Un Mazzo di Fruste

di Arduino Napoleone

da Palena

 

da.... L'UFFICIO DEI MORTI

 

Suonano le campane in piena notte

La notte del due di novembre a Palena, al tempo della mia fanciullezza, era notte insolita. In quelle ore di denso buio già il freddo serrava il paese nel suo morso invernale e i volumi della Porrara e della Maiella, più scuri dell'aria buia, parevano foschi giganti in agguato. Ai loro piedi stagnava il velo nerastro e fumoso della pesante nebbia novembrina. A un tratto la squilla garrula e argentina della campanella della chiesa della Madonna del Rosario rompe il greve silenzio: le rispondono la più grandicella e la mezzana con carezzevoli strofinii del battaglio all'in giro della bocca slargata del bronzo. Sotto le coltri imbottite i dormienti perdono l'immobilità del sonno: qualche mano sbuca dalla nicchia calda delle coperte e strofina l'appiccicaticcio delle palpebre pesanti... Voci maschili domandano confuse: - Che c'è? -. Voci femminili, più pronte, rispondono: - E' Bruciafierre c'accenne... arrizzète! ...- (E', cioè, Bruciaferro che dà alle campane i primi tocchetti di preannuncio e, perciò, alzati! -). Bruciaferro era lo scaccino di quella chiesa: fabbro o, meglio, maniscalco, imbianchino e becchino, tutti mestieri che faceva male e svogliatamente; al contrario eccelleva nello scolarsi teorie di mezzi litri e, quando gli capitava, nel far sparire la gallina del vicino di casa. "... Quanta tristezza, poveri vecchietti! Sembra che dietro le loro spallucce curve essi avvertano la vicinanza della morte in agguato, pronta a ghermirli ..."

Alto, allampanato, patito di magrezza per fame insoddisfatta, ciabattava per il paese con passo strascicante, stranamente ammantato, quand'era inverno, di una lunga coppa nera di cui una parte strisciava sempre per terra e l'altra gli arrivava appena sopra il fianco. Sotto l'ala sordida e sgualcita del cappello di indefinibile foggia rosseggiavano due occhi colaticci per eterna congiuntivite, pendeva un naso adunco, rosso di freddo e di alcool e gocciolante su due baffi grigi da tricheco , sotto i quali spuntava la cannuccia della pipa di creta quasi sempre spenta. Quando gli era dato di soddisfarsi nella bettola calda con una fumigante "tiélla" di baccalà, innaffiata da un buon litro, era ricco di battute estrose e grasse: come quando, issato lassù fra le sue campane, incitava i suoi allievi campanari a suonare "alla sfreggia o, cioè come forsennati, come per sfregio. In quelle ore fredde di notte però bestemmiava come un lanzichenecco... Ed ecco le note meste, una dopo l'altra, della piccina, della mezzana e del campanone rintoccare nell'aria in un accordo in terza minore: è il vero inizio della suonata. Quelle note scandire vogliono ricondurre il pensiero umano ai poveri cari morti di ogni famiglia. Dopo una breve pausa, tutta l'aria trema dell'onda delle quattro suonate a distesa, e ciò vuol significare la solennità del rito. La calma immota della notte è rotta: s'ode cigolare qualche porta, stridono chiavistelli, raspano e poi tonfano usci e portoncini nell'aprirsi e rinchiudersi; i vetri grigio-viola delle finestre s'illuminano ad uno ad uno del chiarore giallastro delle lampade accese nelle case e un'animazione man mano crescente invade le strade, la piazza. E' la gente che esce di casa per recarsi in chiesa.

