Questo spazio è aperto al contributo di tutti i navigatori di "Viaggio nella Memoria". Chiunque voglia contribuire ad esso sarà il benvenuto. Tutti coloro che hanno un ricordo di Palena, un aneddoto del passato, una poesia, un qualsiasi racconto che abbia attinenza con le emozioni e le passioni che la terra di Palena ha potuto lasciato in ognuno, può inviare alla casella postale di seguito indicata il proprio scritto che sarà efficacemente inserito in questo libro virtuale che nelle intenzioni dell'autore di questo sito si desidera che diventi una apparentemente silenziosa piazzetta in cui invece si potranno incrociare le emozioni, i ricordi, i piaceri, i dispiaceri, i tormenti, le felicità di chi vuol lasciare una semplice testimonianza che sia di beneficio per tutti. Grazie

 

INVIATE QUI I VOSTRI CONTRIBUTI:
 
 
da Laura, palenese di Milano.
IL MIO GIARDINO SEGRETO.

Io ho un giardino segreto.
Quando sono triste o malinconica è li che corro.
Per nascondermi dalla realtà che mi circonda.
E' il mio paradiso, e nessuno può entrarci a meno
che io non lo voglia.
Li mi sento protetta, capita, in pace col mondo.

Io ho un giardino segreto.
Ha angoli nascosti anche per me.
Tutte le volte che varco il suo cancello d'entrata,
sono sempre presa a contemplare cio' che gia conosco,
come se fosse ogni
volta la prima volta...
che non faccio mai in tempo a esplorarlo completamente.
Vorrei addentrarmi in quei folti cespugli di rose, che
nascondono con le loro spine, forse la parte piu bella,
più mistica, più romantica di tutto il giardino......

Io ho un giardino segreto.
Li' sono me stessa, non ho bisogno di fingere.
Da li le montagne sembra che ballino tutt'intorno....
L'orologio della torre non lascia mai correre il tempo....
Ma io so che devo andare, non posso rimanere.
Almeno per ora.

Io ho un giardino segreto.
Diventerà la mia casa un giorno.
Cosi' potro' curare le mie rose, e sentirmi felice
di vivere... col mondo intero, ma soprattutto con la mia anima.

Laura

da Laura, palenese di Milano.


Potrò piangere come una bambina 
Potrò gridare, tacere, chiudere
gli occhi aperti alla ferita

Ma non potrò dimenticare:

Le luci passeggiando per il corso
i sentieri girando la collina
un paesaggio senza freni alla bellezza,
alla pazzia: Palena.

I Fuochi la notte di S.Falco,
le nostre chiacchierate fino all'alba,
una scia  di  note si diffonde nell ' aria.

Nella notte, la visione dal castello
ed il romanzo negli  occhi della valle.

Sarà la dimenticanza un oltraggio all'oblio?

Se le montagne 
assistono ancora agli eterni addii
e la melodia non cessa, la sua nostalgia…. 
Se il tuo essere pace, il tuo essere un ricordo, e  tranquillità,
alla mia bocca reclama ancora
le sue intime carezze
è solo perché…
nel mio cuore hai trovato cornice perfetta della tua tela.

Lontano già' dalle sorgenti.. dalle montagne e da quel cielo
nel fuoco di tutte le candele
le parole rimasero scritte.

Con amore Laura.


 

da Laura, palenese di Milano.


RITORNO

L'auto corre tra le gallerie,
con la fronte appoggiata al finestrino, freddo,
fisso le montagne
si allontanano….
Il palmo della mano , raggiunge  il vetro 
Lo faccio scivolare
Come se accarezzassi  quello che i miei occhi stanno fissando da ore..
Come se scivolasse via… dalle mie mani e non facesse più parte di me..
Tutto questo è triste, perché mi sento cosi'…
Sara' amore?
Sara' ricordo?
Non so cosa sia,
so solo che lo porto dentro con me sempre,
ad ogni ritorno.

 Laura.

 

da Laura, palenese di Milano.

IMMAGINI NASCOSTE

Le cose che non si vedono
non sono fantasmi
sono segreti letarghi della vita
tragitti che non si capiscono
movimenti della quiete
maschere dal niente.

Le cose che non si vedono
non sono assenze
sono presenze deformate
balli fuori di compasso
pennellate di colori bianchi
gocce scivolando nell'acqua.

Le cose che non si vedono
si conoscono senza guardare
si palpano dentro il corpo
si proiettano
nel disegno di un'altra realtà.

Le cose che non si vedono, 
si sentono dentro, impresse nell'anima
rimangono… una vita, 
per sempre, come una cicatrice, 
ogni qual volta la si guarda , 
ricorda tutta la sua storia.


Palena. Io non ti vedo, ma ti sento dentro.


 Laura.

 

da Ilaria, da Milano.

