Un Mazzo di Fruste

di Arduino Napoleone

da Palena

 

da L'ALTARINO.....

 

Tempo pasquale

In una mattinata luminosa e tiepida di una lontana settimana santa, la nonna, le zie, la mamma e la onnipresente Pasquarella si davano un gran da fare per le rituali pulizie pasquali, in un chiassoso disordine foriero di ordine nuovo: chi a pulire i vetri, chi a strofinare e lustrare la numerosa batteria di rame: quartier generale la grande cucina... In quello sbattere e acciottolare, in quella confusione di vigilia di gran festa, io mi sentivo in una frenetica euforia e impicciavo i passi di tutti. Zio Elio appariva e scompariva pieno di fervore come direttore di lavori e armeggiava di continuo, spesso di diverso parere con le zie, ma sempre paziente, anche se brontolante, alle prese con secchi di colore e pennelli per rifare la zoccolatura finto marmo. E tutto, a poco a poco, si ricomponeva in un bell'ordine nuovo e nella grande cucina i tegami, le casseruole, le pentole e pentolini si riattaccavano in parata alla parete che da tempi lontani li teneva amorosamente abbracciati, pavoneggiandosi in un fresco luccichio ramato.

E subentrava altra animazione, più gioiosa. Si approntavano i dolci pasquali! E qui prendeva gran rilievo e importanza la figura della nonna, di Donna Celeste... Dalle sue mani uscivano certe "pizze dolci" a più registri, certe sfogliatelle, certi "pasticciotti" che erano veri capolavori di arte dolciaria. Riodo ancora di quelle mattinate il rumore festoso che una delle zie faceva sbattendo, senza mai stancarsi, la finissima pasta all'uovo dentro una larga ciotola di ceramica azzurra. Sotto il gran camino rosseggiava ancora la bella fiamma invernale, mentre sulle "fornacelle" di antica maiolica colorata grandi vuoti di rame, sui cui coperchi riposava bragia ardente, preparavano, immoti e misteriosi, i miracoli dei pasticciotti racchiusi come neonati in tante piccole forme di rame... E risento ancora oggi il profumo inebriante che si spandeva per tutta la casa. Che festa, che gioia quel profumo, quel sole pasquale, quel camino in pompa magna, quell'andare e venire, quelle misteriose salite per la scalinata grande che faceva la nonna, dalla cui cintola tintinnavano a festa le numerose chiavi e con me appiccicato alla gonna: ché la seguivo ovunque, avido di vedere e scoprire cose nuove e belle...

E infatti nella "saletta" la nonna si dirigeva verso uno stipo a muro: lo apriva con delicatezza e, mentre da esso usciva un alito profumato di cose preziose, antiche e gelosamente conservate, ne cavava certi piatti di finissima porcellana a disegni azzurrini e certi vasi e vasetti dello stesso stile settecentesco ed arcadico. Li sistemava con cura su di un tavolo (ché dovevano servire poi), e con gesti quasi trepidi cominciava a cavare certi bicchieri grandi, medi e piccini di cristallo iridescente e dalle fogge elegantissime di calici. Quelle cose bellissime mi tuffavano in un entusiasmo senza limiti, che proveniva da un senso estetico precoce e acuto, condito dalla fantasia di fanciullo. Eppure, a distanza di tanti anni, non ho mai più trovato, pur andandone in cerca, dei calici di cristallo di quella fatta! Essi, insieme a quei piatti e a certe formaggiere argentate e insalatiere e fruttiere... costituivano dei mirabolanti giochi d'artificio di barbagli e luccichii e iridescenze, lì, sul candore della tovaglia di pizzo stesa sul lungo tavolone che a Natale e a Pasqua si sistemava trionfante nel mezzo del salone per i pranzi di rito.

In ultimo la nonna mi porgeva una cucchiaiata di delizioso "mosto-cotto" e un po' di confettini lunghi e profumati di cannella e vainiglia. Quando richiudeva lo stipo, mi sembrava che richiudesse una specie di ciborio. Fra poco, fuori, l'aria avrebbe vibrato degli accordi armonici e potenti delle dodici campane dei tre campanili al momento solenne del "Gloria" del Sabato santo, e la nonna e le zie e la mamma e zio Elio e Pasquarella sarebbero piombati ginocchioni a terra nell'osanna a Cristo risorto, mentre lagrime di commozione avrebbero rigate le loro guance. O poesia di tempi semplici e perduti!

 

La scoperta dell'altarino

Fu in quella mattina profumata che, capitato solo nella stanza dei racconti dei "fatti" di zio Elio, l'occhio si fermò su di una porticina mascherata, dello stesso colore della parete. Prima di allora non vi avevo dato mai importanza ed era come se non esistesse, così ben chiusa e aderente al piano del muro. La curiosità mi spinse a tirate un minuscolo chiavistello e la porticina cigolò e si aprì. Uno spettacolo inaspettato si parò ai miei occhi sorpresi: mi trovai in uno stanzino mai visto, tutto indorato di una luce calda e misteriosa che pioveva dal piccolo finestrino di un abbaino con iridescenze da fiaba. L'aria dolce e tiepida stagnava immota con la staticità dei luoghi chiusi e solitari. Una strana sinfonia di odori mi avvolse tutto: odori di cose antiche, di rinchiuso pulito, di vecchia muffa, d'incenso vecchio e di rose secche... Sentii uno stordimento dolcissimo.

