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Dieci anni di riforme amministrative: 

un bilancio 

* di SABINO CASSESE - * 

Intervento alla I Conferenza Nazionale dell’Alta Dirigenza Statale, Roma, 4 febbraio 2003

Sommario

1.  L’attivo

2.  Il passivo

3.  Che cosa c’è da fare

4.  Conclusione

1. L’attivo

Dieci anni di riforme amministrative: con quale bilancio?

Sul lato dell’attivo vi sono cinque poste:

1.  ci siamo messi al passo con l’Europa: il numero dei ministeri, che sfiorava i 30, è ridotto a 14; l’amministrazione è meno pesante e costosa, grazie al contenimento della crescita dei dipendenti; funzionari di tutti i ministeri partecipano quotidianamente alle riunioni che si tengono a Bruxelles;

2.  dal modello di un’amministrazione che fa, stiamo passando ad un’amministrazione che fa fare: ricordo solo l’esternalizzazione di funzioni e servizi pubblici - da ultimo, quella avviata per il patrimonio pubblico - che non vuol dire necessariamente privatizzazione;

3.  da un’amministrazione a struttura compatta, e quindi uniforme, si è passati ad un’amministrazione policentrica, e quindi differenziata: i ministeri sono circondati da agenzie ed enti controllati e collegati, come in una “holding” industriale, e si sono sviluppate le autorità indipendenti e semi-indipendenti;

4.  negli uffici pubblici è stata introdotta più razionalità: gli obiettivi economici del patto di stabilità, interno ed esterno; lo sfruttamento della posizione di grande acquirente dello Stato, con le negoziazioni Consip; la riduzione della coralità dei procedimenti, con le conferenze dei servizi; la riduzione delle rigidità nella gestione del personale, con l’abbandono dello statuto pubblicistico dell’impiego;

5.  è stato ridotto il divario tra paese e Stato: la fiducia e lo scontento sono diminuiti, perché si è compreso che le amministrazioni possono e sanno cambiare, adeguandosi ai tempi, alle nuove tecnologie, alla domanda della società. A questo ha contribuito anche il radicale cambiamento della giustizia amministrativa, che assicura oggi anche il risarcimento degli interessi legittimi.

2. Il passivo

Che cosa c’è sull’altro lato, quello del passivo?

1.  Alle riforme amministrative siamo arrivati in ritardo (negli altri paesi europei si era cominciato almeno dieci anni prima). Per accelerare i tempi, si è fatto in fretta, spesso più sul piano legislativo che su quello amministrativo, e frequentemente male: ad esempio, molte semplificazioni sono rimaste sulla carta, o hanno ulteriormente complicato il lavoro amministrativo; il cosiddetto sportello unico ha unificato ben poche procedure; le strutture interne dei ministeri si sono moltiplicate, invece di diminuire; i controlli di efficienza non decollano, anche perché la Corte dei conti non si dota delle professionalità adatte;

2.  le riforme amministrative sono state spesso “à la carte”. Ogni ministro della funzione pubblica ha voluto la sua versione del decreto legislativo 29 del 1993. E al Dipartimento della funzione pubblica in 10 anni i ministri sono cambiati 7 volte. Lo stesso può dirsi per la disciplina dei contratti per lavori pubblici (basti pensare che siamo alla Merloni quater). L’amministrazione, attonita dinanzi a tanto rapidi cambiamenti di rotta, ha preferito aspettare;

3.  vecchio e nuovo coesistono: accanto alle aste “on line” rimangono le vecchie norme di contabilità, e non si sa se finirà per prevalere l’antico o il nuovo regime;

4.  la separazione tra politica ed amministrazione è rimasta enigmatica, perché le direttive e gli indirizzi non esistono, i controlli interni si cominciano a fare solo ora, all’amministrazione sono scaricate solo responsabilità, senza mezzi e autentici poteri di decisione, questi ultimi sono spesso sottratti alla dirigenza con leggi e regolamenti;

