Un Mazzo di Fruste

di Arduino Napoleone

da Palena

 

Patanìììi, la piazza e le burle

 

Il negozio-bazar

Quando dalla strada della stazione arrivava la piccola diligenza o, andata questa in pensione, l'autobus giallo fiammante, i viaggiatori, scendendo all'inizio del corso, non potevano fare a meno di essere attratti da una gran bella casa dalle linee architettoniche di una certa eleganza, situata dirimpetto al piccolo ufficio postale. Al centro si apriva un decoroso portone ad arco a tutto sesto e ai lati due grandi vetrine mettevano in mostra cappelli, pezze di stoffa, scarpe e tante altre cose. Dentro al gran locale adibito a negozio vi era di tutto: dalle ferramenta agli ombrelli; dalle pagliette ai berretti alla marinara, con la visiera lucida, di moda per i ragazzi tanti anni fa; dalle mercerie più varie alle camicie; dai guanti ai colletti e polsini inamidati, e persino corde e cordicelle. Tutto era sistemato in bell'ordine in antichi scaffali collocati lungo le pareti dell'ampio locale. A ridosso della parete centrale troneggiava un grande bancone. Quando mio padre doveva comprarmi il berretto nuovo alla marinara, era in quella specie di emporio che spesso mi conduceva. Mi investiva subito l'odore inconfondibile del negozio ripieno di tante cose: mi veniva incontro l'odore del cuoio delle scarpe, della naftalina tra le pezze di stoffa, quello asprigno o metallico delle ferramenta; il tutto come se fosse immerso in un'aria pulita e quasi fredda. Non aveva calore quello stanzone: pareva che, pur così fornito e stipato, non riuscisse a dare quelle sensazioni olfattive di soffice calduccio che l'interno di un negozio emana di solito. Qualcosa di melanconico si aggirava fra il bancone, il pavimento lustro, gli scaffali, le vetrine: tutte quelle cose accatastate, bene ordinate e disposte, sembravano creature invecchiate in un grigiore di tristezza e sotto l'incubo di una cattiva sorte.

Eppure era uno dei più ricchi e bei negozi del paese. Il padrone ci veniva subito incontro dalle penombre degli scaffali e con fare cerimonioso si metteva a nostra disposizione affrettandosi in un: - Buon giorno, buon giorno, don Riccardo -. Tutto tondo e grassottello, dalla faccia rotonda di mela rossa, dove si affacciavano due occhietti grigi che parevano attenti ad evitare qualsiasi contrarietà o che guizzavano di nascosta furbizia, tradiva le sue origini contadinesche, anche se si studiava di adeguarsi a modi urbani. In fondo era un buon uomo, pacifico, interamente dedicato al suo lavoro di negoziante, che costituiva tutto il suo mondo e col quale, con tenacia paziente di formica, aveva costruito giorno per giorno la sua fortuna, accumulando quel denaro che lo aveva reso uno dei più ricchi del paese. Si diceva che possedesse più di un milione, in quei tempi! Difendeva e covava questa ricchezza con la gelosia di un'orsa per i suoi piccoli, con l'amore morboso dell'avaro che sempre vive di un unico pensiero, quello del denaro, e poi del denaro e sempre del denaro. Questa sua qualità era nota a tutto il paese e la povera gente guardava a lui come ad un impenetrabile mito. La gente del popolo, un po' per la sua spiccata facoltà umoristica, un po' per innata rivalsa lo chiamava col nomignolo di "Pataniiie", patanello, rendendo maschile il nome femminile dell'innocente tubero. Naturalmente non glielo spiattellavano sul viso, anche perché, per la sua posizione economica raggiunta, qualcuno cominciava a chiamarlo "don Antonino", suo vero nome, un "don" che spesso gli umili usavano con rispetto, altri lo calcavano con una punta mordace. Era dunque divenuto un personaggio importante nella struttura sociale paesana di quei tempi e di ciò andava fiero, anche se, e questo gli faceva onore, cercare di non darlo a vedere, e con saggezza di contadino non ne profittava con atteggiamenti a sproposito.

