Un Mazzo di Fruste

di Arduino Napoleone

da Palena

 

IL TASSO

 

Paesaggio

Dopo le ultime case, a sud di Palena, la strada che fa dosso aspro per un bel pezzo, ha un momento di respiro e si allunga diritta e piana, accostata al grato dell'Aventino a sinistra, mentre a destra il terreno subito si gonfia e per gobbe e piccoli colli si va a distendere, quasi a chiederne protezione, sotto la Porrara rocciosa e verticale. La visione è angusta in quel tratto e senza lontananze: a sinistra del fiume le scarpate cretose, di uno scialbo giallastro spelato paiono creature avvizzite, senza vita, una accanto all'altra, ferme nella paura e nella tristezza. Il chiarore del cielo che corre lungo le loro creste le fa diventare tetre per contrasto e le condanna a divenire una specie di muraglia da carcere, crudele nel vietare il cammino dell'occhio che vorrebbe spaziare e migrare nelle lontananze di luce. Di fronte e a destra sovrastano le pareti della Porrara che, per uno strano fenomeno prospettico, sembrano non avere profondità e affogano in uno sbassamento che angustia il respiro.

Tutto è fermo, silente e una cupaggine misteriosa cala sulla strada bianchiccio di polvere da quelle masse scure che la rinserrano e la opprimono. Nella bella stagione, alla luce del tramonto, che in quel punto giunge senza forza e immelanconita, spunta da lontano la macchia bruna dell'asino nel mezzo della strada: gli grava sul basto la gran mole di "ceppe" secche e il suo testone biforcuto di lunghe drizzate orecchie sembra, nello smagarsi delle immagini nella lontananza, uno strano totem barbarico. Dietro va il contadino stanco e solitario, muto e rassegnato alla sua sorte giornaliera. L'asino lo conduce; tutti e due tornano verso casa, dopo esserne partiti all'alba, l'uomo per andare a far legna nei grandi boschi che spaziano al di là di quelle quinte cupe che sbarrano la vista, la paziente bestia per aiutarlo a riportarla. La roncola pendente dietro le reni dell'uomo segue il ritmo dei suoi passi ondeggiando come un pendolo.

Questa era la visione più ricorrente che offriva quella strada nel passato. Oggi l'asino e il contadino vanno e tornano per la stessa strada, ma più rari: automobili e pesanti autotreni rombano di continuo per i due versi, rompendo quella pace antica e lontana che la macchina odierna può disturbare e offendere, ma che non riesce a distruggere. Per quella strada mio padre conduceva me e le sorelline, quando eravamo ragazzi, per la passeggiata del vespero, tanti anni fa. Ricordo con dolce nostalgia come uscivamo di casa tutti ordinati ed agghindati dalle mani affettuose della mamma. Ricordo che in quelle circostanze le sorelline indossavano vaporosi vestitini di merletti chiari, opera della mamma che li faceva la sera, lavorando di uncinetto con tanta maestria. Ricordo i cappelli di paglia sotto i quali si pavoneggiavano con ingenuo candore quei soldi di cacio di cinque o sei anni. La mamma e il babbo li facevano venire da "Gutteridige" da Napoli e il nome di questa antica ditta l'ho sempre negli orecchi da quella tenera età. Io, poi, ero inguainato in un vestito di seta a maglie color tabacco chiaro: anche questo me lo aveva scelto la mamma. Io me lo covavo con gli occhi. La gente salutava con cordiale rispetto mio padre e spesso si fermava, soprattutto le donne, a farci complimenti e carezze.Mi colpivano soprattutto le espressioni materne e piene di spontanea sincerità di certe vecchierelle che avevano la faccia della sapienza degli umili. Mio padre s'appuntiva i baffoni con un sorriso compiaciuto e nervoso.

Quando si riprendeva a camminare fuori delle ultime case, egli ci parlava come ad amici, illustrandoci la natura e raccontandoci storie che tanto mi affascinavano con un calore e una pazienza che a distanza così lunga di tempo appaiono commoventi; allora la passeggiata col babbo era cosa ambita e ricca di attrazioni: era il divertimento, l'evasione, la bella distrazione.

