Padre Damiano da Cingoli

 

di Padre Egidio Picucci

 

Prefazione

 

            È nelle nostre mani un’agile e interessante biografia del Servo di Dio P. Damiano Sfascia da Cingoli, sacerdote cappuccino della Provincia delle Marche, che da tempo si attendeva. Molto opportunamente esce poco prima di iniziare il suo processo di beatificazione, anzi ne è la biografia ufficiale.

            L’inizio del processo sarà una data memoranda per quanti – anche se pochi – lo conobbero, lo ascoltarono e lo ricercarono nel suo ministero; per gli altri la sua memoria sarà un incontro con lui, con la sua vita, con il suo ministero… per ricordare la sua ricca spiritualità di religioso cappuccino impegnato e di confessore zelante e ricercato.

            P. Egidio Picucci, l’autore della biografia, nel compiere il suo lavoro ha avuto e ha le carte in regola: sono note, infatti, le sue capacità di scrittore incisivo e forbito, maestro in opere del genere; ha avuto altre occasioni di avvicinarsi a questa figura di frate cappuccino. Anche se non ha conosciuto personalmente il Servo di Dio, riporta in modo vivo le impressioni e il racconto di coloro che sono stati con lui “concittadini dei santi” e che con lui hanno fatto qualche tratto di strada insieme. Nessuna meraviglia perciò se nel susseguirsi di ricordi, di luoghi e di episodi traspaiano tanta commozione e ammirazione.

            Nel presentare la vicenda umana di P. Damiano, dalla nascita alla morte, P. Egidio, prendendo avvio da episodi, da aneddoti e frasi espressive (“Troppo presto per andare in Paradiso”, “A me piace così”, “Il vento sulla vela”, …), ama presentare e illuminare alcuni aspetti e caratteristiche del Servo di Dio, evidenziandoli con forza attraverso un linguaggio così scorrevole da rendere la lettura oltre che interessante, piacevole e gradita. Il suo stile elegante e fugace, però, suscita nell’animo del lettore l’esigenza di scoprire o di approfondire altri aspetti della santità del Servo di Dio, inevitabilmente restati in ombra o semplicemente accennati.

            Nel volumetto è stato abilmente inserito un intervento di Mons. Odo Fusi Pecci, Vescovo emerito di Senigallia, nativo di Cingoli, Padre Damiano da Cingoli, originale e utilmente integrativo. Tra l’altro, accosta la figura di Padre Damiano a quella del Santo Curato d’Ars; scrive testualmente: “Una figura quella di P. Damiano tanto diversa, ma tanto simile a quella di S. Giovanni Maria Vianney…”; non lo afferma soltanto, lo dimostra sia pure in maniera sintetica.

 

            Credo doveroso esprimere, come vice postulatore della causa, la mia personale gratitudine e quella dei numerosi amici e devoti del Servo di Dio, a Padre Egidio Picucci, per questo suo prezioso lavoro, che contribuirà ad una migliore conoscenza di P. Damiano, figura di sacerdote cappuccino, singolare e ricca di fascino umano e soprannaturale.

            Ben venga, allora, questa biografia, in forma breve e popolare! L’augurio è che si diffonda tra la gente, entri nelle famiglie, particolarmente della zona di Cingoli, di Macerata, di Fermo, di Santa Vittoria in M. e di Fossombrone, luoghi, tra gli altri, dove più a lungo è vissuto e ha operato il Servo di Dio, perché sia meglio conosciuto, pregato e invocato.

            Generoso mentre era qui in terra e pieno di carità verso tutti, P. Damiano ora dal cielo presso il trono di Dio, con maggiore amore e gratitudine soccorre quanti invocano il suo aiuto e la sua protezione. La sua glorificazione qui sulla terra sarebbe a lode e gloria di Dio e per la Chiesa, e particolarmente per noi Cappuccini, costituirebbe un punto di riferimento per allontanare le seduzioni dell’effimero e del superficiale e per approdare ai veri valori della vita umana e cristiana: la santità!

 

            Loreto, 19.03.2002, Festa di S. Giuseppe

                                                                                                                            P. Antonio Angelini

                                                                                                                                Vice-Postulatore 

 

 

 

                                                           Padre Damiano da Cingoli

 

Pianmartino è un grumo di case a lato della strada campestre che si percorre per andare da Villa

Torre a Villa Strada, due frazioni del Comune di Cingoli.

Vi sono passato più volte, mentre andavo da Torre a Strada, giovane sacerdote per inviti di evangelizzazione. Gente semplice, cordiale e povera con la quale scambiavamo un gesto o una parola di saluto. Bambini e ragazzi, in buon numero, in giochi improvvisati; le mamme nelle faccende domestiche e nel lavoro dei campi con i mariti che assicuravano il fabbisogno familiare tagliando legna nei dintorni. In una di quelle case, negli anni 1870-80, nella casa Sfascia, erano in sei, i genitori ed i quattro figli, ad uno dei quali, a 16 anni, balenò l'idea di farsi frate. Magari, pensava, come si diceva, frate non da messa, perché egli era analfabeta, dato che a Pian Martino non c'era nemmeno classe della scuola elementare. Ne fece cenno al proprio parroco, il parroco di Villa Strada a due chilometri da Pian Martino. Era un sacerdote vero uomo di Dio, quel don Raffaele Perugini, ed intuì che quel figlio dei coniugi Sfascia era un alberello più prezioso degli alberi che il padre portava a casa nel suo lavoro di boscaiolo. Lo consigliò perciò ad imparare a leggere ed a scrivere; egli stesso gli avrebbe fatto da maestro di

lingua e di conto. Damiano si rivelò così interessato che don Perugini gli impartì anche i primi elementi della lingua latina, tanto che, quando egli chiese ai Cappuccini di essere accolto, venne ammesso al ginnasio in un loro collegio. Diede buona prova, passò al noviziato, poi allo studio della teologia ed il 4 giugno 1898 venne ordinato sacerdote. Aveva 23 anni e per 38 anni, sino alla sua

morte, a 61 anni di età, si impegnò a vivere il suo sacerdozio polarizzato in Cristo e consumandosi nel ministero.