Gli teneva continua compagnia la fedele moglie "Catarina", come dialettalmente era chiamata. Di tutt'altra natura, più distinta, piccolina e sottile, di sprizzante intelligenza, ma contagiata anch'essa dalla cova ( ) del denaro. Se era in negozio, la si vedeva sempre seduta presso l'entrata e nei mesi freddi si rannicchiava vicino allo scaldino, aggiustandosi continuamente la mantellina di lana sulle spalle infreddolite. Mi colpiva sempre la sua espressione insoddisfatta, preoccupata, fissa ad un pensiero fastidioso, come se soffrisse la mancanza di qualcosa di essenziale. Mi suggeriva l'immagine di un camino spento con tanta cenere grigia. In quel vasto negozio, in quella grande casa, marito e moglie erano i soli esseri umani: non avevano figli. Il denaro che tutti e due accumulavano giorno per giorno era la loro ragione di vita, ma esso non riusciva a dare loro una vera gioia, un attimo di spensierata allegria: parevano due tristi fantasmi condannati a far da guardiani ad un ricco sarcofago in cui si custodiva la mummia deificata dell'oro, intoccabile.

La domenica, nelle ore di pomeriggio, si decidevano ad evadere e si prendevano una piccola innocente vacanza: andavano a far visita ad un'altra coppia di coniugi, anch'essi anziani, anch'essi senza figli e proprietari d'altro ricco emporio del paese. Quest'altro negozio, e la casa a tre piani, piccola, stretta, tutta verticale, con un bel terrazzo tutta civettuola nella facciata, erano in piazza.

 

Un'altra coppia

Il marito era di tutt'altra pasta intellettuale: dall'aspetto distinto e signorile, con due luminosi occhi azzurri pronti all'osservazione acuta, denotava subito una intelligenza sveglia, sensibile e carica di sottile umorismo. Anche lui viveva nel negozio dalla mattina alla sera: metodico, scrupolosissimo, ordinato e al tempo stesso dinamico e infaticabile nel suo lavoro. Anche lui arricchito nel commercio e ancor più dell'altro, tenace nel costruirsi la sua fortuna giorno per giorno, usando la sua intelligenza, il suo fiuto di mercante di buona razza e soprattutto il suo amore al denaro che lo rendeva uno dei personaggi più avari del paese. Il suo spirito però aveva delle qualità superiori che lo mettevano in grado di non sentire alcun disagio di fronte all'opinione della gente: egli ben la conosceva quella opinione o la intuiva; ma le faceva fronte con una sua particolare noncuranza, alle volte motteggiatrice e sferzante che riusciva a renderlo anche simpatico. L'altro, Antonino, che, pover'uomo, non aveva di queste qualità, faceva uno sforzo penoso a tenergli dietro su quella strada e non riusciva a nascondere del tutto il doloroso, fastidioso peso del pensiero del giudizio della gente sul suo conto, che anche lui ben intuiva e ben conosceva. Egli ne soffriva in silenzio, l'altro se ne infischiava e lo sfidava. Costui si chiamava Giovanni e per tutti era comunemente Giovannino. La moglie, Giuseppina, sempre ben messa, dalla figura sottile e distinta, dalle mani nervose sempre alle prese con veli di chiffon o scialli alla veneziana o di fisciù, orpellata di una ricca oreficeria che si stendeva dalla testa alle mani con orecchini, collane, bracciali e tanti anelli, pareva l'immagine caricaturale di un'attrice drammatica che posava a gran signora di altri tempi. Il suo umore era instabile e denunciava una inquietudine interna che era l'orlo di una grossa macchia di tristezza o di una nevrotica insoddisfazione.