La casa misteriosa

Giunti all'inizio del rettilineo, scorgevamo in fondo a sinistra, nello stretto rettangolo di terra che lambiva il greto del fiume, una casa rustica e solitaria di un rossastro scolorito macchiato di muffa verdastra. Man mano che avanzavamo, i suoi contorni si stagliavano con più evidenza e si vedevano le imposte scolorite e corrose delle finestre, sempre chiuse, la porticina di accesso stinta nel verdino ingrigito dal tempo, al di sopra di tre o quattro gradini, anch'essa sempre chiusa. Innanzi alla facciata principale, verso la strada, si disegnava, sul terreno scuro, un lastricato quadrangolare, i cui lastroni di pietra calcarea erano scompartiti dai fili d'erba che si drizzavano fra le loro connessure e dai luccichii freddi delle loro smussature. Il chiarore di quelle basole era una nota gentile e sapeva quasi di un sagrato di vecchia chiesa fuori mano, ma non riusciva a dare calore a tutta la visione che spandeva la malinconia delle cose abbandonate e solitarie.

Nei nostri animi di bimbi quella casa così sola, così muta e senza vita, dentro e all'intorno, era per noi un personaggio misterioso che in quell'ora di tramonto incuteva quasi paura. La casa era chiamata "IL TASSO". Il suo nome così inconsueto destava un'infinita sensazione di inquietudine e di timorosa curiosità: quella parola era il nome di un uomo che l'aveva abitata in un lontano passato. Ci fermavamo ad osservare la casa; mio padre ci faceva sedere su di un rialzo erboso del ciglio della strada e, dietro le nostre insistenze, iniziava il racconto della storia del Tasso. Noi pendevamo dalle sue labbra. Erano i tempi della fanciullezza di mio padre e la vita scorreva densa di lavoro per i contadini e per i numerosissimi artigiani. La terra lavorata con amore e gran sudore dava generosa i suoi frutti: cereali, legumi, patate e i magnifici vini delle tante vigne di allora riempivano le case dei loro sani e puri sapori. E i patriarcali camini rosseggiavano della calda fiamma crepitante dai ceppi di faggio e di quercia che abbondavano e che i ben folti boschi donavano all'accetta e alla roncola dei contadini, senza riserva e divieti di sorta.

E ferveva l'opera industre dei fabbri, dei falegnami, dei muratori e scalpellini, di geniali vasai, di cappellai e fornaciai, di sarti e bravi orefici, di scarpari filosofi satirici, di bottegai, di osti e albergatori, di tavernai e cantinieri, di vetturali e carrettieri rudi, rissosi e gran bevitori. Ferveva la vita religiosa bene coltivata dai ventidue preti dell'antico clero; rombavano i tre organi delle tre magnifiche chiese insieme alle meravigliose campane dei tre campanili in un susseguirsi di riti e feste solenni. Ferveva la vita spirituale nelle case e palazzotti signorili, nei convegni letterari e di poesia dialettale, nelle lunghe permanenze nell'antico teatro "Aventino" di ottime compagnie teatrali, nelle esecuzioni ricorrenti della famosa banda di Palena, nella orchestra filarmonica comunale: insomma la vita scorreva felice come nei racconti di fiabe... A tutto questo fervore di vita della comunità sovraintendeva il numeroso gruppo di signori di antiche Casate, alcune veramente di nobile lignaggio, ottimi professionisti, ammirata decorazione del paese, tutti più o meno benestanti o arricchiti nei tempi passati magari accumulando beni e terre tolti agli umili per insolvenza di debiti: dominavano, ad ogni modo, la vita del paese nell'amministrazione comunale, negli indirizzi politici e sulle coscienze dei popolani; al loro apparire nelle strade, in stiffelius e cilindro e bastoni dai manici preziosi, con a fianco le loro signore altere in code fruscianti, mantelline e gran cappelli piumati, era un volteggiare di mani nella scappellata di prammatica, rispettosa e timorosa, della gente più umile.