  Cario diario, 
  quest'estate ho girato un pò e tra i posti visitati c'è Palena, un piccolo 
  paesino in provincia di Chieti che fa parte del Parco Nazionale
della Maiella. Palena è una località montana abbastanza antica, che ha poche strade e la gente si concentra sopratutto lungo il corso e nella piazza.
Essendo circondata dagli Appennini Abruzzesi un giorno abbiamo deciso di andare a visitare una riserva naturale di camosci in un piccolo paese non
molto distante da Palena. E' stato molto bello, perchè su quelle montagne siamo riuscit a vedere senza difficoltà, un branco di camosci che si rincorrevano, dato che li montagna è abbastanza brulla o con qualche arbusto. Qualche giorno dopo abbiamo deciso di andare al Parco Nazionele d'Abruzzo, ci siamo fermati dapprima a Villetta Barrea ed abbiamo ammirato il suo bellissimo lago, suggestivo, in quanto nelle sue acque verdi si riflette il paesaggio circostante, quasi come fosse uno specchio.
Le case che si riflettevano su di esso erano tutte piccole ed avevano colori chiari. Successivamente siamo andati a Civitella Alfedena dove c'è la riserva del lupo ed il museo. Qui abbiamo preso il cavallo e siamo andati fino alla camosciara, risalendo un torrente. La tappa successiva del nostro giro è stata Scanno, un paese molto antico, dove si possono vedere le donne che indossano ancora abiti tradizionali e lavorano il tombolo sedute davanti alla porta delle loro case.
Una volta scesi dal paese ci siamo fermati al lago di scanno e abbiamo fatto
un giro sul pedalò. Nella strada di ritorno abbiamo potuto ammirare il bel paesaggio circostante e le gole del Sagittario, anche se in quel posto la strada era veramente stretta. L'ultima sosta l'abbiamo fatta a Sulmona, dove abbiamo visitato lo stabilimento di Mario Pelino, il più famoso produttore di confetti nel mondo. Dopo qualche giorno di riposo sono andata lungo il fiume ad ammirare i girini e le zanzare d'acqua, a raccogliere le more nei prati circostanti e sono andata a mangiare in una splendida pineta.
Pochi giorni prima di partire, infine, ho partecipato insieme a mio papà ad una escursione guidata sul monte Porrara, dove abbiamo raggiunto la cima
a 2186 metri, dopo aver camminato per ben sette ore. Per arrivarci abbiamo seguito un sentiero strettissimo, che a volte spariva e dovevamo arrampicarci sui sassi. Abbiamo attraversato diversi pascoli, rallegrati dalla presenza di mucche,
pecore e capre al pascolo. Ora che sono tornata a Milano, mi rimane solo il ricordo di questi bellissimi luoghi, anche se sono sicura che tornerò per l'ultimo dell'anno e mi farà un'impressione completamente diversa.

Ilaria FERRARA

 

 

"LE MIE BANDIERE"... La storia della vita di un palenese....

Artemio Tocco, un figlio di Palena, che ha conosciuto le immense privazioni degli anni della povertà, le tragedie della guerra, la fame degli anni giovanili ma anche la poesia e le irripetibili sensazioni della giovinezza nella Palena di tanti anni fa, ha scritto queste stupende pagine che raccontano semplicemente e senza ipocrisie e retorica, gli anni della memoria. Artemio Tocco dovette abbandonare, nei primi anni '50, per bisogno, la sua amata Palena che non era riuscita a dargli nè un lavoro, e né un pò di benessere tanto agognato. Ma Artemio non ha mai saputo dimenticare la sua terra e le sue origini e, pur nella lontananza dell'incredibile viaggio che lo ha portato dagli USA fino alla lontana Australia, il bisogno di ritrovarsi in quei ricordi struggenti, dolorosi e felici degli anni della giovinezza, è prevalso a dispetto di tutto. Il suo italiano, ripercorso dopo decenni di abbandono, alle volte ruvido ma stupendamente sincero e immediato contribuisce a fare di queste pagine, che sono solo un estratto del suo libro, una eccezionale e commovente testimonianza delle esperienze di coloro che pur amando la terra di Palena hanno dovuto lasciarla per trovare nell'emigrazione la speranza di una vita migliore. Nando Napoleone

 

Le mie Bandiere

Ora che sono alle soglie della vecchiaia, ho sentito il bisogno di mettere insieme queste modeste pagine per raccontare ai figli la storia della mia movimentata, travagliata, ma anche felice esistenza. Fin da giovanetto ho dovuto lasciare il mio amato paese per andare a cercare lavoro in altre parti del mondo nella difficile condizione di emigrante. Ho giurato fedeltà alla bandiera degli Stati uniti d'America, il paese che mi ha dato la dignità di lavorare e a quella dell'Australia, la terra che considero mia seconda Patria e che mi ha dato il benessere e la serenità .

Ma la bandiera che porto e porterò sempre nel cuore, e' quella della mia cara Italia, che mi ha dato i natali e la nobiltà dei sentimenti.

 

Grazie Artemio !

 

Gli anni '30

Penso sempre con gran nostalgia a quell'età di spensieratezza ed innocenza: anche se c'era molta miseria, tutto ci sembrava più bello e più buono. Ricordo le solenni feste di San Falco, la veglia di Natale, la processione del Venerdi Santo e tante altre feste. Il due luglio si andava in pellegrinaggio alla Madonna dell'Altare. Uomini, donne e bambini si alzavano all'alba e s'incamminavano per la lunga e polverosa strada dei Tre Ponti. Quando arrivavano a San Cataldo, alcuni riempivano una borraccia d'acqua alla bella fontana, altri rivolgevano lo sguardo alla chiesetta sulla collina e si facevano il segno della croce. A "Capo di Fiume" imboccavano il ripido e tortuoso sentiero in mezzo al bosco; per giungere in cima al monte, dove, su una roccia a strapiombo, si erge il piccolo e storico Santuario. Qualcuno procedeva a piedi nudi, invocando grazie alla Madonna e tutti cantavano "Evviva Maria, Maria evviva, evviva Maria e chi la creò..."