Alle volte la si sentiva cantare con voce passionale vecchie romanze zuccherose, che in confronto al senso pratico e machiavellico del marito officiante dietro al bancone, suscitavano l'immagine di una vecchia allodola di fronte all'occhio grifagno dello sparviero. La sua risata era improvvisa e accompagnava la battuta di spirito che non le mancava, comunicandoti un senso di vita da palcoscenico, ma era improvvisa anche la sua malinconia che s'incupiva fino ad un'amara sconsolatezza. La ricordo bambino, quando, in quelle sere indimenticabili di poesia natalizia, si presentava all'improvviso mentre si giocava a tombola nel salone e il gran camino barocco rosseggiava di fiamma e, incorniciata dalle tende rosse delle finestre, si vedeva attraverso i vetri scuri la caduta solenne dei farfalloni di neve. Con lei arrivava una ventata di allegria che aumentava l'animazione esistente con grande gioia mia: era una buona, fedele amica di casa, rispettosa e piena di stima per tutta la famiglia. Quando le due coppie s'incamminavano per la passeggiata, dopo che Giovanni aveva con scrupolosa cura chiuso a gran mandate la porta del negozio e il portoncino di casa, prendevano sempre la strada borbonica che va verso il cimitero e la cappellina della Madonna del Carmine.

 

Le coppie a passeggio

Nella luce dorata del tramonto di quei maggi profumati si stagliavano le sagome dei quattro tipi: i mariti avanti, con passo disuguale, essendo quello di Antonino pesante, e lento e quello di Giovannino agile e nervoso. Questi, poi, si dondolava in un suo oscillare caratteristico delle spalle, cui rispondeva l'andar di qua e di là della testa all'unisono con le mani che serravano bene in vista e verticalmente i chiavoni del negozio e della casa, come fossero sacre reliquie. Qualcuno dalla battuta pronta, nel vederlo passare in quegli atteggiamenti, annotava sorridendo: - Scànzati, ché mo' passa Giovannino col sacramento! - Lo risento ancora, quando da ragazzo capitavo nel suo negozio, spiegare alla donnetta del popolo che la cosa comprata costava "dieci centesimi". Non diceva mai un soldo, due soldi, ma sempre cinque centesimi, dieci centesimi: il che dimostrava quanto valore desse al soldino come primo gradino umilissimo di una gradinata lunghissima che arrivava al milione, quel milione che eccitava la fantasia di grandi e piccini in quei tempi e che compariva come una bandiera nelle mani del signor Bonaventura nel "Corriere dei Piccoli", con felicità annusato anche dall'immancabile bassotto!... Incuteva anche una certa soggezione, perché parlava un italiano pulito e senza accenti dialettali. Il suo discorso era acuto e gentile, ma inesorabile nel sostenere il concetto che di sconti, anche se minimi, non era il caso di parlare. In questo era spietato e superava di molto il buon Antonino. I due, camminando, si raccontavano le loro imprese di bancone, confrontavano i loro mondi di fatture, di conti e soprattutto, Antonino circospetto e Giovannino incurante e a voce alta, si lagnavano delle tasse e del governo fascista: in questo Giovannino sfoderava un caustico fuoco di fila di critiche cui Antonino non sapeva tener bordone se non con continue approvazioni.

Le signore venivano dietro e nel loro chiacchierio erano passati in rassegna le loro preoccupazioni e i fatti della settimana. Ma quel denaro le faceva penare perché dovevano pensare a difenderlo da tutti i possibili pericoli. Povere donne! Parlavano di milioni con toni piagnucolosi come mamme che si sfogano per i seri grattacapi che danno loro i figli. Visita alla casa di campagna Qualche volta, se Giovannino era di vena, lasciavano la strada e piegavano tutti e quattro per un sentiero che li portava al "casino" di Giovannino, un grazioso villino a due piani, con una terrazzina cui si accedeva per un'esterna scala a chiocciola di ferro verniciato verde: era in una posizione tranquilla e dominante, alla fine della gola del guado di Coccia. Di civettuolo buon gusto, rivelava la personalità del padrone e, così fresca nei colori rosa e verde dell'intonaco, delle persiane e delle ringhiere, sembrava una graziosa ed elegante signorina rimasta sola tra i brutti ceffi dei roccioni in una distesa aspra e solitaria di grigi cupi. La sua improvvisa pennellata cromatica destava in me ragazzo sempre un interesse e me la gustavo con gioia. In uno di quei pomeriggi tiepidi e odorosi di primavera, ricordo che capitammo lassù io, mio padre e altri due signori amici, accolti, anzi, caso raro, invitati da Giovannino a bere un goccio di un certo suo vino speciale.