Dietro le finestre di casa mia vedo le prime figure di vecchine incappucciate di scialloni scuri trotterellare sollecite, di uomini anziani e vecchi, tutti chiusi in lunghe cappe nere dal bavero caprino, avanzare calmi e dignitosi pel compito che li aspetta: sono confratelli della congrega e siederanno sugli scanni antichi del coro, dietro l'altare maggiore, per cantare l'ufficio. La gente infittisce e sono giovani, ragazze e donne, tante donne a gruppetti e capannelli che si sfanno per il sopraggiungere di altra gente, di altre donne, di altre comari. Parrebbe una festa, ma in fondo è qualcosa di diverso ed è il fascino che questo rito religioso esercita in tutti in quell'ora inconsueta di piena notte. Fascino strano, non da santa notte natalizia, quando l'aria gelata è pura e stellata e popolata di visioni di comete luminose, di pastori, bambinelli e bovi e asinelli; quando risuona l'ingenuo suono della mitica zampogna e l'animo rinasce a nuova vita di amore e bontà; ma fascino di ombre notturne che si animano ammorbidite nella bruma acre, che vivono intensamente in comunione di affetto, di ricordo, di rimpianto con altre ombre, quelle dei trapassati, e a loro dedicano quella notte, quel sonno troncato, quell'atmosfera di necropoli in festa, preferendo queste condizioni ambientali alla luce del sole ch'è sostanza di vita e, quindi, in contrasto con quel regno di morti ridestantesi da lontananze infinite, dove la vita solare non è di casa.

Non credo sia facile trovare in altre terre, in altri luoghi una cosiffatta originalità nel concepire un rito dedicato ai defunti. In piazza vedo alcuni forestieri sbucare dal cavo scuro dell'arco di una vecchia locanda e far gesti di sorpresa, mentre in fretta finiscono di aggiustarsi i colletti delle camicie, torcendo a scatti la testa di qua e di là. Svegliati di soprassalto dal suono delle campane e dal rumore della gente, pensavano a qualche incendio, a qualche disgrazia o cosa straordinaria. Si rasserenano perché i passanti dicono loro che non è successo niente: è solo l'ufficio dei morti... Sotto i balconi che danno sulla piazzetta dirimpetto la chiesa, odo altri chiavistelli stridere, cigolare altri usci, sbattere altri portoncini e passi frettolosi risuonare sui selci e il brusio di voci confuse o distinte. All'improvviso sibila nell'aria il fischio tradizionale degli scarpari: quello che odo proviene da "Urzitte" che dà la sveglia al suo maestro Antonio Passalacqua, scarparo mastro raffinato e cantante ufficiale della chiesa della Madonna. Aveva una calda voce baritonale ed era dotato di un orecchio musicale prodigioso, al punto che, senza nessuna scuola e seria conoscenza, leggeva per intuito e per lunga esperienza, musica di Perosi con estrema facilità e con rigoroso tempismo. Bastava che udisse una sola volta la sua partitura perché la ripetesse e interpretasse con fedeltà espressiva. Bell'uomo, ancor giovane, dal signorile profilo mediterraneo, dall'intelligenza pronta e umoristica e dotato di una carica di vis comica da far gola ad un celebrato attore. "Urzitte", tozzo, dal naso piccolo rincagnato, una specie di Bertolo medievale, era il suo fedelissimo, umile, eterno apprendista nel risuolare ciabatte e impeciare spaghi; affascinato dalla personalità del suo maestro, pendeva dalle labbra di costui, prontissimo a spalancare un forno improvviso di bocca nella risata sonorissima.