Le loro figure dovevano parlare ancora un linguaggio feudale anche se addolcito di convenzionale paternalismo. Il brutto era quando l'umile che si trovava in ristrettezze, o addirittura in istato di povertà, doveva ricorrere a qualcuno di loro; allora strideva il contrasto fra la sorte amara da una parte e la fortunata dall'altra: allora la schiena dolorante di fatica si curvava nel chiedere, le mani incallite, e non abituate a movimenti e gesti mondani ed eleganti si sforzavano goffamente di assumerli nella richiesta di un aiuto, di un prestito, anche a pesanti condizioni. Questo gesto spesso era l'unico modo di uscire da una penosa situazione e, per forza di cose, da farsi verso i "signori" che avevano la possibilità di imporre le condizioni per il loro aiuto. Ma vi erano anche altre fonti di aiuto: vi erano persone che prestavano danaro a usura, con discrezione e in segreto, oppure apertamente, ma chi faceva così era per lo più forestiero, di paesi vicini. Uno di essi aveva l'abitudine di farsi vivo nelle vigilie di feste e nelle fiere ricorrenti: aveva l'aria di essere venuto a trattare la vacca o il porco lì dell'Aia degli Zingari, affollata di bestie, di contadini, di sensali; ma il suo occhio era intento a pungere di luce fredda la massa dei villici, fino a quando non scopriva l'infelice debitore.

L'uomo detto "il Tasso"

Si diceva che anche un'altra persona, reputata molto danarosa, prestasse soldi ad alti interessi, ma non ci si poteva giurare perché nessuno aveva prove e, d'altro canto, un fitto e silenzioso mistero avvolgeva lui e il suo modo di vivere: lo chiamavano "il Tasso" ed era un bell'uomo forte e nero di capelli. I suoi occhi neri parevano affondare in lontananze misteriose nel cavo profondo delle orbite, sotto la gronda fosca delle sopracciglia e concedevano poco spettacolo di sentimenti, abituati com'erano a sfuggire all'indagine curiosa del prossimo, rifugiandosi in una calma immota e impenetrabile. L'ala funebre del cappellaccio a cencio contribuiva a gettare mistero con la sua fetta d'ombra su quel viso glabro, olivastro, teso nella pelle aderente, fine ed asciutta sull'armonica architettura ossea. Mistero reso ancor più affascinante da un coesistere di caratteri contrastanti, come l'impenetrabilità dello sguardo e la sensitiva vitalità del naso fine e adunco; come la bellezza raffinata della maschera facciale, fatta per essere ammirata e la fosca cupaggine di una barba biblica, nera, lunga fino allo stomaco, che pareva avesse il compito di spaventare e distrarre l'attenzione dai tratti somatici, avvolgendoli in un'ombra che incuteva paura. Non era del paese, era forestiero e si diceva proveniente da quel di Agnone, nel Molise. Che facesse non si sapeva esattamente, ma genericamente egli si professava dedito agli affari.

