La
gestione per obiettivi nelle amministrazioni
statali:
progressi,
criticità, prospettive
Roma
– Palazzo dei Congressi, 3-5 febbraio 2003
Carlo
D’Orta
Capo Dipartimento della Funzione Pubblica
L’argomento
di questa giornata della Conferenza è
“L’Amministrazione dello Stato:
modernizzazione e gestione per obiettivi”. Ci è
sembrato che esprimesse bene una delle idee chiave
del decennio di riforme amministrative che abbiamo
alle spalle.
Se
ritorniamo, con la memoria, alla fine degli anni
’70 e ’80, troviamo l’immagine di una
Pubblica Amministrazione spesso in difficoltà.
Un’amministrazione – per ricordare una
efficace definizione dell’epoca – “troppo
impegnata ad amministrare se stessa”, spesso
autoreferenziale, costosa, poco produttiva.
Un’amministrazione dotata di capacità e
risorse, innanzi tutto professionali, troppe volte
poco e male utilizzate. Una amministrazione
attenta soprattutto alle questioni giuridiche e
alla regolarità formale degli atti e delle
procedure, poco sensibile al profilo economico,
spesso senza strategie e obiettivi a medio-lungo
termine.
Credo che a
simbolo di questa impostazione possa essere
ricordata la normativa sui termini massimi di
durata dei procedimenti. Una normativa che ha
trasformato un tipico obiettivo gestionale – il
contenimento e progressiva riduzione dei tempi di
svolgimento delle procedure - in dovere giuridico,
con l’effetto di legittimare le Pubbliche
Amministrazioni ad attestarsi sul termine massimo
stabilito dagli appositi regolamenti. Un vincolo
giuridico che, in pratica, ha finito con
l’assicurare copertura a comportamenti
inefficienti.
Nel 1992-93,
nel pieno della gravissima crisi finanziaria in
cui il nostro Paese allora si trovava, fu avviato
quel processo di complessiva riforma della
Pubblica Amministrazione che è giunto fino ad
oggi. In quel momento, la direzione del
cambiamento non poteva che essere la riduzione dei
costi. Presto, però, a questo primario ma al
contempo limitato fine di contenere la spesa
pubblica si aggiunse l’altro, di migliorare la
qualità dei servizi. L’obiettivo divenne allora
– per citare lo slogan del National
Performance Review, il grande e coevo
programma di riforma amministrativa lanciato negli
Usa da Bill Clinton e Al Gore – “una
amministrazione che costi di meno e lavori
meglio”.
Dunque: rilancio della primarietà del
servizio rispetto alle problematiche
dell’amministrazione interna; passaggio
dall’amministrazione giorno per giorno a logiche
di programmazione delle priorità, degli
obiettivi, dei livelli di servizio; attenzione ai
risultati e alle performances e non solo alle
procedure; forte orientamento dell’attività
verso i bisogni e le attese degli utenti.
Naturalmente, questa nuova idea di Pubblica
Amministrazione implicava il ripensamento dei
ruoli e dei metodi di governo e gestione. Di qui
l’accento sul ruolo di indirizzo degli organi
politici e il potenziamento degli strumenti di
supporto a tal fine necessari, quali gli uffici di
diretta collaborazione dei Ministri e i Servizi di
controllo interno; la valorizzazione dei poteri e
dell’autonomia gestionale dei dirigenti; il
tentativo di definire un nuovo assetto dei
controlli amministrativi, incentrato sui risultati
delle politiche pubbliche e sull’andamento della
gestione e non sui singoli atti; la nuova
disciplina sul personale nota come
“privatizzazione” del pubblico impiego.
Insomma, un insieme di innovazioni ispirate a
tecniche e modelli organizzativi e gestionali
propri del settore privato.
Queste esigenze e questi problemi di
modernizzazione della Pubblica Amministrazione –
è bene sottolinearlo – non si sono manifestati
soltanto in Italia, bensì in tutta Europa e anche
nei Paesi extraeuropei di democrazia occidentale.
E anche le ricette per la riforma hanno avuto la
medesima dimensione.