E vidi, addossate ad una parete, composte e dignitose come vecchie dame, quattro sedie di color verde pisello, dagli schienali altissimi e stretti, di legno intagliato con sobria eleganza; e vidi due inginocchiatoi che a prima vista sembravano degli stipetti e, in verità, li camuffavano perché, tastando qua e là e tirando, mi rimasero in mano degli sportelli... Dentro il vuoto scoperto si allineavano con cura libri di cartapecora. Erano i misteriosi libri religiosi di zio Elio! Notai anche il luccichio di piccoli tasselli di madreperla, avanzi di antichi intarsi. E vidi nella parete di fronte pendere una tenda rettangolare di sottile seta turchina. Dio mio! Rimanevo col fiato rappreso? Cosa celava mai quel gentile sipario? Tirai un cordoncino bianco penzolante da un lato e mi apparve una visione che mi riempì di estatica meraviglia. Dinanzi a me si alzava un vero e proprio altare, di proporzioni un po' più grandi di quelli costruiti da noi per gioco, ma riproducente con fedeltà amorosa tutte le loro parti. Era al disopra della mia testa: mi feci ardito e salii sopra una delle sedie, per vedere da vicino, per toccare, palpare, carezzate. Era tutto in legno il suo scheletro architettonico ed era rivestito di preziosa carta da parati di un caldo avorio con venature verdine. Sul primo piano funzionante da pietra sacrale poggiava, scendendone verticalmente, una magnifica manta di merletto bianco intrecciato di fili d'oro. Al centro del secondo ripiano il ciborio formato da un corpo rettangolare in aggetto, con regolare porticina ad arco a tutto sesto. Aprii: l'interno mi abbagliò. Era una nicchia tutta rivestita di stagnola dorata: per i miei occhi trasecolati era oro vero! E poi due file di veri e propri candelieri di legno dorato, antichissimi, piccoli e ricchi di curve e intagli barocchetti; e poi un bellissimo crocifisso al disopra del ciborio, anch'esso di legno scolpito e dipinto con maestria, cimelio di chi sa che tempo lontano, le cui piaghe rotte mi fecero paura e pietà; e poi, ai lati, il vero capolavoro: due stupendi angeli, ritagliati da chi sa quale preziosa illustrazione e sistemati sopra piedistalli di legno bianco, dalle cui cimase scendevano frange di oro intenso...

Questo era l'altarino di zio Elio! Se lo era costruito con l'amore e l'entusiasmo di un fanciullo, col rispetto e la devozione di un fraticello, con l'estro di un silenzioso artefice. Quello stanzino era il suo romitaggio giornaliero: lì si rifugiava in meditazione e nella lettura dei salmi di David e Salomone; su quegl'inginocchiatoi si piegava nella preghiera; lì il suo animo di fanciullo puro e di antico filosofo si placava in dolce misticismo, in completa solitudine. Solo il pigolio del passero o il gridolio della rondine fugace gli teneva ingenua e accetta compagnia, da dietro il vetro dell'abbaino. E quando da quel finestrino pioveva la fascia iridescente del pulviscolo di luce, investendo la piccola figura inginocchiata, forse gli angeli di carta cui mancava la terza dimensione prendevano corpo e gli sorridevano dall'alto, affettuosi e compiaciuti, come ad un vecchio amico... E gli anni rotolarono sempre più in fretta, portandosi via zio Elio, altarini e angeli di carta; e scoppiò un altro fragore mostruoso di guerra che travolse ogni cosa: scomparvero gli uomini neri, il re e un "Duce" che masse di folle osannavano e che poi appesero, ucciso, in una piazza, con la testa all'ingiù. Non si giocò più agli altari e nemmeno agli Austriaci e agli Italiani; la patria scomparve e diventò "il nostro paese" . O caro mondo semplice e ingenuo, dove sei? Il mio animo è tanto stanco e piagato, e cerca aiuto, e cerca bontà, e cerca pace in questa paurosa rediviva Babilonia di singoli e di masse.

Forse mi deciderò a costruirmi con le mie mani e con la gioia di quei lontani anni incantati un altarino, magari in miniatura, da poter tenere nascosto gelosamente in qualche cassetto; e quando l'animo sarà sconsolatamente oppresso di tristezza e di dolore, lo vorrò tirare fuori e, in assoluta solitudine, vorrò farci un muto colloquio, con animo nudo. Gli racconterò tutto ciò che mi opprime e mi fa soffrire: gli confiderò che anelo ad un vero affetto e ad una vera pace, ma che ottengo solo guerra sorda e spietata; gli confesserò che al posto del buon angelo custode spesso mi vedo vicino un fato crudele che mi ghigna beffardo...