Eravamo seduti in una saletta, quando apparve Giovannino tenendo gelosamente stretta, come faceva per i chiavoni di casa che portava a passeggio, una bottiglietta della capacità di quella di una gassosa. Era veramente contento di farci quell'atto di amichevole cortesia: solo che non si rendeva conto che il suo eroico sforzo non bastava a riempire quattro normali bicchieri... Si fece, comunque, buon viso, anche perché quel goccio assaggiato era veramente un prezioso e prelibato campione del succo della bella vigna che cingeva il villino; ne ricordo il sapore inebriante e squisito e il color d'ambra dorata luccicante nei riflessi dei bicchierini da rosolio. Quando tornavano dalla passeggiata i quattro si installavano sul lungo terrazzino del balcone, al disopra del portoncino, lungo il quale correva un'elegante ringhiera di ferro verniciato in verde tenero; le signore sedute in primo piano continuavano i loro discorsi e dall'alto passavano in rivista la gente che sotto fluiva nel passeggio domenicale; i mariti più indietro, in ombra. I quattro sembravano personaggi composti in un quadro di Manet .

Dal fondo della stanza veniva avanti il suono frusciante del grammofono che snodava le note del "tango delle capinere". Era Giovannino che s'incaricava di mettere il disco, di caricare la molla ( ) e godeva nel far sentire in piazza la musica proveniente dal suo grammofono, tenendo sempre il balcone aperto e rimanendo nascosto nel buio della stanza. Aveva due o tre dischi di canzoni allora in voga, non di più, e li ripeteva uno dopo l'altro in continuazione, fino alla noia, a notte già inoltrata. Quel balcone era al centro geometrico di tutta una parete della piazza e attraeva sempre la mia curiosità di ragazzo: forse perché sembrava incastonato tanto graziosamente in quella fetta civettuola e stretta della casa, serrata a sinistra da un'altra casa più grande, e pesante d'aspetto, a destra dalla mole austera del municipio. Quel balcone è legato al ricordo di tanti avvenimenti di anni lontani e ancora recenti: da esso si sono affacciati sempre personaggi importanti a pronunciare discorsi alla folla in piazza e, come i tempi cambiavano, così cambiavano anche i discorsi di contenuto e di spirito. Sotto, la piazza ha sempre applaudito, come tutte le piazze, quarant'anni fa e oggi.

 

Qualche buona riflessione sulla folla

La folla ha sempre voluto e sentito il bisogno del suo teatro e questa è la piazza, piccola o grande, ma piazza. In essa l'umanità organizzata in società ha sempre avuto l'illusione di ritrovare la sua personalità e di sentirsi viva... ma al seguito o al guinzaglio di geniali o astuti manovratori: la folla ha sempre dovuto alzare il naso in su come un cane verso il padrone, ha dovuto sempre guardare ad una finestra, ad un balcone: è il suo destino! Ricordo, bambino, in certe atmosfere infocate, la figura vigorosa e trascinatrice del sindaco D'Onofrio, una specie di Danton, nero tribuno, rovesciare dalla ringhiera di quel balcone un'oratoria infiammante gli animi del popolo per una migliore giustizia sociale e contro il permanere di caste sociali e altre cose del genere. E la folla, in basso, applaudiva tumultuosa e finiva in gloria di sventolii di bandiere di fuoco con falci e martelli, col canto terribile di "avanti, popolo" e con quello più locale e partigiano di "...e con le bandiere e senza bandiere... viva D'Onofrio i cuavaliere (il cavaliere)!" Giovannino, nell'ombra del vano del balcone, padrone di casa ospitante, seguiva in silenzio e distaccato con una smorfia ironica nell'angolo della bocca. Da quella ringhiera rivedo, ragazzo, la figura dell'avvocato don Domenico Villa, tutto ammantato della prima serica camicia nera, trasportare con foga elegante, e altrettanto trascinatrice, gli animi della folla verso altri ideali di patria, di ordine, di gerarchia e cose simili rappresentate da un altro simbolo, quello di un fascio di verghe con accette, di cui non tutti sapevano la storica origine.