Infatti,
negli anni ’90 le stesse logiche innovative
hanno presieduto, con gli adattamenti richiesti
dalle specificità dei singoli Paesi, ai programmi
di riforma amministrativa varati dapprima nel
Regno Unito, poi negli Usa e nei Paesi nord
europei, quindi in Germania e infine, in questi
ultimi anni, anche in Francia. Si è trattato di
un processo di dimensione mondiale per il quale si
è ormai imposto il nome di New Public
Management, a significare la congiunzione tra
carattere pubblico delle organizzazioni e
ispirazione aziendalistica delle tecniche di
gestione.
Inoltre – e anche questo va sottolineato
– a nessuno dei riformatori e degli operatori più
avvertiti è mancata la consapevolezza che,
comunque, la pubblica amministrazione restava una
organizzazione pubblica e con fini pubblici. E
che, quindi – come ha sottolineato ancora
recentissimamente la Corte dei Conti –
l’ispirazione ai modelli e alle metodologie
aziendalistici avrebbe sempre comunque richiesto
adattamenti, imposti dalle peculiarità della
gestione amministrativa e dal fatto <<che la
“azienda Amministrazione” non è finalizzata
al profitto ed è chiamata ad assicurare comunque
i servizi ala collettività e a perseguire le
missioni istituzionali previste per legge.>>
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Ebbene, oggi, a dieci anni dall’avvio di
questo ciclo riformatore, si impongono due
domande: 1) Qual è il bilancio del tentativo
di passare dalla logica delle procedure alla
gestione per obiettivi? 2) Quali sono le maggiori
criticità su cui intervenire?
Un bilancio di dieci anni. Il
bilancio appare molto articolato, fatto di luci ed
ombre.
Le nuove metodologie si sono diffuse e sono
state applicate abbastanza bene – sebbene in
modo non uniforme - negli enti locali e negli enti
pubblici, forse perché più vicini agli utenti e
chiamati ad erogare servizi più agevolmente
misurabili. Forte sensibilità ha anche
manifestato la Conferenza dei Presidenti delle
Regioni e Province autonome, che ha demandato ad
un apposito gruppo di lavoro, coordinato dalla
Lombardia, la messa a punto di metodologie e
modelli. Alcune Regioni sono decisamente avanti su
questa strada .
Meno bene,
invece, sono andate le cose nei Ministeri che –
con alcune importanti eccezioni – hanno
registrato maggiori ritardi e difficoltà. Qui,
nello scorso decennio, l’attenzione è stata
catturata prevalentemente dalle questioni
concernenti lo status del personale, gli incarichi
dirigenziali e il riparto di ruoli tra organi
politici e dirigenza. Minore attenzione è stata
dedicata invece – e lo ha lamentato più volte
la Corte dei Conti, con rapporti e indagini a
cadenza pressoché annuale a partire dal 1997 –
alla parte sicuramente più innovativa della
riforma: adozione delle direttive annuali dei
ministri sull’attività amministrativa e sulla
gestione e attivazione dei sistemi valutazione e
controllo strategico e degli altri controlli
interni previsti dal d.lgs. n, 286/1999.
Un deciso cambiamento è però intervenuto
in quest’ultimo biennio. Infatti il Presidente
del Consiglio, attraverso due apposite direttive
indirizzate ai Ministri nel novembre 2001 e nel
novembre 2002, ha richiamato con forza
l’attenzione sulla pianificazione annuale di
priorità e obiettivi strategici e sul
monitoraggio e valutazione della gestione
amministrativa.
Il Ministro
della Funzione pubblica ha lanciato un apposito
programma, denominato “Governance”, per
promuovere la diffusione, nelle amministrazioni
statali, regionali e locali, delle tecniche e dei
sistemi – programmazione e valutazione
strategica, project management, bilancio
economico, contabilità analitica, controlli di
gestione – che sono supporto necessario per una
gestione orientata agli obiettivi.
