concedendo (per bontà?), istituzioni
scolastiche espresse dall’autonomia delle «formazioni
sociali». In realtà, come abbiamo già
ricordato, la Costituzione dice una cosa molto
diversa. Infatti, se è dovere dello Stato «istituire
scuole statali per tutti gli ordini e gradi»
(art. 33, comma 2 della Costituzione), questo non
deve affatto significare legittimazione del
monopolio statale in questo campo. Come esplicita
il comma 3 dello stesso articolo costituzionale,
infatti, è un valore costituzionale, per la
Repubblica, non solo istituire scuole statali, ma
«riconoscere» anche quelle liberamente espresse
dai corpi sociali, come gli enti territoriali
(Regioni, Province, Comuni), gli Enti morali,
religiosi e di fatto, le cooperative, i privati.
2)
Parte I, § 5, delle medesime Indirizzi
curricolari per la scuola di base. Il
Ministero della P.I. scrive che «il sistema
centralistico non appare più in grado di
garantire una qualità sufficientemente omogenea
dell’educazione scolastica». Informa, quindi,
che «l’autonomia è sorta come risposta a tale
constatazione». Non è nata, perciò, secondo il
Ministero, perché, dopo 50 anni, si trattava di
realizzare la Costituzione formale del 1948, ma è
nata come un’esigenza di razionalizzazione
dell’inefficienza palese del sistema scolastico
centralistico. Che è come dire: l’autonomia
delle scuole è un mezzo a disposizione del
Ministero della P.I. per far funzionare bene le
cose, non è un valore intrinseco, personale e
sociale, da avvalorare e servire.
3)
Recente riforma della Parte II, Titolo V della
Costituzione approvata a strettissima maggioranza
dalle Camere a fine xiii
legislatura. Per quanto possa apparire
paradossale, l’articolo 1 della nuova legge
costituzionale che modifica l’articolo 114 della
Costituzione si dimentica di accennare che,
accanto all’autonomia degli enti territoriali,
esiste anche, dopo la legge n. 59/97 e il Dpr.
275/99, l’autonomia funzionale delle scuole.
Come se nulla fosse, il nuovo articolo 1 della
Parte v
della Costituzione stipula che «la Repubblica è
costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città
metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato».
Punto e basta. Le autonomie funzionali come le
istituzioni scolastiche, le Università o le
Camere di Commercio non sono nemmeno evocate per
accenni. Forse non sono Repubblica? No, lo sono,
ma in un modo diverso: rientrano tra quelle
attività di «interesse generale» che, scrive
l’articolo 4 comma 5, sono «favorite»
da Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni
e Stato. «Favorite»:
ancora una volta un vocabolo concessivo, non
normativo. «Favorite»
se piace cioè ai Comuni, alle Province, alle Città
metropolitane, alle Regioni e allo Stato; non «favorite»
o poco «favorite»
se dispiace. Siamo ancora lontani dal pieno
riconoscimento dell’autonomia delle «formazioni
sociali» di cui parlano gli articoli 2 e 5 della
Costituzione.
Ecco
perché da noi, probabilmente, non scandalizza
adesso, né i dirigenti scolastici, né i docenti,
né le famiglie, una legge e un Ministero statali
e non scandalizzerà domani una legge e un
Assessorato regionale, provinciale e comunale in
cui si precisano, si preciseranno, i compiti
perfino specifici assegnati alle scuole, ai
docenti e ai genitori in regime di autonomia.
Forse si è interiorizzata a tal punto la
concezione dimezzata dell’autonomia da
naturalizzarla e da pensarla l’unica possibile.
Come se avesse ragione Rousseau quando
diagnosticava: «gli schiavi perdono tutto nelle
loro catene, perfino il desiderio di liberarsene;
amano la loro condizione servile come i compagni
di Ulisse amavano il loro abbrutimento»[x][10].
Oppure come se avesse già visto tutto la Bibbia,
quando racconta l’esodo. Mosè chiese di morire
(Nm
11,10-15), vedendo che stava conducendo verso la
terra promessa un popolo che non aveva nessuna
intenzione di seguirlo. I «capi della comunità,
membri del consiglio, uomini stimati» insorgevano
e si lamentavano. «È forse poco per te
l’averci fatti partire da un paese dove scorre
latte e miele per farci morire nel deserto?» (Nm
16,13). Offesa doppia per Mosè. L’espressione
«paese dove scorre latte e miele» aveva finora
indicato la terra promessa (Es
3,8; Lv
20,24; Nm 13,14). La capacità di persuasione dei capi era stata dunque
tale da far credere agli Ebrei che la terra dove
essi erano stati schiavi era in realtà la terra
promessa in cui andare. Cosicché la rimpiangevano
per «i pesci che avevano mangiato in Egitto
gratuitamente, i cocomeri, i meloni, i porri, le
cipolle e l’aglio» (Nm
11,6).