Intanto mio padre era già pronto per uscire. Era l'organista, per amore della musica, e mi è caro fermarmi al ricordo delle sue originali doti di compositore di musica sacra e di raffinato tecnico della tastiera: cose che ammantava di gelosa modestia. Lo rivedo magro e piccolino, austero e distinto, tormentarsi i baffi col caratteristico moto nervoso della mano; lo risento brontolare contro "questi riti medioevali" ma... nessuno meglio di lui ne sentiva lo strano, poetico fascino e ne provava infantile piacere. Cos'era in fondo tutta quella gente che in piena notte saltava dal letto per andare in chiesa, quell'animazione quasi festosa, quell'inconscio indistinto piacere sentito da tutti pel sacrificio che si faceva in omaggio ad un caro e antico rito? Era corale dimostrazione di affetto per tutti i defunti, in amorosa solidarietà; era desiderio che tutti i cari morti sentissero in modo straordinario il calore dell'amore lasciato in quelli rimasti ad aspettare il loro turno; era un voler fare loro festa, anche se nel profondo dei cuori vi era tanta mestizia e tanta cocente nostalgia. Così si esprimeva l'animo di un popolo intero. Mio padre accendeva il suo mezzo toscano e insieme uscivamo. L'aria fredda e umida pungeva e ci faceva alzare i baveri dei cappotti. La facciata della chiesa, lì a due passi, si ergeva dalle due rampe della bellissima gradinata, con la sua massa grigio-tenero, in uno slancio ardito eppure composto e sobrio negli ondulamenti di primo Seicento, nei ritmi ascendenti delle coppie di paraste composite addossate che scompartivano tutta la massa. Attraverso le vetrate dei due grandi finestroni laterali all'elegante portale, vero gioiello architettonico fine Cinquecento, traspariva il chiarore rossastro, per ora ancor tenue, dell'illuminazione della chiesa. Passavano per il corso nebbioso, provenienti dalle due opposte direzioni, figure ovattate sempre più frettolose.

Nella notte sfilano i personaggi

Ecco lì il priore, altro scarparo, dalla figura asciutta e nervosa, molto anziano e candido di capelli, tutto inguainato in un cappottino a vita dal bavero di velluto nero, quello riportato dall'America. Calzava in testa una bombetta d'altri tempi, anch'essa riportata dall'America, che, insieme al luccichio delle stanghette dorate degli occhiali scivolanti verso la punta del naso, contribuiva a dargli l'aspetto di una specie di "onorevole" di tempi andati. Teneva moltissimo alla sua carica ed era da tutti soprannominato "Ciauì".

Ed ecco un altro autorevole decano, "Scarciacappa", un vecchio contadino che guai a toccargli il suo posto preferito nel primo stallo del coro, visibile nel vuoto dell'entrata a sinistra dell'altare maggiore: la sua faccia forte, dalla mascella asimmetrica per mancanza di denti, già di per sé rossa, si accendeva ancora di più nello sforzo del canto, ove la dizione assumeva toni comici e farfugliosi per vecchiaia e balbuzie. L'ala della sua cappa nera ricadeva immancabilmente con sciatta noncuranza fra i suoi piedi. Ed ecco "Pallota", altro decano che sedeva al posto dirimpetto a Scarciacappa e quindi ben visibile: altro contadino, colossale, massiccio, dal cranio pelato e lucido, dalla faccia solennemente piantata su un collo taurino e che, nella sua possanza di materia bene architettata e nella sua aria quasi irreale, richiamava le costruite figure di Piero della Francesca. E' già passato "Sordomenico" il caffettiere, giovane e amante degli studenti suoi coetanei, cui piaceva averlo fra loro, dai visibili calzini sgargianti sulle scarpe di vernice e dalla immancabile cravatta a farfalla. Ed ecco anche "Cuccariello" tutto oscillante, piccolo, rubizzo e torto come un querciuolo nano. - Buon giorno, buon giorno, buon giorno... -: questo il saluto che distribuiva a destra e a manca, ripetendo la frase con saettante velocità innumerevoli volte e con onesta convinzione di fare un doveroso gesto di buona creanza. Mio padre, divertito, spesso auspicava che si "desse un vice priorato a Cucco...", tant'era commovente la sua ingenua ambizione. Purtroppo aveva una voce stonata e cupa da bove che faceva andare in bestia mio padre quando doveva accompagnarlo con l'organo. Era un altro decano della congrega e scarparo come tanti altri. Quanti scarpari vi erano in quei tempi a Palena! E tutti originali e spassosi seguaci di Epicuro, pur avendo sentimento nascosto e un geloso attaccamento alle tradizioni e in modo speciale alla musica, che nelle sere esplodeva in vecchi caratteristici cori con euforia bacchica nelle atmosfere fumose e rossastre delle bettole.