Oggi più nessuno si reca in pellegrinaggio a piedi fin lassù. Da alcuni decenni hanno costruito una comoda strada asfaltata, che si stacca dalla via della stazione e arriva fin sul piazzale del Santuario, dove la gente si reca in macchina, non tanto per devozione alla Madonna, ma per andare a mangiare e bere in "scampagnata". Ma le festa che più affascinava era il Santo Natale. La notte della Vigilia mettevamo nel camino un grosso ceppo d'albero ("i tuicchie") che doveva restare acceso ventiquattro ore perchè doveva venire a scaldarsi il Bambin Gesù. Alla Vigilia c'era la messa di mezzanotte ed io non riuscivo a stare sveglio fino a quell'ora. Ad un certo punto sopraggiungeva il sonno e mi andavo a ficcare fra le gelide lenzuola del letto, portandomi dietro, come scaldino, un mattone fatto arroventare nella brace del focolare e avvolto in un panno di lana.

La mattina di Natale mia mamma si alzava prestissimo per fare i "fritti" ed io ero l'unico ad alzarmi con lei per assaporare la bontà dei primi usciuti dalla padella di olio bollente. Caldi caldi, con un pizzico di zucchero sopra, i "fritti" mi sembravano i dolci più buoni del mondo e debbo dire che ancora oggi li preferisco ai delicati dolciumi, che si trovano in commercio. Alcuni giorni prima di Natale arrivavano gli zampognari, che con le loro cornamuse portavano un po' di gioia nel paese. Dopo tanti anni, ho ancora nelle orecchie il dolce suono del famoso canto "Tu scendi dalle stelle, ò Re del cielo; e vieni in una grotta, al freddo e al gelo...". Io credevo che la grotta fosse la nostra casa e la notte della Vigilia sognavo il Bambinello che veniva a scaldarsi... Al pranzo di Natale avevo sempre pronta la letterina che la maestra ci aveva dettata per i genitori. Senza farmi notare, la mettevo sotto il piatto di mio padre, con la speranza di ricevere qualche soldo per andare a comperarmi un torroncino, che a me piaceva tanto. Tatà la leggeva ad alta voce e mi rivolgeva un bel "bravo!", senza però tirar fuori il portamonete, forse perchè era vuoto... Quel giorno si mangiava finalmente bene: un buon piatto di pastasciutta, un po' di carne di maiale, qualche arancia, i "fritti" e qualche bicchiere di vino per tatà...

Il sei gennaio veniva l'Epifania, che allora avevano ribattezzata "Befana fascista". La sera prima i bambini appendevano la calza sotto il camino, con la speranza di trovarci dentro qualcosa di buono il mattino dopo; se durante l'anno fossero stati bravi. Io dovevo svuotare mezza calza da carboni, cipolle e peperoncini, prima di trovare qualche arancia, una manciata di fichi secchi, alcune castagne e raramente qualche "gianduia". Eppure, non mi sembrava di essere stato cattivo durante l'anno. Era un fatto di miseria, e basta.

Un'altra festa indimenticabile era la Pasqua. Alla solenne processione del Venerdi Santo partecipavamo anche noi ragazzi, vestiti di tonache bianche e con corone di spine sulla testa. Anche gli uomini indossavano una tonaca bianca e avevano in testa un cappucio con i fori per gli occhi e per il naso; mentre le donne erano vestite di nero. Si procedeva in doppia fila, cantando il "Miserere" ed altri inni sacri, e oltre al Clero e alle Autorità, alla processione partecipava mezzo paese: vecchi, bambini, uomini e donne di ogni ceto sociale. Tutti commossi dietro la bara di Cristo e la triste statua della Madonna. Il personaggio che ricordo di più era "Gaetano il cuoco", che precedeva la bara con un grosso tamburo e scandiva il passo lento della processione. Nelle varie "stazioni" si faceva sosta e si pregava e quando la processione arrivava in piazza, l'arciprete Don Peppe (Don Giuseppe Napoleone) commuoveva tutti con un'appassionata predica.

Anche il giorno di Pasqua era una pacchia per noi bambini. Appena le campane annunciavano la Resurrezione, si poteva subito mangiare la frittata e a mezzogiorno si pranzava con pastascuitta e carne, possibilmente di agnello o capretto. Con la pizza alle uova (la Pizz' coll'ove"), si preparavano anche dolci speciali. Ai maschietti si faceva il "castello", che era una specie di ciambella a ferro di cavallo e abbellita da uova sode e caramelline colorate, mentre alle femminucce si faceva la "pupa", che di solito imitava le fattezze di una bimba con le trecce e con chicchi di caffè al posto degli occhi, la bocca e il naso. Ci facevamo delle grosse abbuffate e ci si gonfiava la pancia come un otre, anche perchè ci bevevamo dietro molta acqua per spegnere il bruciore del peperoncino; ma dopo qualche ora, sentivamo ancora fame, perchè la polenta gonfia, ma è di poca sostanza. Certo, quando si poteva condire con salsicce e formaggio, era tutt'altra sinfonia; ma noi raramente potevamo permettercelo, perchè non eravamo neanche in condizione di allevare qualche capretta o il maiale....

 

Fine anni '30, l'eco dalle chiese...