L'avversario D'Onofrio, il paladino dei poveri cafoni, il campione democratico dominatore di masse, per tanti anni vittorioso e pupilla del popolo, era scomparso, travolto dai tempi nuovi e abbandonato dal suo popolo; e con lui erano scomparsi falci e martelli. Ora dal balcone garrivano funebri drappi neri con teschi e ossa di morti incrociate; e la folla, sotto, applaudiva e cantava altri inni pieni di giovinezza e gridava a squarciagola nuove strane frasi di "a noi!" e "alalà!". Giovannino, nella sua penombra, sempre gentile ospitante, seguiva in silenzio, incredulo e ironico... Com'era facile in quegli anni del primo dopoguerra lo scoppio della piccola rivoluzione paesana! - Facciamo la rivoluzione! - Questa frase allora era pronunciata dal popolo con serietà e determinatezza ed era spesso messa in atto, quando le passioni o il senso della giustizia calpestata erano esasperati. Mi è rimasta profondamente impressa nella memoria una di queste "rivoluzioni" di quei lontani anni, a proposito di non so quale ingiustizia verso il paese commessa dalla società "Maiella" dei primi autobus. Ricordo che al suono improvviso e insolito, per l'ora, del campanone di San Falco, la massa del popolo accorse in piazza e naturalmente si ammassò sotto il balcone di Giovannino, alzando il naso in su.

E si affacciò l'alta signorile figura dell'avvocato Domenico Napoleone e parlò alla folla. Tipica figura di nobile di campagna, raffinato, colto, l'avvocato Napoleone non amava certo il quotidiano contatto con la massa popolare: con elegante noncuranza di viveur, pensava piuttosto a dilapidare la ricchezza dell'antica casa standosene a Roma, ove passava la maggior parte dell'anno tra il palazzo di Giustizia... e il costoso rincorrere la diva di allora Anna Fougez. Se si era deciso a venire a contatto del popolo, voleva dire che anche il suo animo distaccato aveva avuto un moto di generosa ribellione: disse poche parole, calmo e fermo, e così efficaci nel periodare forbito, chiaro e preciso da scatenare un'ira di Dio di entusiasmo nella folla, che aveva già costruito due vere e proprie barricate per impedire l'accesso all'autobus. Un maestro elementare, fresco ufficiale reduce dalla guerra, trascinato dall'entusiasmo, volle dire la sua anch'egli dopo don Domenico e, sporgendosi alla ringhiera, gridò alla folla la frase fatidica di quegli anni "di qui non si passa!". Forse fu una sintesi di tutto un discorso che avrebbe voluto pronunciare, ma che l'emozione gli serrò nella gola. E il popolo rispose con l'inno al Piave cantato a gran voce.

A me ragazzo, sempre alle prese con libri di storia nei quali soprattutto mi affascinavano le illustrazioni, sembrava di vivere giorni di vera gloria per quegli avvenimenti. Toccavo il cielo col dito! Poi gli anni passarono e le fortune cambiarono e ritornarono le bandiere rosse e riapparve anche D'Onofrio che, spazzati via i podestà, ridivenne sindaco e infiammò di nuovo gli animi stanchi del popolo, non così denso come negli anni lontani, ma assottigliato e con volto nuovo. Si risentì ancora l'inno della bandiera e... senza bandiera, ma il cavaliere era da un pezzo commendatore... e il canto fu solo un timido e stracco momento di nostalgia: la sua fortissima fibra copriva ancora bene l'usura del tempo, ma non quella dell'animo. A quel balcone D'Onofrio trascinò il primo Presidente della Repubblica, il monarchico De Nicola, il piccolo tarchiato ministro Romita e anche il reduce Silone che presentò alla piazza, sbagliando dicitura, da Silone in... Sileno. Lo aveva ribattezzato fauno, mentre lo scrittore del Fucino sgranava tanto d'occhi. E la folla, sotto, applaudiva sempre. I simboli, gli stemmi, i drappi andavano e venivano su quella ringhiera e ora appariva un bianco scudo crociato più spesso e più autorevole degli altri...