Il Comitato
tecnico-scientifico per la valutazione e il
controllo strategico della Presidenza del
Consiglio, infine, ha monitorato, in raccordo con
il Dipartimento della Funzione pubblica,
l’attuazione delle nuove metodologie presso le
amministrazioni statali,
ha elaborato linee guida per la ottimale
impostazione delle direttive annuali dei Ministri
sull’attività amministrativa e sulla gestione
per il 2003 ed ha attivato una rete di raccordo
con i Servizi di controllo interno operanti nelle
singole amministrazioni.
E i progressi
sono arrivati. Le direttive dei Ministri per il
2002 sono state adottate tutte con una tempestività
mai in precedenza sperimentata. La qualità dei
relativi contenuti – definizione degli obiettivi
e dei programmi esecutivi e previsione di
parametri temporali e quantitativi idonei
all’effettivo monitoraggio dei risultati – per
quanto ancora molto perfettibile ha registrato,
comunque, un notevole miglioramento. Diversi
Ministeri hanno progettato e attivato, almeno
sperimentalmente, sistemi per verificare
costantemente la realizzazione degli obiettivi,
per controllare la gestione e per valutare i
dirigenti. E’ ragionevole attendersi, nel 2003,
ulteriori miglioramenti.
Qualcosa,
dunque, si muove nel mondo diversificato delle
Pubbliche Amministrazioni. A dieci anni dal d.lgs.
29/1993, la strategia di cambiamento sin da allora
impostata comincia a sedimentare.
Eppure,
sembra ancora troppo poco. Non si spiegherebbero,
altrimenti, le valutazioni critiche – certo
controvertibili, ma non ignorabili - di diversi
istituti internazionali di ricerca, i quali
continuano a sottolineare le scadenti prestazioni
dell’Italia nella graduatoria dell’efficienza
economica, dovute ad inefficienze delle aziende, a
carente qualità della normazione e alla
persistente rigidità e scarsa funzionalità del
sistema amministrativo.
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Quali sono,
oggi, a mio avviso, le maggiori criticità su
cui agire? Ne indico rapidamente tre.
La prima criticità riguarda la ancora
troppo debole identità di corpo, culturale e
professionale dell’alta dirigenza italiana.
Studiosi
quali Massimo Severo Giannini, Sabino Cassese e
Marco D’Alberti hanno sottolineato come, a
differenza che in Francia o nel Regno Unito, fin
dall’Unità d’Italia sia spesso mancato, tra i
nostri dirigenti, il senso di appartenenza ad un
corpo comune, così come l’adesione a comuni
valori professionali. Le eccezioni rappresentate
da alcune specifiche carriere - grands corps,
li chiamerebbero i francesi – non dissimulano il
problema della dirigenza pubblica in generale.
Il
Ministro della Funzione Pubblica ha sottolineato,
ieri, che questa situazione è stata certamente
aggravata, durante l’ultimo decennio, non tanto
dalle riforme amministrative in sé, ma dalla
spesso superficiale rappresentazione che ne è
stata fatta dai commentatori meno avvertiti.
Quando un
complesso insieme di misure teso a spostare il
focus dell’azione amministrativa sugli
obiettivi, sui risultati e sul miglioramento del
servizio agli utenti viene “sintetizzato e
tradotto” in formule quali “finalmente i
dirigenti pubblici potranno essere licenziati”,
oppure “finalmente le pagelle ai dirigenti”,
l’effetto negativo è duplice. Primo, si
alimenta nei cittadini la convinzione che la
Pubblica Amministrazione sia qualcosa di negativo,
che merita di essere penalizzato. Secondo, si
delegittima e demotiva la dirigenza pubblica,
inducendola a vedere nelle riforme una minaccia
anziché un sostegno.
Una priorità è, allora, aiutare la
dirigenza pubblica a consolidare la propria
identità professionale, la propria percezione di
essere un corpo unitario al vertice delle
Pubbliche Amministrazioni. Occorre, cioè,
investire nuovamente sulla dirigenza: attraverso
l’aggiornamento sulle nuove tecnologie e sui
metodi di management, attraverso il coinvolgimento
costante dei dirigenti nei processi decisionali,
attraverso un’opera continua di legittimazione
dei dirigenti all’interno delle amministrazioni
e davanti all’opinione pubblica. Occorre
investire sulla capacità dell’alta burocrazia
di essere componente essenziale per il
funzionamento delle Istituzioni, per l’armonioso
sviluppo della comunità e per lo sviluppo
economico del Paese.