A Palena c'erano e ci sono tuttora delle belle chiese. Le più importanti sono quella di San Falco, quella della Madonna del Rosario e quella di San Francesco; tutte non lontane dalla piazza. Quella di San Falco fu bombardata nell'ultima guerra e rimase miracolosamente in piedi soltanto il suo possente campanile, munito di enormi e bellissime campane, che ancora oggi annunciano ai paesani le funzioni religiose e i vari momenti della giornata. Ricordo che il mattino presto suonavano il "mattutino"; verso le otto e mezza una campanella segnalava l'ora di entrare a scuola e alle nove tutte annunciavano la Santa Messa. Verso sera rintoccava "ventun'ora" (ventunoure) e molti andavano in chiesa a pregare, mentre tante donne, sedute davanti alle loro case, si rivolgevano a Dio facendosi il segno della croce.

Quando suonava il "Vespro" i contadini lasciavano i campi e incominciavano il lento ritorno verso casa con le bestie cariche di fieno, di covoni, di patate o di legna, a seconda la stagione; e branchi di pecore e mucche tornavano dai pascoli montani con il loro tipico scampanellio. Le capre ritrovavano da sole la strada delle stalle, davanti alle quali le padrone le attendevano per mungerle. I comignoli delle case incominciavano a cacciar fumo e per l'aria si spandeva l'odore di aglio, di cipolla e peperoncino, che facevano sempre parte del condimento dei nostri pasti. A quell'ora sentivamo la mamma chiamarci dalla finestra per annunciarci che era pronta la cena. L'ultima campana suonava "un ora di notte" quando di solito si finiva di mangiare e le donne erano indaffarate nelle faccende di casa. Subito dopo gli uomini uscivano e si radunavano in piazza, dove si raccontavano l'accaduto della giornata. Qualche burlone come "Bacocch" diceva quattro "fregnacce" per mettere un po' di buon umore e poi magari si andava tutti all'osteria a fare una partitina e a bere un bicchiere di vino. I giovani passeggiavano su e giù per il corso canticchiando un motivetto e sbirciando qualche dolce fanciulla; mentre noi ragazzi scorrazzavamo chiassosi e felici per tutte le stradine del paese, senza alcun timore che qualcuno ci rimproverasse o ci facesse del male. Ma erano altri tempi!

 

1941, i ricordi della vita in montagna...

Nel 1941 non fui promosso alla terza elementare, non perchè fossi somaro, ma perchè non andavo quasi mai a scuola. La maestra mandava biglietti a casa, pregando i miei genitori di farmi frequendare, ma il bisogno di andare a procurarmi qualcosa da mettermi sotto i denti, era più impellente di quello di andarmi ad istruire. Alla fine dell'anno scolastico, tatà mi mandò con Guido in montagna a lavorare presso degli allevatori forestieri. Mi davano una sciocchezza, ma il mio lavoro non era pesante e mi piaceva. Dovevo alzarmi all'alba tutte le mattine e andare a ritrovare, radunandoli, venti cavalli sparsi per i vasti pascoli dei monti. Quanto riuscivo a mettergli in branco, li conducevo ad abbeverare ad una sorgente giù nella radura, vicino alle capanne dove dormivamo. I cavalli si gonfiavano d'acqua fresca e ripartivano trottorellanto e nitrendo, per i pascoli. io quasi mi divertivo a fare questo lavoro; però avevo un po' paura di girovagare solo per quegli sterminati spazi.

Certe volte mi pareva di scorgere la sagoma di un lupo fra i cespugli in cima ad una collina. Il primo istinto era quello di arrampicarmi su un albero o impugnare un bastone per difendermi. Quando poi, facendomi coraggio, mi avvicinavo, costatavo che si trattava di un masso scuro o di un cespuglio che si muoveva alla brezza mattutina. Piano piano diventai coraggioso e mi muovevo con sempre più disinvoltura in mezzo a quei vasti pascoli e fitti boschi. All'alba vedevo spuntare il sole, rosso e grande come una ruota di carretto. Spesso mi sedevo su un masso e lo rimiravo, fino a quando si alzava sull'orizzonte, diventava sempre più abbagliante e non potevo più fissarlo. Di giorno andavo alla sorgente a riempire recipienti d'acqua che serviva da bere e cucinare la sera.

Quando pioveva aspettavo con ansia l'arrivo di Fra Teodoro. Questi era un eremita che stava in una povera casetta sul valico di Coccia. Scendeva spesso in paese con attracollo una grossa bisaccia dove poneva le elemosine. Lentamente tornava poi sul monte, pregando o parlando da solo e intrattenendosi con i contadini e i pastori, che incontrava. Era un uomo semplice e buono e in paese lo consideravano tutti un po'matto per la vita che aveva scelta. Faceva continue penitenze e si alzava anche la notte per pregare. Spesso i pastori lo sentivano parlare ad alta voce, invocando Dio. D'inverno sul monte Coccia cadevano anche due metri di neve e Fra Teodoro rimaneva su fino a primavera, quando scendeva in paese per farsi vedere ancora vivo. Voleva imitare la vita di San Falco e aveva incominciato anche a costruire una chiesetta la cui campanella si sarebbe messo a suonare quando sarebbe morto. Povero Fra Teodoro!