5.  nonostante le molte leggine sul personale - spesso appoggiate dai sindacati che dovrebbero osteggiarle perché invadono il campo della contrattazione -, non è stato fatto un piano di selezione e formazione del personale amministrativo. Queste sono lasciate al caso: un bell’esempio è la recentissima legge sulla pubblica amministrazione dove si prevede persino l’assunzione di idonei di altri concorsi di altre amministrazioni;

6.  gli annunci e le promesse, non seguiti da realizzazioni, hanno prodotto un circolo vizioso costituito da aspettative, disillusione, sfiducia. Faccio solo un esempio: è stata promessa una vasta opera di razionalizzazione legislativa, con la codificazione e semplificazione delle leggi esistenti. Ma questa - salvo uno o due casi - non è stata neppure avviata.

3. Che cosa c’è da fare

Tre grandi questioni sono ora aperte:

1.  il nuovo titolo V della Costituzione e la proposta di ulteriore modifica costituzionale, erroneamente chiamata “devolution”. Un’applicazione puntigliosa (come quella voluta dalle regioni, che spesso non sanno amministrare, ma sanno sempre difendere con le unghie e con i denti le proprie competenze) delle infelici riforme costituzionali lascerebbe immutati i soli cinque ministeri “de puissance” (esterni, interno, difesa, giustizia, economia e finanza), perché quattro sarebbero svuotati; tre fortemente “dimagriti” subito, gli altri due appena passa la proposta del senatore Bossi. Ecco, dunque, un primo problema da affrontare. La soluzione migliore sarebbe di riformare la riforma della Costituzione, che è stata fatta in fretta e male. Se no, rimane da reinterpretarla, facendo seguire presto al disegno di legge La Loggia la determinazione dei principi fondamentali per l’esercizio della potestà legislativa concorrente e il riordino di strutture e procedure in base alla nuova delega data dal Parlamento al governo;

2.  l’attuazione della legge sul procedimento. A quasi tredici anni dalla sua approvazione questa legge, diretta all’amministrazione, è diventata, invece, l’arma degli avvocati contro l’amministrazione. Questo vuole dire che essa non è né attuata, né rispettata. Infatti, per i nuovi procedimenti amministrativi, quelli introdotti dal 1993 in poi, non sono stati determinati tempi e responsabili;

3.  l’alta dirigenza statale. La sua privatizzazione è stata un errore: la dirigenza è lo Stato, il datore di lavoro, l’imprenditore (perché ai dirigenti si chiede di diventare “managers”?). E’ stato un errore uniformare la disciplina a tutta la dirigenza pubblica perché, specialmente dopo la moltiplicazione dei poteri pubblici, lo Stato ha un compito superiore di coordinamento, che gli altri non hanno. E’ stato un errore renderla precaria perché la dirigenza deve essere regolata secondo i principi della stabilità, della specializzazione e della imparzialità. Occorre, dunque, ridare alla dirigenza uno statuto pubblico. Selezionarla in base al criterio del merito, delle capacità e dell’esperienza. Restituirle stabilità e continuità. Retribuirla adeguatamente.

4. Conclusioni

Precarietà sotto il profilo strutturale; assenza di direttive e indirizzi sotto quello funzionale. Così il vertice dello Stato rischia di rimanere senza un obiettivo, una “missione”. Quindi, di restare prigioniero della “routine” e di ritornare alla pedante interpretazione della legge.

Non spetta a me indicare quell’obiettivo. Posso solo dire dove va cercato. Ed è nelle tendenze centrifughe, che portano sempre più funzioni verso il basso (le regioni) e verso l’alto (l’Unione europea), frammentando i poteri pubblici e ricomponendoli in  organi misti e procedure composite. In questo magma c’è bisogno di un ordine, che tenga insieme le varie parti, indirizzi e coordini, faccia fare e controlli. Qui - mi pare - va cercato il nuovo compito dell’alta dirigenza statale.


 

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