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La seconda
criticità è quella che potremmo definire
“del rapporto tra garanzia ed
efficienza/efficacia”.
E’ utile, in proposito,
ricordare che un anno dopo il dPR 748/1972 – il
quale riconobbe, per la prima volta, poteri di
gestione propri alla dirigenza statale – un
convegno a Catania di autorevolissimi giuristi,
tra cui Vittorio Bachelet e Giovanni Nigro,
richiamò l’attenzione sulla tensione che, in
qualche modo, oppone due fondamentali princìpi
dell’ordinamento relativi all’organizzazione e
all’attività della pubblica amministrazione:
principio di garanzia e principio di
efficienza/efficacia. Nel 1996 – tre anni dopo
la nuova riforma della dirigenza pubblica – a
Roma, un altro grande convegno (relatori Giovanni
Conso, Giuseppe Carbone, Domenico Fisichella,
Franco Frattini e Luciano Violante) presso la
Corte dei Conti è stato intitolato “Gli
amministratori pubblici fra legalità ed
efficienza”.
Dunque, che tra garanzia ed
efficienza/efficacia possa esservi tensione è un
dato autorevolmente riconosciuto.
Il principio
di garanzia subordina l’organizzazione e
l’attività delle pubbliche amministrazioni a
regole predeterminate, pone vincoli alla
discrezionalità amministrativa, promuove la
partecipazione degli interessati ai percorsi
decisionali dell’amministrazione, comporta
verifiche di correttezza formale e sostanziale
sulle scelte amministrative sia d’ufficio
(controlli) che su azione degli interessati
(ricorsi amministrativi e giurisdizionali) e –
in definitiva – limita il potere pubblico in
nome di valori fondamentali di giustizia e di
democrazia. Esso si traduce, inevitabilmente, in
un fattore di minore rapidità, snellezza e
flessibilità dell’amministrazione.
D’altra
parte, l’organizzazione e l’azione delle
pubbliche amministrazioni devono essere quanto più
possibile economiche e produttive per contenere al
minimo il peso fiscale e il conseguente
assorbimento di risorse dai singoli cittadini e
dal sistema economico; flessibili per rispondere
al meglio ai bisogni e alle attese della
collettività; congrue e ragionevoli sia nel
rapporto tra mezzi e obiettivi, sia quanto al
contenuto delle scelte fra gli interessi in campo.
L’essenza della tensione tra garanzia ed
efficienza/efficacia sta, allora, in ciò: gli
ordinamenti democratici consapevolmente
sacrificano una quota di efficienza/efficacia in
nome della salvaguardia di interessi e valori che
non attengono alla sfera economica, ma ad altri
ambiti.
Il punto è quale equilibrio stabilire tra
questi interessi e valori. Un equilibrio che,
naturalmente, non è mai definito immutabilmente
una volta per tutte, ma risente continuamente di
nuove spinte e deve tener conto della evoluzione
dei fattori istituzionali, culturali ed economici.
Ebbene, credo che oggi le Pubbliche
Amministrazioni del nostro Paese stiano
incontrando le difficoltà tipiche delle fasi di
transizione, quando modelli ed equilibri da lungo
tempo praticati sono messi in discussione ma,
ancora, non si sono stabilizzati i nuovi modelli e
i nuovi equilibri.