Le loro botteghe annerite e tappezzate di cartoni cinematografici di Lidia Borelli, Maria Iacobini e divi del muto di quei tempi, odorosi di cipolle pendenti dal soffitto in compagnia di grappoli di infocati peperoncini, e di suola marcia in tinozze nere e di quella fresca in lavorazione, erano cenacoli di scanzonata filosofia e di teatrale umorismo. Lì dentro nasceva la battuta, il motto salace che rimanevano a fare storia. Passa anche "Raffaiuolo", manco a dirlo... scarparo anch'egli, tutto ansante e con la lingua che s'affacciava e rientrava nella bocca, per un curioso difetto, contemporaneamente al movimento arrancante delle minuscole gambette arcuate come branche di aragosta, infelice nella miseria fisica di nano, ma intelligentissimo. Era il dotto della comitiva dei compari scarpari, era il poeta che nel rosseggiare dei bicchieri colmi, nel ricorrente convito serale, issandosi sulla sedia, declamava da ottimo alunno di sesta elementare qual era stato: - Oh, Valentino vestito di nuovo...! - Una pennellata alla Velàsquez in un notturno alla Rèmbrandt! Passalacqua col fedele Urzitte è già vicino a mio padre. - Buon giorno, signor compare -, dice mentre arrotola una sigaretta di trinciato forte in un pezzetto di carta di giornale. Mio padre lo aveva tenuto a battesimo.

L'odore di simile sigaretta si mischia a quello della nebbia: ne vien fuori qualcosa di stranamente eccitante e insolito. Saliamo la gradinata e mio padre, com'era solito fare, sosta un po' sul pianerottolo del sagrato, appoggiato alla ringhiera e attorniato da Passalacqua e Urzitte. Fumando nervosamente il suo mozzicone di toscano, si divertiva ad assistere al passaggio dei tipi più caratteristici con osservazioni umoristiche che davano la stura alla vena comica del baritono e al raglio della risata di Urzitte, non saputa rattenere. Ed ecco il "Bos", l'altro cantante. - Buon giorno, signor maestro - dice ansante. Gigantesco di statura, dondolante nel suo grasso volume carnoso, roseo come un bimbo, usciva allora allora dal forno ov'era stato ad accendere il fuoco. Era tutto accaldato. Fornaio paziente e tenore della chiesa della Madonna. Era un vero tenore, dall'impostazione perfetta. Aveva studiato canto in America dov'era stato per molti anni, facendo il "bos" in una fabbrica. Gli era rimasto questo nomignolo. Eppure l'orecchio di Passalacqua gli era di gran lunga superiore. All'una di notte, d'inverno e d'estate, faceva il giro del paese, gridando sotto le finestre delle massaie in veglia faticosa il caratteristico "ammasse!" che era il segnale della prima operazione dell'amoroso e lungo lavoro da fare e che voleva dire che potevano iniziare ad impastare la farina lievitata nel bianco tepore della madia antica. Dopo tre ore rifaceva lo stesso giro con un nuovo grido: "pugne!" che voleva dire di cominciare a lavorare la pasta soffice e odorosa. A quei tempi, fare il pane in casa era una vera fatica notturna e silenziosa, che si snodava nei suoi successivi momenti nell'intimo mistero della casa avvolta nel sonno, con la cura e la religiosità del più ancestrale rito sacrificatorio: fatica pesante che le donne accettavano con umile remissività, con gioia nascosta e con dignità di antiche vestali.

O bellezza purissima di quelle visioni, alle prime luci dell'alba, di portatrici di pane che al forno fluivano per le strade silenziose e ancor sonnecchianti, recanti sulle teste i lunghi spianatoi amorosamente ammantati di coperte di lana! La "spara", specie di cuscinetto fatto di un fazzolettone arrotolato e ricordante quello architettonico sopra le teste olimpiche delle cariatidi dell'Eretteo, pareva avesse non tanto il compito di ammorbidire il duro contatto del legno pesante sul capo delle portatrici, quanto quello quasi materno di evitare sobbalzi alle pagnotte, quasi fossero nidiata di tenere deità appena nate... E quando uscivano dal forno caldo all'aria fresca e pulita del mattino lucente, quelle donne che si allungavano sotto ampi spianatoi pesanti di pagnotte bianche di farina candida, si snodavano una dietro l'altra, in un teoria caracollante di fianchi robusti, in un ondeggiare ritmico di gonne scure.