Si spense alcuni anni dopo la guerra, senza aver terminato la chiesetta e lontano dall'amato monte Coccia. I pastori con i quali ero io lo mandavano a chiamare quando era piovuto molto ed era entrata acqua nelle capanne. Fra Teodoro era un maestro per riparare il tetto di queste nostre povere dimore. Con una zappa tagliava delle larghe zolle (teppe) di terra ed erba dal prato e le poneva rovesciate sul tetto delle capanne facendo molt'attenzione alla pendenza e alle tracce lasciate dall'acquazzone precedente. Poteva semprare un lavoro semplice, ma non era così; solo quando le riparava Fra Teodoro nelle capanne non pioveva più. Quando era sul tetto io lo rimiravo da sotto e mi semprava gigantesco con la sua lunga tonaca marrone, il cordone bianco legato alla vita e con i piedi nudi nei sandali. Mentre lavorava ci dava consigli o ci parlava di Dio rivolgendo spesso lo squardo al Cielo. Quando gli chiedevo se dopo morto sarebbe andato in Paradiso e se avrebbe pregato per me, accennando con la sua scarna testa mi rispondeva: - Certamente, ragazzo mio, certamente...

I pastori tornavano giù e facevano la conta delle pecore, che rientravano nello stazzo belando continuamente, mentre cercavano i propri agnellini. Poi si mettevano a mungere e riempivano grossi secchi di latte; ma il formaggio lo facevano il mattino. Io incominciavo già a leccarmi le labbra, perchè mi piaceva molto la ricotta e non parliamo poi del "caciotto"... Appena finito di mungere accendevano il fuoco fra due grossi sassi e si mettevano a cucinare. Preparavano quasi sempre pastasciutta con formaggio, che non mancava mai, e ci rifocillavamo leccandoci le labra. Erano delle brave persone e mi trattavano bene: in fin dei conti, erano anche loro dei poveri lavoratori. Dopo mangiato ci mettevamo intorno alla brace e i pastori intonavano sottovoce canti di montagna e d'amori lontani... La luna splendeva nel cielo stellato, il canto dei grilli e le raganelle, facevano una musica incantevole, e un fresco venticello che semprava d'accarezzarci. Poi veniva l'ora d'andare a coricarsi, stanco sul misero giaciglio ("la rapazzèule"), fatta di frasche, con sopra qualche mantellina o qualche pastrano da militare, che facevano da coperta. Si dormiva profondamente fino all'alba, sognando la famiglia lontana, la mamma, la sposa ...... In autunno quando i pastori portarono le pecore in Puglia percorrendo gli antichi "Tratturi" non faceva la neve, la temperatura era mite e l'erba cresceva anche d'inverno. Sarebbero tornati sui nostri mondi in primavera inoltrata. Guido andò con loro, mentre io ridiscesi in paese, con la speranza di iscrivermi a scuola e poter frequentare.

 

1943, ... incontro ai terribili giorni della guerra

Il 4 novembre 1943, i tedeschi diedero lordine che tutti dovevano sfollare. Gli abitanti di Palena dovevano abbandonare le loro case e avevano tre giorni di tempo per farlo. Ci fu una grande confusione generale, perchè nessuno sapeva cosa fare: c'era chi pensava di dirigersi verso il Nord, chi nei paesi vicini già occupati dagli alleati, ed altri scelsero di rimanere nascosti in paese, in qualche casolare in aperta campagna, consapevoli del rischio di questa scelta. Ma dove avrebbero potuto nascondere le povere cose che non potevano portare con loro? Allora ci fu chi incominciò a murarle in un granaio, chi a nasconderle in una grossa buca scavata nella stalla, chi in qualche grotta in campagna; insomma, ognuno pensò di salvare il più possibile per poterlo ritrovare una volta finito la guerra.

Parecchi individui, quelli con tanto di pelo sullo stomaco, restarono a Palena e diventarono collaboratori dei tedeschi. Portavano una fascia nera al braccio per essere riconosciuti e si rivelarono i peggiori nemici dei palenesi. Conoscevano i posti, i nascondigli, ogni località del paese e riferivano tutto ai tedeschi. Rimanendo poi sul posto, durante lo sfollamento, si impossessarono di quasi tutta la roba nascosta dei palenesi sfollati. Questi ceffi erano dei veri e propri ladri e traditori e dopo la guerra se la passarono anche liscia. Mia madre e mio padre pensarono di ricongiungerci con Raffaele e Guido a casa della nonna a Lama dei Peligni... Mettemmo tutto quello che era possibile in grossi sacchi e con questi sulle spalle demmo l'addio al nostro paesello e alle nostre speranze.

La mamma portava in braccio la piccola Maria e prima di partire baciò la porta della nostra casa, facendosi sfuggire solo qualche lacrima dagli occhi ormai secchi e scavati dal dolore. Lasciando la nostra casa fu per noi uno strazio: era piccola e povera, ma l'avevamo comprata con tanti sacrifici e rappresentava per noi un caldo nido dove eravamo cresciuti. Ci mettemmo in cammino con i nostri pesanti fardelli sulle spalle e prendemmo la direzione di Lama. I tedeschi erano sguinzagliati per tutto il territorio e incutevano terrori con i loro terribili ordini gutturali. Quando arrivammo a Lama vedemmo la masseria da lontano e credevamo di essere ben accolti dai parenti. Ma quando questi ci videro arrivare, si riunirono tutti sulla strada: le famiglie delle due sorelle, e quella del fratello Giulio, e ci fecero capire subito che non potevano accettarci. I miei li supplicarono promettendo che avremmo lavorato in campagna come rincompensa. Ben ricordo come noi piccoli aspettavamo con ansia un cenno di bontà e comprensione: a Palena non potevamo assolutamente tornare perchè i tedeschi ci avrebbero fatto fuori. Finalmente mostrarono una certa pietà per noi e a malincuore accettarono di accoglierci, ma solo per qualche settimana, perché in campagna c'era poco da fare per il cattivo tempo. Intanto i tedeschi cominciarono a farsi vedere più spesso anche a Lama; diventarono sempre più minacciosi e cominciarono a fucilare tutti quelli che non eseguivano i loro ordini o che erano sospetti di essere simpatizzanti dei partigiani.