Si spiega probabilmente così la
permanenza, in misura da molti ritenuta ancora
troppo pervasiva, di controlli
giuridico-amministrativi su atti anche di modesto
rilievo nello stesso momento in cui vengono
introdotti nuovi e penetranti controlli
economico-gestionali sui risultati complessivi
dell’attività. L’esito è un
sovradimensionamento complessivo dei controlli che
non fa certo bene alla snellezza, rapidità e
flessibilità dell’azione amministrativa. E
questo è vero anche se una quota di controlli
giuridico-amministrativi, riferiti agli atti di
maggior rilievo, è e sarà sempre irrinunciabile,
nelle Pubbliche Amministrazioni, in nome del
pubblico interesse. Forse, un tavolo di confronto
tra organi di controllo e amministrazioni
controllate potrebbe aiutare a trovare un giusto
equilibrio.
Si spiega così, ancora, l’incompiutezza
– secondo molti studiosi e operatori – della
riforma dell’ordinamento contabile e di bilancio
varata nel 1995-97. Riforma che, pur avendo
ampliato le condizioni di flessibilità gestionale
rispetto al passato, ha tuttavia mantenuto una
struttura di bilancio forse ancora troppo
articolata e, soprattutto, incentrata su centri di
responsabilità laddove la logica della gestione
per obiettivi sembrerebbe spingere verso un
bilancio costruito intorno alle missioni e agli
obiettivi di policy. Da questo punto di
vista, per esempio, i francesi, pur partiti dopo
di noi, sembrano essersi mossi con convinzione
maggiore.
E
si spiega così, soprattutto, il modesto successo
conseguito, nel passato decennio, dalle politiche
di semplificazione normativa. L’idea che la
tutela degli interessi della collettività passi
sempre e necessariamente attraverso norme e,
soprattutto, attraverso una minuta
regolamentazione anche delle procedure, è ancora
fortissimamente radicata. Ma ciò è sicuramente
in contraddizione con quell’incremento della
flessibilità e snellezza operativa e, più in
generale, della discrezionalità amministrativa,
che sarebbe richiesto dalle esigenze di efficienza
e di efficacia. In altri termini, l’ambiente
normativo appare ancora oggi tanto complesso e
intricato – la “giungla” delle 50.000 leggi,
cui Michele Ainis ha intitolato un paio di anni fa
un agile e ironico saggio – da diventare più
volte un ostacolo oggettivo per gestioni
manageriali ed orientate ai risultati.
E vengo, infine, alla terza criticità.
Mi riferisco all’approccio troppo
tecnocratico che ha caratterizzato, a volte,
parti importanti delle riforme amministrative
e, in particolare, le tematiche di cui oggi
discutiamo.
In taluni
casi, innovazioni rilevanti sono state elaborate e
messe in pista senza coinvolgere o senza
sensibilizzare adeguatamente tutti gli attori che
avrebbero dovuto gestirle: organi politici e
dirigenza. Non si tratta di una novità assoluta:
si è semplicemente riproposto un difetto altre
volte lamentato del nostro approccio alle riforme
della Pubblica Amministrazione. E, come nel
passato, l’effetto o il rischio è sempre lo
stesso: la mancata o limitata attuazione!
La riprova è data proprio dal cambiamento
di passo che, come ho poc’anzi ricordato, il
modello della gestione per obiettivi ha registrato
nel biennio 2001-2002. Cambiamento di passo
favorito dalla sensibilizzazione degli organi di
vertice dei ministeri su opportunità e vantaggi
del nuovo approccio e dall’avvio di un piano di
cooperazione e assistenza tecnica alle
amministrazioni sui sistemi di programmazione,
valutazione e controllo strategico.
Non
vi è dubbio, tuttavia, che oggi ci troviamo di
fronte ad un passaggio cruciale per la credibilità
del processo di cambiamento.
O, grazie all’azione,
all’impegno e, vorrei dire, alla “visione”
comune di tutti i soggetti coinvolti, i princìpi
e le metodologie della gestione per obiettivi
riusciranno ad imporsi effettivamente, nei
prossimi 2-3 anni, nella azione delle
amministrazioni statali. Oppure questo tentativo
di riformare e cambiare la macchina dello Stato
entrerà in una fase di declino progressivo. Non
è possibile, infatti, mantenere a lungo la
tensione su una idea senza segnali visibili,
continui e, soprattutto, solidi di cambiamento.