Oggi le massaie che vegliano la intera notte in questa ancestrale fatica diradano sempre più e il forno è diventato elettrico, ed è scomparsa la bella fiamma che dalle fascine spinte nella bocca del forno, crepitava, lambiva, saettava con le sue lingue infuocate la volta stracotta di mattoni, ruggendo paurosamente e investendo di bagliori sanguigni i volti bruni nelle giovani massaie, i loro capelli, i loro busti, i loro fianchi. A un certo momento mio padre spegneva sul ferro della ringhiera il mezzo toscano e tutt'insieme si entrava in chiesa. In chiesa "Barò", un ragazzone sempliciotto, calmo, eternamente sorridente e dalla voce di montone, ci apriva la porticina dell'organo e noi, uno dietro l'altro, salivamo attorcigliandoci per una scaletta a chiocciola nera e umida di pietra secolare.

Sbucati sulla tribuna, ci accoglieva la mole grandiosa del magnifico organo settecentesco, tutto dorato e lanceolato nella sua architettura lignea e nei cui tre vuoti scuri come occhiate scintillavano in parata di più strati le canne di piombo, dalle più piccine a foggia di trombe a quelle enormi dei bassi, in alto su tutte. "Barò" prendeva il suo posto alla ruota del mantice; Passalacqua, dopo avere appeso il berretto al solito chiodo col gesto secco e sicuro di tanti anni, si disponeva a destra dell'organo, il Bos a sinistra. Mio padre, dopo aver lanciato uno sguardo in fondo verso il coro già pieno di confratelli, si sedeva su di un alto panchetto nerastro di vecchiaia, preparava i registri che tirava da una specie di bottoniera a lato della tastiera, soffiava la polvere dai tasti prendendosela con il sagrestano pigro e, rigirandosi verso l'altare e i confratelli pronti, aspettava di dare il segnale o che glielo rubasse il priore Ciauì.

Quanti anni sono ormai passati da quelle notti della mia adolescenza, anche se il rito, che non vuol morire, resiste ancora oggi, sia pure in veste più dimessa. Lassù, sulla tribuna, si aveva la sensazione di far parte della bellissima architettura della chiesa: un interno a croce greca, con tre navate, transetto e cupola. L'elegante concezione strutturale ti suggeriva una precisa sensazione plastica, come se da un masso squadrato di creta mani abili avessero sentito la gioia di levare, scavare, arieggiare più che mettere: ed ecco l'ardita prevalenza dei vuoti degli archi delle navate e degli arconi sorreggenti i quattro pennacchi della cupola. Pieni e vuoti si concatenavano con ariosa eleganza e perfetta armonia, rivestiti di una succosa veste decorativa barocca nei cornicione ricchissimo di modanature e molto aggettato, nelle leséne dai soffici capitelli compositi, nel fasto decoroso degli altari, ove angioli morbidi e pieni di grazia teatrale si sdraiavano sugli spioventi dei fastigi e parevano occhieggiare dall'alto i solenni David e Salomone che sotto di essi facevano guardia solenne ai lati.

Dietro l'altare maggiore, nei vuoto rettangolare dell'abside, si susseguivano, addossati alle pareti, gli artistici stalli intagliati e scolpiti in antico noce su cui era depositata la patina scura di diversi secoli e l'odore e il fumo di chi sa quanto incenso. Questo era il cosiddetto coro. Lì si affollavano i confratelli, tutti compresi della loro importante funzione. Nelle tre navate, in un biancore generale indorato dalla luce delle candele, nereggiava la massa dei fedeli. Ed ecco la voce nasale di Ciauì intonare l'introduzione dell'ufficio, con stizzoso disappunto di mio padre che non aveva avuto modo di dare la nota base e che per dispetto si attardava ancora, prima di rigirarsi e mettere le mani sulla tastiera. Barò, curvo sulla ruota, già la girava da un pezzo. Subito dopo, la fila dei confratelli di sinistra, quella di Scarciacappa, attaccava una specie di recitativo alquanto sommesso e in tono minore, cui rispondeva, come contrappunto, un altro della fila di quelli dirimpetto, ov'era Pallotta. Ogni tanto una pausa: la voce nasale del priore intonava il suo breve intermezzo, indi il duetto delle due schiere fronteggiate riprendeva il recitativo. Per un conoscitore e buongustaio di musica sacra quel fraseggio sostenuto su due o tre note in dissonanza, con quella sicura prontezza, costituiva un fatto originale sorprendente e tale da essere una sicura indicazione dell'alto senso musicale di tutto un popolo, che affondava le origini nelle sacre rappresentazioni medioevali.