Gli alleati occuparono Casoli, ma non si decidevano a sferrare l'attacco finale per cacciare il nemico dai paesi vicini. Forse aspettavano la primavera; e poi, la loro logica era quella di perdere il minor numero possibile di uomini: tanto i tedeschi avrebbero dovuti ritirarsi spontaneamente, perchè anche loro ormai erano allo sbando. Anche a Lama comunque eravamo in prima linea e c'era poco da stare allegri. Raffaele e Guido, poi, erano giovani ed erano presi dimira dai tedeschi, perciò pensarono di passare il fronte per andare a qualche parte più sicura. A dicembre gli zii decisero di mandarci via e niente valsero le suppliche dei miei genitori di ospitarci fino a quando sarebbero arrivati gli alleati. Ci saremmo accontentato anche di dormire in una stalla; ma il loro cuore fu di pietra. Con tanta neve e con un freddo cane, non ebbero compassione neanche di noi bambini, e dovemmo sloggiare. Afflitti e carichi come quando eravamo arrivati, ci mettemmo in viaggio in salita verso Palena per ragggiungere la "torretta". La neve aveva ricoperto il sentiero di montagna che dovevamo ripercorrere e la bufera ci tappava gli occhi. Tatà cercava di farci strada, ma spesso metteva qualche piede in fallo e cadeva sotto il peso del sacco. Noi lo seguivamo scoraggiati e stanchi e la mamma spesso invocava Dio tenendo fra le braccia la piccola Maria, avvolta in una coperta. La povera bambina piangeva continuamente e avevamo anche paura di essere sorpresi dai tedeschi. Nostro padre cercava di farci coraggio dicendo che tutto sarebbe andato bene, ma nei suoi occhi leggevamo la stanchezza e lo sconforto.

Cominciava anche a farsi buio e bagnati fradici continuammo ad andare avanti. Tatà si girava spesso indietro per vedere se c'eravamo tutti e dopo tante tribolazioni, giungemmo alla "torretta", a notte inoltrata. Entrammo nella nostra casupola più morti che vivi e passammo la notte raggomitolati su una coperta stesa sul pavimento. La mattina seguente salimmo in paese per prendere il materasso di lana, qualche coperta e altri indumenti, ma avevamo molta paura. Però alcuni tedeschi che ci avevano visti non ci dissero niente e riprendemmo un po' di coraggio. Il giorno dopo tornammo ancora a prendere qualcosa e un po `per volta portammo giù tutto quello che ci poteva servirci. Vivevamo tutti i giorni nel terrore, ma anche con la speranza che prima o poi sarebbero arrivati gli alleati. Ma ogni giorno che passava, per noi era una delusione, perchè sentivamo arrivare le cannonate ma degli alleati neanche l'ombra. Un giorno sentimmo una serie di esplosioni, guardando su, verso il paese, scorgemmo una grossa nube di polvere. Chiedemmo a un fuggiasco cosa stesse succedendo e questi ci rispose che i tedeschi avevano minato quasi tutto il paese e stavano facendo saltare in aria le case. Quando il giorno dopo andammo su per prendere qualcosa ancora, trovammo gran parte di Palena rasa al suolo e anche al posto della nostra casetta c'era un cumolo di macerie. Tutta la nostra speranza, tutti i nostri sacrifici erano ridotti in un cumolo di sassi e calcinacci.

Per la disperazione tatà non riusci a trattenere le lacrime e ci ricondusse alla "torretta" per dare la bella notizia alla mamma, che rimase con gli occhi sbarrati. Per completare l'opera, quell'anno ci fu un inverno molto rigido e con tanta neve. Per poterci scaldare mio padre cominciò a tagliare gli ultimi cerri rimasti intorno alla casa, e ci sfamammo impastando pizza di farina e crusca di grano tritato con il macinino da caffè. Anche i tedeschi che erano rimasti in paese cominciarono a soffrire la fame perchè non ricevevano più rifornimenti. Un giorno alcuni vennero giù da noi e ci ordinarono di procurare, per il giorno dopo, cinque chili di farina, altrimenti "Kaputt!" Tatà macinò tutto il giorno e una parte della notte, mala mattina seguente non vennero quei soldati, ma altri che ci ordinarono di sgombrare la casa che doveva essere minata e fatta saltare in aria. Vicino a cuella casetta c'e una grande roccia inclinata davanti e che forma una specie di enorme grotta, sotto la quale andammo a rifugiarci per non prendere detriti in testa. Poi sentimmo un forte boato e vedemmo la nostra casetta afflosciarsi in un enorme nube di polvere. Restammo parecchio tempo sotto quella roccia, mentre tatà costruì una specie di capanna con dei sassi e dei coppi non andati in frantumi della casa distrutta, ed eravamo sempre in attesa della liberaziome.

 

Gli anni dell'immediato dopoguerra...