Le burle

Tutto ciò non fu sufficiente ad allontanare dal suo capo la crudele incosciente giovanile persecuzione delle burle di cui noi studenti lo avevamo designato vittima. Cominciammo ad interessarci di lui, come d'un tipo adatto a far la parte di Calandrino, per noi studenti, una sera, in cui al Circolo qualcuno raccontò quello che gli era capitato mentre girava per il paese, per le sottoscrizioni, con il Comitato organizzatore dei festeggiamenti in onore di S. Falco. Antonino non s'era mai trovato in simili faccende: aveva dato la sua quota di commerciante tutti gli anni e naturalmente lesinando sulla cifra. Di chiamarlo a far parte della organizzazione non se n'era mai parlato. Quell'anno fu nominato membro del Comitato all'unanimità e, per quanto a malincuore, egli si sottomise alla tradizione. Un giorno la deputazione si trovò su una parte alta del paese denominata "Colleveduta": era un gruppo isolato di case di contadini arroccate su antichi roccioni che emergevano su un terreno collinoso, con qualche raro albero e tutto pietroso. Di lassù, le grida acute delle donne che chiamavano da lontano i figli piccoli, i canti dei galli numerosi e i ragli degli asini giungevano in piazza con insolita sonorità. I questuanti, secondo l'antico uso, chiedevano di porta in porta. Era l'ora del tramonto di un giorno d'agosto: l'aria arsa dal solleone cominciava a intiepidirsi con qualche ventata fresca che veniva dal guado di Coccia. Tutto era fermo in quell'ora, dopo l'infocata giornata di trebbia e di pesante fatica. Le capre tornavano dal pascolo di montagna inerpicandosi per le rocce e andando ognuna per la strada che le avrebbe ricondotte nella propria stalla: sapevano qual era e vi si dirigevano da sole.