In quell'ora di alta notte, tutta quella gente raccolta in una chiesa fredda, che riscaldava col proprio calore, quell'aria tremolante di candele accese che lanciavano grandi masse di ombre verso l'alto, quel canto sommesso che s'innalzava verso la cupola, che rimbalzava sotto gli archi e le volte, fin sulla tribuna dell'organo, costituivano un fatto così poco comune e così spirituale da irretire l'animo più rozzo. L'organo accompagnava e puntualizzava con preziose variazioni, con certi timbri di flauti e viole antiche, che ancora m'incantano al ricordo. Altra pausa. Squilla il campanello del priore: è il segnale della "prima lezione". Mio padre acconcia una combinazione di registri ancor più melodiosa e raffinata. Ed ecco levarsi la voce giovane e fresca di uno dei confratelli più intonati. La frase musicale si espande in un canto trascinatore in tono maggiore, commentato dagli accordi ed arpeggi dell'organo. Alla fine risponde tutto il coro. Si avvicendano così quattro o cinque solisti con melodie diverse in maggiore e in minore, piene di accorato trasporto, dopo di che tutti i confratelli riprendono il filo conduttore del principio: e qui non è più sommesso recitativo, ma canto corale ampio, caldo di passionale sonorità, vibrante di accenti drammatici per la ricorrenza romantica di terze e seste minori, per gl'improvvisi bellissimi salti di tono. L'organo, come preso da entusiasmo, aumenta e arricchisce le sue voci, si gonfia di onde sonore in un tripudio di armonie sul rombo dei bassi cupi e potenti.

Tutta la chiesa vibra di malia musicale, mentre i versi di David e Salomone, di Ezechiele e Geremia rimbalzano da una schiera all'altra del coro. La sapienza, la fede, la forza profetica, la poesia del mondo biblico sono balzate dall'oriente mistico e si sono affidare ad un'insolita onda canora sgorgante da cuori di razza antichissima che vibrano con esse per un misterioso legame. Quei rocciosi patriarchi dai crani lucenti, dalle gote imbiancate, che s'intravedono dietro il coro, ora seduti, ora in piedi, solenni nel drappeggio delle loro lunghe cappe nere, sono in questi minuti, per virtù della loro ancestrale mite semplicità, i più degni raccontatori degli affanni, dell'ira e dello slancio verso Dio degli antichi profeti.

E queste cose raccontano in lingua antica, in latino, leggendo con speditezza sbalorditiva su libri consumati dal tempo e dalla copertina luttuosa, quei vecchi, quei giovani, dopo una dura giornata di lavoro, con nessuna dimestichezza con la lettura, poiché le loro mani incallite non conoscono l'elegante gesto di sfogliare un libro. In quelle ore, però, quei contadini, quegli scarpari, quegli artigiani leggono latino e lo cantano... E quel canto è un fatto unico, perché non frutto preciso della vena compositiva di un tal quale maestro, ma una specie d'incantamento misterioso di cui si avverte la lontana origine in tempi lontanissimi. La campanella della sagrestia suona a distesa: ecco Don Luigi uscire parato per la messa, seguito dal chierichetto. ...................