Quegli anni furono il periodo più difficile per la nostra famiglia. Non dimenticherò mai la Pasqua del 1949. In casa non c'era neanche la prospettiva di preparare un piatto di pastasciutta per mezzogiorno, e la mattina presto Guido ed io andammo alla Porrara a tagliare un po' di legna, da far rotolare giù per un canalone e poi andarla a venderla. Mentre salivamo per il ripido sentiero, da un cespuglio saltò fuori una lepre saltellante. Guido cercò di colpirla con grossi sassi, ma la lepre riuscì a dileguarsi. Più tardi mentre trascinavamo i tronchi giù per il canalone, vidi la bestiola agonizzante e imbrigliata fra rami e sterpi. Probabilmente fu tramortita da una sassata di Guido e poi fu trascinata giù dai tronchi. L'afferrai e chiamai Guido mostrandogliela con grande soddisfazione: forse la provvidenza ci aveva fatto prendere quella bella lepre per farci fare anche a noi una buona Pasqua! Qualche giorno dopo tornammo nella stessa zona, sperando di fare ancora buona cacciagione; invece Guido vide un grosso lupo sbucare da una macchia di arbusti e prese un forte spavento. Ma il feroce quadrupede si allontanò indifferente, girando più volte il capo indietro per osservare mio fratello che al momento non mi disse niente per non allarmarmi.

Non si allontanarono invece altri lupi a due zampe... Alla "Valle di Giannantonio" infatti, due guardaboschi ci tennero la posta e ci sorpresero a tagliare alberi per far legna. Tentammo di scappare, Guido scappò di traverso e riuscì a dileguarsi, io scappai in discesa, mentre loro mi inseguivano spararono anche qualche colpo di rivoltella per aria, mi si spezzarono le cordelle a una ciocia, caddi e fui preso. Mi fecero confermare che l'uomo fuggito era mio fratello Guido, fecero il verbale - e qualche mese dopo ci fu il processo, perchè andare a tagliare legna nel bosco era considerato un furto allo Stato. L'avvocato don Peppe Margadonna ci fece una buona difesa e il giudice non ci diede alcuna condanna; ma questa vicenda ci costò caro, perchè dovemmo pagare l'avvocato... Io ormai ero giovane e mi sentivo umiliato di andare tutti i giorni a tagliare la legna nel bosco e trascinarla giù come un somaro. Pensavo sempre a un lavoro più decoroso e redditizio per cominciare a costruirmi un avvenire. Ricordo nelle belle serate d'estate i ragazzi e le ragazze della mia età cantare e scherzare per le vie del paese, mentre io, i fratelli e tatà stavamo preparando le fascine per andare a vendere nottetempo, per non farci beccare dalle guardie forestali. Desideravo tanto anch'io andare a spasso e cantare con i miei amici, ma non mi era possibile. Nei momenti di sconforto mi veniva da piangere e pregavo il Signore affinché mi aprisse qualche strada per migliorare la situazione della mia famiglia che non poteva neanche più rimanere in quelle due stanze del convento. Le mie preghiere furono in un certo modo esaudite, perchè dopo qualche tempo il comune ci assegnò un appartamento in una delle quattro case appena costruite nel campo sportivo a Sant'Antonio. La nostra nuova casa era composta da due camere da letto, una cucina, un gabinetto, una soffitta abbastanza grande da riporre le provviste e una bella stalluccia a pian terreno. Per la prima volta dopo di tanti anni, ci rifacemmo le galline, alcune capre, un maiale e una bella asinella grigia alla quale demmo il nome di Rosina. Mia cognata, la moglie di Guido, non era dispiaciuta di aver dato all'asina un nome simile al suo, anzi, ne era quasi contenta. Dopo alcuni mesi Rosina partorì e ci regalò un'altra asinella. Eravamo molto contenti perchè queste piccole cose per noi rappresentavano delle vere e proprie ricchezze: finalmente ricominciavamo a riassaporare un po' di felicità e benessere.

In famiglia poi facevamo tutti qualcosa: chi andava in campagna, chi nel bosco a far legna e chi a fare qualche giornata di lavoro da qualche proprietario che cercava aiuto. Potevamo finalmente comperare pasta e pane qualche chilo di carne e permetterci il lusso di avere qualche lira in tasca la domenica, per i "vizi", che consistevano nell'andare a fare qualche partitina a carte e bere un bicchiere di vino con gli amici. Ma eravamo soprattutto contenti perchè la nostra famiglia era finalmente riunita, in una casa tutta nostra, dove avevamo la libertà di fare quello che volevamo. Avevamo la cucina e il gabinetto solo per noi e ci sentivamo dei signori. Il ricordo del periodo passato con un'altra famiglia in quelle due stanze del convento, ci faceva rabrividire. Certo, saremmo potuti stare molto meglio se a Palena ci fosse stato un po'di lavoro; ma nella nostra Regione c'erano pochissime fabbriche e la ricostruzione non aveva ancora ricominciato a pieno ritmo. Quando saltava fuori qualche lavoro, il collocatore sistemava subito i parenti o quelli che gli "portavano", prosciutti, formaggio o altri prodotti della terra. Noi non potevamo regalare niente a nessuno e quindi non riuscivamo quasi mai ad avere un'occupazione.