Beninteso, non può sfuggire che la
trasposizione di modelli operativi di ispirazione
aziendalistica in amministrazioni con funzioni
principalmente di indirizzo e coordinamento -
quali ormai stanno diventando molte
amministrazioni centrali - è meno agevole che in
amministrazioni di line o che gestiscono
direttamente servizi. E, tuttavia, il rischio che
ho detto esiste e credo che tutti noi dobbiamo
essere avvertiti delle possibili conseguenze.
Come ho già accennato, il mondo degli enti
locali e, più recentemente, anche quello delle
Regioni hanno mostrato – forse anche in quanto
più vicini agli utenti - più
dell’amministrazione statale sensibilità ed
interesse per i nuovi modelli di gestione per
obiettivi. Sia fra gli organi politici che fra i
dirigenti sembra qui diffondersi effettivamente la
consapevolezza che pianificazione e controllo
strategico, direzione e gestione per obiettivi,
bilancio economico ed analitico e altri strumenti
di governance possono essere, se ben
impiegati, non un adempimento, ma ausili
importanti per orientare, sostenere, controllare e
migliorare sia le politiche pubbliche che la
gestione amministrativa.
Vi è dunque il rischio di una
divaricazione.
Da un lato,
già abbastanza consistente e via via crescente
per dimensione, un gruppo composto da diverse
amministrazioni regionali, enti locali ed enti
pubblici nonché da alcune amministrazioni
statali, più innovativi, efficaci, efficienti,
capaci di elaborare strategie e politiche
incentrate su obiettivi chiari e predefiniti e
capaci di realizzarle con coerenza in sede di
gestione. Un gruppo di amministrazioni di livello
europeo, meno costose, orientate al servizio dei
cittadini, capaci di vivere il cambiamento come
regola gestionale continua.
Dall’altro
lato, la parte restante dell’amministrazione
dello Stato e degli altri enti, statici e ancorati
a modelli operativi segmentati e senza strategia.
Non può sfuggire che questo secondo gruppo di
amministrazioni è esposto, anche per effetto dei
confronti, ad un pericolo di declino e di perdita
di legittimazione agli occhi dell’opinione
pubblica. Le ulteriori conseguenze sono
agevolmente immaginabili.
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Concludo con
una considerazione sul rapporto tra riforma
amministrativa e riforma istituzionale.
Le riforme
volte ad introdurre logiche di efficienza,
efficacia, economicità e orientamento ai
risultati nell’azione delle Pubbliche
Amministrazioni sono destinate ad avere maggiore
successo là dove questi non sono soltanto
obiettivi del legislatore, ma divengono obiettivi
quotidiani della politica.
E ciò
avviene più facilmente se sussistono due
condizioni: a) che i servizi erogati
dall’amministrazione siano vicini agli interessi
dei cittadini; b) che vi sia sintonia e coerenza
tra riforme amministrative e modello
istituzionale.
Forse, se la
logica della gestione per obiettivi e
l’attenzione per i valori di
efficienza/efficacia si sono diffuse, in questi
anni, maggiormente fra gli enti locali, le regioni
e gli enti pubblici che nei Ministeri, una
spiegazione sta nel fatto che i ministeri sono più
lontani dagli utenti e raramente erogano, in modo
diretto, servizi alla collettività. Difatti,
alcune eccezioni tra i ministeri riguardano quelli
che svolgono funzioni e servizi con cui cittadini
e imprese si confrontano quotidianamente.
Analogamente
non è, forse, senza rilievo che il fatto che enti
locali e regioni siano stati interessati, in
questo decennio, da riforme istituzionali. Anche
ad esse va, forse, il merito di aver portato, qui
più che altrove, efficienza, efficacia e
orientamento ai risultati al rango di obiettivo
politico primario. Dunque, il messaggio che ci
viene dall’osservazione dei fatti può essere
questo: che le riforme istituzionali – cioè la
testa – e le riforme amministrative – cioè il
corpo - si tengono per mano e si condizionano
reciprocamente. Credo che se ne debba tenere
conto.
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