Qualcuna s'attardava ancora a ruminare, ritta su qualche pietrone tagliente e la sagoma scura si stagliava contro la luce dorata del cielo che si alzava subito dietro le case. Dagli usci aperti veniva fuori l'odore confortevole e saporito della frugale minestra contadina, nella quale si sentiva l'aglio e il lardo che si spandevano all'intorno insieme con l'odore caldo del grano trebbiato e di quello pruriginoso della pula. Dal campanile di San Falco il campanone annunciava le "ventiquattrore" con rintocchi lenti, misurati e pieni di dolce mestizia. Le sue onde sonore vibravano nell'aria calda e si snodavano slargandosi e ti venivano incontro come le creste di una lunga, calma risacca. La commissione arrestò presso un uscio dove sedeva un anziano contadino. Immoto come un santone nel deserto, dalla faccia cotta dal sole e scavata dalla stanchezza, si riposava dalla lunga fatica iniziata all'alba. Quelli più praticoni di quelle incombenze gli domandarono: - Ebbene, compare Luigi, tu che metti per San Falco? -o Il contadino, senza muoversi dalla sua posa, fra l'infastidito e il rassegnato, rispose: - Che volete che metta! Vi posso dare una "misura" di grano -. Si riferiva ad una minima quantità, quattro o cinque chili, dell'antico sistema di pesi e misure dei tempi borbonici, in uso ancora fra i contadini. I deputati che conoscevano bene la psicologia di costoro, cercarono di indurlo con diplomazia ad aumentare la dose. Compare Luigi, senza perdere la sua immobilità, ma con voce irritata, pur nell'abitudine della rassegnazione, rispose: - Ah, dunque voi volete il mio grano, don... Tizio che mi ha prestato i soldi per la semina vuole il mio grano... e io che mi mangio, San Falco?... A questo punto, Antonino che era rimasto in disparte perché aveva riconosciuto nel contadino un suo cliente al quale aveva negato un paio di scarpe per non fargli un po' di sconto, ebbe l'idea di farsi avanti, fidando nella sua autorità. Non l'avesse mai fatto! Costui, che lo guardava di sottecchi da un pezzo, perde la sua aria rassegnata e, fissando Antonino, s'alza in piedi e comincia a dirigersi lentamente verso di lui con passi da felino, minaccioso, sibilando con tono basso: - Ué Patanì - e sempre avanzando minaccioso e alzando il tono di voce fino al grido incalzante e ripetuto: - Ué Pataniie!... -. Una frase fatta del solo nomignolo, ma scandita con quell'intonazione d'ira e in quel crescendo pauroso vi si sentiva tutto un discorso di ribellione d'un povero uomo, cui s'era negato un paio di scarpe per una piccola differenza di pochi soldi sul costo; vi era l'amara denuncia di uno stato di povertà cui non risponde la solidale comprensione del prossimo; vi era una specie di rivincita del debole verso il forte. Antonino, capita l'antifona, tutto rosso per la vergogna di essere stato così violentemente apostrofato da un contadino e di fronte a testimoni, impaurito per l'avanzata minacciosa, batté in ritirata senza una parola. Gli altri, pur sorpresi, ma dentro di loro crudelmente divertiti alle spalle di Antonino, calmarono subito le acque e se la svignarono anche loro. Quella frase divenne il nostro grido di guerra! E... povero Antonino! Quante volte, nelle spensierate notti giovanili, come masnade scatenate, dopo aver buttato all'aria con i bastoni le tegole di un tettarello al disopra della porticina dell'orto di Antonino, andammo a urlare nel silenzio profondo della notte il grido di "Ué Pataniiie!" e poi via in fuga lungo i gradoni di un vico poco distante con una gioia crudele nel cuore ascoltando lo scalpiccio delle nostre scarpe nella corsa disordinata. Crudele incoscienza di quegli anni felici! La mattina dopo, seri e composti, passavamo e ripassavamo vicino al portone del negozio di Antonino. Egli era lì piantato come se ci aspettasse. Non voleva dare a vedere, noi altrettanto! Si recitava la commedia da ambo le parti a far finta di niente. - Buon giorno, don Antonino - ripetevamo passando più di una volta e lui, tutto serio, come distratto da altri pensieri, rispondeva frettoloso: - Buon giorno, buon giorno -. Povero Antonino! A ripensarci mi viene un senso di rimorso. Ma andate a far capire queste cose a giovani esuberanti che in quegli episodi vedevano solo il lato scherzoso che dava loro gioia e riso! Noi avevano bisogno di ridere, ecco tutto. Non si capiva che, così facendo, si recava del dolore ad un pover'uomo che non ci aveva fatto niente di male: si era crudeli senza saperlo.

Una burla eccessiva

Un episodio, in particolare, voglio narrare. Con me, amici inseparabili erano Eraldo e Pasqualino. Eraldo, estroso e imprevedibile e dall'umore nevrotico; Pasqualino, dall'animo dolce e acuto e ricco di senso artistico, era quello che più di ogni altro s'accordava con il mio carattere: bastava che ci guardassimo un attimo negli occhi che già lo stesso pensiero, lo stesso risvolto umoristico, lo stesso proponimento vivevano in noi. Una sera decidemmo all'improvviso di andarcene nientemeno che sul campanile di San Falco. Fui io a lanciare l'idea, subito accettata con entusiasmo. Ci affascinò il pensiero originale di issarci lassù al disopra di tutti. Gaetanella, panettiera canterina di prima qualità, cui piaceva l'allegria, la musica e il buon bicchiere, e che gestiva vicino all'arco gotico della torre dell'orologio, a un passo dalla chiesa, un localuccio fra il caffè e la bettola, da ottima cuoca qual era, ci preparò certe costolette di maiale primaticcio da far leccare le dita. Palella, il sagrestano, complice nell'assalto al campanile e compagno di bicchiere, s'incaricò di farci trovare tutto pronto lassù quando, salendo per un'interminabile scalinata di pietra, sbucammo ansanti in mezzo alle campane.