 

Spunta l'alba

La gente si scuote, si alza, si muove, si affolla alla porta. Le teste corvine femminili si alzano più numerose e sicure verso l'organo e gli occhi neri lampeggiano e si attardano a guardare, ora che tutto è finito. Passalacqua e compagni sono discesi per primi e attendono sul sagrato. Mio padre rinchiude rapido e secco i registri uno dopo l'altro e chiude la tastiera, mentre ancora tremano le ultime onde sonore; Barò cessa la sua umile fatica e insieme c'immergiamo nel vuoto nero della scala a chiocciola, mentre i piani rosso-fuoco del mantice, come bocche di draghi, lentamente si abbassano fino a riposare stanchi l'uno sull'altro in un sordo respiro. Fuori è quasi giorno: l'alba grigia cede posto ad una luce più calda, anche se la nebbia impregna l'aria ancora del suo odore acre e stagna sotto la Porrara e lì in fondo alla Pescara. Dal piano del sagrato sciama la gente lungo le due rampe della gradinata. Luccicano di brina i ferri delle ringhiere, i fili elettrici e i coperchi dei globi penzolanti, entro cui muore la luce giallastra delle lampade elettriche. I rumori non risuonano così insoliti e misteriosi come alcune ore prima nel cuore della notte. Qualche negozio è già con le antiche pesanti porte ad arco appoggiate ai muri, una di qua e una di là e mostrano il polveroso verde stinto di vecchie vernici. Ma la vetrina è ancora buia e chiusa. Il corso è risonante di passi e di voci e le donne ogni tanto sostano in gruppi chiacchierini, aggiustandosi con voluttà gli scialli sulle spalle, e poi riprendono la via di casa.

Gli uomini non hanno fretta: perdono tempo a caricare la pipa, a strofinare il "fulminante" (il fiammifero di legno), lungo il cosciale dei pesanti calzoni, ad accendere premendo, poi, con il polpastrello del pollice il tabacco che ridonda, fermi e piantati con le gambe divaricate; o ad arrotolare sigarette di trinciato forte. Com'era nuovo quell'odore di tabacchi forti ed asprigni nell'aria nuova del primo mattino. Metteva intorno un sapore di virilità come di sprone alle fatiche della giornata che iniziava... Papà sostava qualche attimo nella piazzetta mordicchiando il mozzicone di sigaro e ascoltando o provocando il raglio della risata di Urzitte, contento come una Pasqua per il rito musicale goduto. Il Bos tornava al suo forno dove lo aspettavano vociando le comari per il pane da infornare. I vecchietti delle lunghe panche nere, ultimi a uscire, passavano in quel momento: erano insieme, silenziosi e curvi e, toccandosi il cappello in segno di saluto, si allontanavano oscillanti nell'ondoso movimento delle loro cappe scure. Il languore che provavo non era solo di stomaco, era languore anche di spirito che, in quelle ore piene di fascino, si era esaltato di denso misticismo e di tante emozioni. Ma ecco Palella: Passalacqua lo aspettava. - Senti, Josef - gli dice fra il serio e il faceto, - ho una pignatella di fagiole e cotiche fresche... che ne dici, ce li riscaldiamo? - Domanda inutile! Palella sbatte più volte le palpebre pigre per la contentezza e laconicamente risponde: - Iamme! (andiamo). - Buon giorno, signor compare, buon giorno, signor maestro - e poi i due se ne vanno a braccetto verso la bottega di Passalacqua, mentre Urzitte, pratico di cose del genere, corre subito da Ciccotte, l'oste lì nella piazzetta, a prendere un buon fiasco. Nell'aria di San Martino si annusa odore di vino nuovo.

Più in là, dalla bottega del macellaio rimbalza il grido metallico della mannaia di Nicolino Mosca, baffuto e cordialone, che sta accettando castrati e agnelli. Fuori la porta è già appeso il maiale primaticcio, bene aperto in due parti simmetriche, ove gli esperti valutano la bontà e lo spessore del lardo. Il colpo secco e forte del battocchio di ferro colpito dalla mano nervosa di mio padre risuona autoritario nella piazzetta, e il portone antico di legno nero, costellato di teste sfaccettate di enormi chiodi, si apre e si richiude alle nostre spalle. Ci aspetta la fiamma amorosa e scoppiettante del grande camino in cucina e la profumatissima caffettiera già fumigante...