9.
Quali prospettive?
Con
le elezioni politiche del 2001, gli Italiani hanno
affidato il Governo della xiv
legislatura ad una maggioranza di
centro-destra invece che di centro-sinistra. In
tema di attuazione dell’autonomia, si assisterà
ad una continuità con la linea avviata nella
legislatura precedente o avremo una discontinuità?
E se sarà discontinuità, si andrà nella
direzione di recuperare programmaticamente una
concezione maggiore dell’autonomia, con ciò che
da questo proposito deve conseguire, oppure, con
il rilancio di impostazioni neoefficientistiche e
neodirigistiche, avremo addirittura un sostanziale
ritorno al passato preautonomistico? È ancora
presto per avventurarsi in una risposta
attendibile. Si può dire che, allo stato attuale,
sono aperte ambedue le possibilità. Si può stare
certi, tuttavia, che la scelta dell’una o
dell’altra dipenderà non poco dal ruolo
culturale, sociale e politico che saprà svolgere
la tradizione culturale cattolica e la stessa
presenza della Chiesa nella società italiana. Il
modo di pensare e di agire del socialmarxismo, da
una parte, anche nella sua versione gramsciana, e
del liberismo, dall’altra, infatti, è lontano
dall’assumere le prospettive che si sono
indicate come opportune. A meno che occorra
concludere che la tradizione cattolica e la
presenza sociale della Chiesa siano meno
consistenti e, soprattutto, meno creative di
quanto ci si possa ancora aspettare, e
privilegino, insieme al tatticismo, l’assecondamento
e il mimetismo allo «spirito del tempo».
Giuseppe Bertagna
BIBLIOGRAFIA
[i][1]
Cfr. I. Kant,
Risposta
alla domanda: che cos’è l’illuminismo?
(1784), trad. it., in
Scritti politici e di filosofia della storia e
del diritto, a cura di N.
Bobbio - L. Firpo - V. Mathieu, Torino,
Utet, 1995, p. 142, p. 141.
[ii][2]
Cfr. A. Rosmini, La Costituente
del Regno dell’Alta Italia (1846-1848),
in Progetti di costituzione. Saggi editi ed inediti sullo Stato, a cura
di C. Gray,
Milano, Bocca, 1952, p. 276 (EN, vol. XXIV).
[iii][3]
Cfr. A. Rosmini, Filosofia del
diritto (1841-1843), a cura di R. Orecchia,
Padova, Cedam, 1967-1969, vol. V, pp. 1391,
1393 (Ediz. Naz. delle opere edite e inedite
di Antonio Rosmini - Serbati, Ist. Studi Filos.
- Centro Internaz. Studi Umanistici, diretta
da E. Castelli, Anonima Romana Edit. - Ed.
Roma-Bocca-Cedam, Roma-Milano-Padova
1934-1977, 49 voll., voll. XXXV-XL).
[iv][4]
T. Hobbes, Elementi di
legge naturale e politica, trad. it. a
cura di A. Pacchi, Firenze, La Nuova Italia,
1968, parte I, cap. XII, pp. 95 e ss.
[v][5]
T. Hobbes, Elementi
filosofici sul cittadino, trad. it., in Opere
politiche a cura di N. Bobbio,
Torino, Utet, 1959, I, 2, pp. 78 e ss.
[vi][6]
G. Vico, Scienza nuova
seconda, L. V, § III.
[vii][7]
I. Kant, Risposta alla
domanda: che cos’è l’illuminismo?… cit.,
pp. 141-149.
[viii][8]
Tommaso d’Aquino, Sum.
Theol.,
I, q. 28, a. 3.
[ix][9]
A. Rosmini, Filosofia del
diritto (1841-1843), cap. III, art. 1,
48-52 (a cura di R. Orecchia,
Padova, Cedam, 1967-1969, vol. V).
[x][10]
J. J. Rousseau, Il contratto
sociale (1762), trad. it., Milano, B.
Mondadori, 1997, L. I, § 2, p. 26.
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