L'aria a quell'altezza sembrava più pura. Da sotto saliva il brusio di tutto il paese e ci sembrava il respiro caldo di un essere straordinario, enorme, da cui pareva volerci proteggere la possente struttura muraria della classica architettura del campanile che lì, nel piano delle campane, ci appariva tanto più vasto e spazioso a confronto della solita visione che ne avevamo guardandolo dalla piazza e dalle strade. Per ognuna delle quattro pareti, si apriva un arco a tutto sesto la cui forza d'impianto si univa alla grazia scarna delle modanature della cornice e dei capitelli e piedistalli toscani dei piedritti. La profondità della volta dell'arco, veramente grandiosa, ci dava la misura della solidità da fortezza di quella plastica architettonica, che si metteva in mostra pur da lontano, ma con addolcito senso d'insieme.

Ci sembrava di essere in braccio ad un gigante che, a guardarlo da vicino, a toccarlo, incuteva quasi paura. Felice come bambini in un castello di fiabe, ci misuravamo sotto l'enorme bocca del campanone, scoprendo com'eravamo piccini al confronto; ci rincorrevamo come scoiattoli e, affacciandoci dagli archi, la distesa dei tetti da quell'altezza ci dava la sensazione di essere distaccati dall'umanità: ci sentivamo dominatori. Le costolette erano deliziose, il vino color rubino pure. L'euforia crebbe di colpo, prendemmo fuoco e, cullati dalla voce cupa del sagrestano che aveva preso a cantare la serenata di Toselli, suo cavallo di battaglia, all'improvviso decidemmo di salire all'ultimo piano, cioè sullo stretto ballatoio che girava attorno alla base della cuspide piramidale. Sbucammo lassù per una scaletta di legno tarlato e pericolante e, mentre sotto Palella seguitava il suo pezzo di bravura canora, padrone di tutto il fiasco, noi, esaltati di sentirci librati in cielo, stuzzicati dal pericolo, cominciammo a rincorrerci attorno al hallatoio, scavalcando addirittura il muretto di cinta protettivo e scorazzando in bilico su non più di quaranta centimetri di spazio. Sotto s'apriva il baratro! Un piede in fallo poteva costarci la vita!

E come muezzin impazziti rivolti alla mecca, cioè alla casa di Antonino, cominciammo a urlare tutti insieme come invasati: "Ué Pataniiie, ué Pataniiie! In piazza la gente sorpresa non si rendeva conto della provenienza di quelle urla improvvise: cominciava a far capannelli. Finalmente, alzando in aria il naso, dopo un lungo giro d'ispezione, ci scoprirono e additandoci prima esterrefatti, poi divertiti e di nuovo allarmati per il pericolo che correvamo, capirono subito che quelle figure di folletti non potevamo essere ... che noi tre. - Gesù, Gesù! Venite a vedere dove sono quei diavoli scatenati! - dicevano chiamandosi l'un l'altro. - Sono impazziti! Sono impazziti! - commentavano tutti col naso in aria. E chi sa in cuor suo cosa diceva il buon Antonino! O beata giovinezza! Quanto crudele mistero in quel suo fugace apparire senza nemmeno il tempo di potere misurare l'estensione del suo svolgersi e valutarne, mentre dura, la miracolosa ricchezza. Ciò è dato, purtroppo, di fare solo quando all'azzurro e al sole è subentrato il grigio autunnale dell'età matura! E' attraverso la vita sotterranea del ricordo che certe valutazioni sono possibili, ma sono risultato di ripensamento, di un rivedere un qualcosa che visse e che ora non vive più, un qualcosa che fu e che ora è solo il passato!...