Non aveva famiglia, era solo e viveva ritirato e senza contatti, da misantropo solitario, chiuso nella sua casa isolata, lontana dall'abitato, lì in quella zona triste e senza vita sul greto del fiume che, nel silenzio vasto della sera e nelle notti fredde e brumose d'inverno, gli teneva compagnia con il monotono sciacquio dell'acqua gonfia di pioggia. Altre voci misteriose gli parlavano in quelle ore buie ed erano i lugubri stridi delle civette e i lamenti gutturali dei gufi annidati negli anfratti delle rocce. Era solito apparire in paese alla calata del sole: schivo, intabarrato in un'ampia cappa nera se era inverno, funereo nel fosco brunastro del cappellaccio a cencio e del viso nascosto in buona parte da quello e dal bavero rialzato del mantello. Si recava, il più delle volte, nella bettola di "Minorchie" in un angolo della piazzetta del Rosario, famosa per le sue succulente padellate di trippa, di baccalà, di arrosti di agnello e lì, nell'angolo più appartato possibile, consumava il suo desinare accompagnandolo con un vino fermentato forte e asciutto che era l'orgoglio dell'oste: questi e il Tasso facevano un contrasto evidente l'uno vicino all'altro; "Minorchie" sbracato, accaldato dai fornelli e dalla fiamma del camino, con due occhi mobili grossi e tondi, rossi di cronica congiuntivite, cui tenevano compagnia il rosso fuoco dei due pomelli: era tutto affaccendato e desideroso di attaccare discorso per dare sfogo al suo bisogno di sparlar del prossimo; il Tasso, funereo, dalla pelle fredda e pallida, il viso avvolto dalla fascia nera dei capelli e della grande barba, pareva uno di quei personaggi tetri di scuola caravaggesca, ricavato tutto nel tenebrore dei capelli, degli occhi, della barba, degl'indumenti e dell'angolo in cui si compiaceva cacciarsi.

Le sue parole erano poche, le necessarie per stare in una bettola ove bisognava pur chiedere questa o quella vivanda. L'oste, di temperamento irascibile e nervoso, dopo qualche inutile tentativo, lo lasciava al suo silenzio: tanto, a pagare pagava e bene. Dopo aver mangiato, l'uomo nero pagava in silenzio e usciva seguito dallo sguardo infuocato di Minorchie e dai commenti degli avventori, alle prese con i mezzi litri. Appena fuori, si riavvolgeva nella sua grande cappa e tutto solo, com'era venuto, riprendeva la via del ritorno. Dopo le ultime case, la sua figura di fantasma nero veniva inghiottita dal mistero della notte. Lo aspettava la casa muta, lo sciacquio del fiume e il lamento dei gufi.

Il delitto

In una di quelle notti, mentre, giunto sul lastricato, saliti i pochi gradini, col gesto abituale girava la grossa chiave nella toppa della serratura per aprire la porticina di casa, il tuono di una schioppettata lacerò improvviso l'aria greve e fonda: il Tasso era stato colpito alla schiena; ebbe la forza di voltarsi, nel tentativo disperato di cavare dal panciotto la pistola che portava sempre con sé; ma un'altra schioppettata lo raggiunse in pieno petto e cadde stecchito. I colpi omicidi erano partiti da una siepe di fronte, sui ciglio alto a destra della strada. Nessuna persona poté dargli soccorso perché nessuno udì niente e giacque sulle fredde basole del lastricato, solo, col suo sangue, con la sua morte, con la sua solitudine: solo i gufi e le civette, attirati dall'odor del sangue, furono le sue prefiche e le sole voci che piansero la sua morte, mentre lo sciacquio del fiume assumeva toni salmodianti di un sommesso ufficio dei morti. La sua fine non fu conosciuta subito in paese: la gente era abituata alle sparizioni improvvise dell'uomo strano e non fece caso nemmeno quella volta alla sua scomparsa.

I giorni passavano uno dietro l'altro e tutto procedeva nel modo consueto: i contadini che transitavano all'alba per quella strada col fedele asino, diretti al bosco, davano un'occhiata distratta alla casa del Tasso e vedevano la porticina chiusa; al ritorno, verso sera, il loro sguardo, appannato dalla stanchezza, notava la porticina sempre chiusa, le finestre sempre sbarrate, la solitudine e la mancanza di vita sempre più complete. In un mattino chiaro e freddo, mentre il sole ancora invernale si sforzava di lanciare un po' di calore su quella zona della casa isolata, due pastorelli si fermarono con il loro gregge di pecore sul piccolo spiazzo erboso prospiciente l'edificio. Le pecore, intiepidite dal sole, brucavano l'erba con calma innocente e i pastorelli, appoggiati alle lunghe mazze, le osservavano in silenzio ...........