In quel periodo in Italia e anche a Palena era incominciato un grande fermento politico: democristiani e comunisti sembravano volersi scannare. I primi fregavano il popolo in nome della Chiesa, e i secondi in nome dell'uguaglianza e della giustizia. Con le loro lingue lunghe, ognuno pensava sempre agli interessi personali. Tutti si davano da fare per sistemare i propri figli, parenti e amici, che magari avevano delle proprietà e a noialtri poveracci veniva negato sempre tutto. Per andare a lavorare qualche mese al rimboschimneto o fare qualche giornata con i muratori, bisognava sempre "accordare" qualcuno. Insomma c'era una grande ingiustizia; era una grande porcheria. A me veniva sempre in mente il proverbio " il poco avere fa la persona ignorante"

Volevo a tutti i costi un lavoro; un lavoro qualsiasi, per essere libero e riscattare la mia dignità di giovane. Desideravo di guadagnare per essere alla pari degli altri; imparare tante cose nuove e uscire da quella condizione di miseria e ignoranza. Feci la domanda per andare a fare il carabiniere, ma mi fu respinta a causa di quella contravenzione che "Cavallo" una terribile guardia forestale, fece a mio padre nel 1938. Ho già raccontato che il pover'uomo fu sorpreso mentre portava il fascio di legna ("ji truasceine") sulle spalle con qualche ramo "verde" é fu condannato a otto mesi con due anni di condizionale; una pena sproporzionata e ingiusta. C'erano tanti ladroni e disonesti che se la passavano liscia, mentre un povero uomo che andava nel bosco a fare un po' di legna per sfamare la famiglia, veniva condannato e restava con la fedina penale macchiata" con grave conseguense per sé e la famiglia.

 

Gli anni delle irripetibili passioni...

Tutto sommato, mi piaceva vivere in mezzo alle nostre montagne, al nostro paesello dove avevamo una bella casetta e cominciavamo a stare bene. Era così bello incontrarsi la sera con gli amici, farci delle lunghe passegiate, fare spaghettate con aglio olio e peperoncino, cantare e parlare di ragazze! Non avevamo una lira in tasca, ma eravamo felici. Spesso ci radunavamo, uomini, e donne, e andavamo a ballare a casa di qualcuno fino a tarda notte. Al ballo erano quasi sempre presenti le mamme o le sorelle più grandi delle ragazze e bisognava a tenere le dovute distanze; ma qualche volta magari andava via la luce e ci scappava qualche stretta o qualche furtivo bacetto. Dopo qualche oretta che le ragazze erano tornate a casa, con l'amico Lucio, che sapeva suonare la fisarmonica, andavamo a portar loro le serenate. Tre suonate erano segno d'amore e la ragazza si metteva dietro i vetri della finestra ad ascoltare, un po' imbarazzata e sognante. Due erano segno di simpatia, che in seguito poteva diventare amore. Un solo pezzo era segno di dispetto o "caricatura" e allora c'era il rischio di beccare in testa un secchio d'acqua, o peggio ancora, il contenuto del vaso da notte. Spesso tornavamo a casa bagnati o male odoranti, ma divertiti per quello che era successo.

Quando andavamo a portare la serenata ad Elvira, scorgevo la sua sagoma dietro i vetri della finestra e il giorno dopo, quando la incontravo, era felice e sorridente. Finite le serenate, salutavo gli amici e mi avviavo solo soletto per la lunga salita che porta fino a Sant'Antonio. Spesso nel cielo stellato splendeva la luna e nel silenzio assoluto sentivo solo i miei passi. Si sentiva spesso un latrato di un cane lontano e qualche volta l'impressionante grido dei gatti innamorati. Ero anch'io innamorato e avrei avuto voglia di gridarlo, ma mi limitavo a canticchiare qualche motivetto, anche per farmi coraggio in quella strada buia e solitaria, dove più volte qualcuno aveva visto dei fantasmi. Delle volte incontravo qualche vecchietto pieno di vino, seduto su un muretto a secco e mi salutava con il tipico "ooh..." Io rispondevo con lo stesso verso e continuavo a salire. Qualche altra volta scorgevo davanti a me la sacoma traballante di una persona e quando la raggiungevo, vedevo che si trattava di mio padre ubriaco, che parlava da solo e faceva ancora il conto di quante partite aveva perso con il suo amico "Culacchie"... appena mi riconosceva esclamava forte: "Oh che t'accattate tatò!" Quella strana frase era il saluto preferito che egli rivolgeva non solo a noi figli, ma a tutti i palenesi e probabilmente era un antico modo dei vecchi per salutare scherzosamente i nipotini. Tornavamo a casa insieme, tenendoci sotto braccio e discutendo di partite e "passatelle." Quando arrivavamo davanti alla nostra casetta, alla piccola finestra si vedeva ancora la luce accesa dalla mamma, che ci aspettava in pensiero. Quella visione mi faceva una grande tenerezza e mi faceva venire in mente quando abitavamo in convento e il terrore che provavo a rientrare a casa di notte. Dovevo passare sotto gli archi, davanti alla chiesa, dove durante la guerra, i tedeschi fucilarono alcuni giovani e avevo il terrore dei fantasmi. Per arrivare alla nostra abitazione, poi, dovevamo attraversare tutto il chiostro e fare delle lunghe rampe di scale, al buio e in silenzio di tomba. Sentivo solo il mio respiro e quando qualche gatto mi sfrecciava fra le gambe, le mani mi correvano istintivamente sul petto per non farmi balzare fuori il cuore

 

 

continua ......

1024 x 768
800 x 600