Una figura quella di P. Damiano tanto diversa ma anche tanto simile a quella di Giovanni Maria Vianney, il santo curato d'Ars. L'uno sacerdote di un ordine di vita consacrata, l'altro sacerdote diocesano; l'uno italiano, l'altro francese. Ma ambedue ardenti di amore a Dio e dediti interamente alla salvezza degli altri. E simili perché anche p. Damiano si incamminò nella triplice via della penitenza, della dedizione pastorale, della preghiera che caratterizzò il cammino spirituale del santo curato d'Ars.

Una via lastricata di tanta umiltà, di quella umiltà che indusse p. Damiano, sin dall'inizio, ad assicurare il suo Ministro Provinciale che egli era disponibile "per i conventi nei quali nessuno voleva andare" ed a chiedere al suo Padre Guardiano di "affidargli i luoghi più difficili".

Una vita di penitenza quotidiana per la quale P. Damiano nel cibo si privò abitualmente della carne e del vino e usò prendere il sonno della notte su rudi tavole. Egli stimava questo suo stile di vita penitente come la migliore preparazione alla formazione

del ministero da lui prediletto, quello del sacramento della penitenza e direzione spirituale. Sempre pronto a confessare, usava tutti i mezzi per indurre qualcuno a confessarsi. Ascoltava, comprendeva le situazioni più delicate, invitava al pentimento ed alla conversione, infondeva speranza, esortava ad un cammino di perfezione da percorrere, diceva, "non a passo" ma intenti "a correre con perseveranza tenendo lo sguardo fisso su Gesù che dà origine alla fede e lo porta a compimento" (Eb 12,2). La sua parola raggiungeva i cuori perché era facile avvertire che quanto egli diceva agli altri lo viveva come suo programma personale di vita, incentrato in Cristo e nella Madonna.

Si sapeva che egli passava gran parte del giorno e della notte in adorazione alla SS. Eucaristia, presente nel tabernacolo. Testimonia un suo confratello: "Un giorno mi recai a fargli visita nella infermeria di Macerata. Non trovandolo da nessuna parte, mi fu detto di dare un'occhiata in cappella. Aperta la porta, lo vidi in ginocchio davanti all'altare, con il viso e le mani protese verso il tabernacolo, come fuori dei sensi, senza accorgersi del rumore fatto e della mia presenza". Egli viveva costantemente di Dio e per Iddio.

Fervida la sua devozione alla Madonna con i 15 sabati mariani, i 5 venerdì dell'Addolorata, il mese di maggio, i digiuni del sabato, la preghiera del Rosario "spesso in ginocchio e con gli occhi pieni di lacrime". Un amore filiale alla Madonna che cercava di diffondere nelle famiglie, alle quali si presentava con tanta semplicità, nella sua chiara identità di frate cappuccino, augurando di tutto cuore pace e bene, convinto e lieto testimone della spiritualità di San Francesco d'Assisi.

                                                                                                                          

                                                                                                                              + Odo Fusi-Pecci

                                                                                                                                                                Vescovo emerito di Senigallia

 

 

“TROPPO PRESTO PER ANDARE IN PARADISO”

 

 

Chiuso nella stanzetta dell’infermeria un giovane studente cappuccino, Fra Bernardo Gabrielli da Offida, delirava per la febbre.  Una febbre lucida,  che gli permetteva di riflettere e di rammaricarsi della decisione dei medici,  categorici nell’imporgli di interrompere gli studi nel convento di Fermo, convinti che gli conveniva di più prepararsi all’esame di Dio che a quello degli uomini.

Aveva 25 anni, ma la pleuro-polmonite (che a quei tempi non perdonava nessuno), giustificava l’allarmismo con cui era stato frettolosamente trasportato a Macerata, tra malati ultrasessantenni. Il responsabile dell’infermeria ebbe tuttavia qualche dubbio sulla diagnosi del medico fermano, e chiamò quello del convento, persuaso che una visita più attenta e un esame più accurato  avrebbero ridestato qualche speranza.

Il medico non si fece attendere, ma si limitò a leggere la diagnosi del collega fermano; a fare qualche domanda generica all’ammalato, chiuso nel suo dolore consapevole e scavato; a informarsi sull’andamento della febbre, andandosene poi via subito,  non senza aver detto ai religiosi che si preparassero al peggio perché “è impossibile - sillabò - che un organismo così debilitato riesca a superare la malattia”.

Uscito il medico, entrò nella stanza di Fra Bernardo uno dei “sessantenni” ricoverati nella stessa infermeria, un fraticello piccolo e gracilissimo (pesava più la barba da sola che tutto il corpo), che correggeva l’andatura zoppicante con un bastone più alto di lui e che si faceva compagnia con un rosario logorato dall’uso.

“Sicché tu vorresti andartene in paradiso? troppo presto, troppo presto! Devi ancora lavorare; e molto”!

Le parole del vecchio caddero come una pioggia benefica sull’arsura di un autunno languido di siccità e scossero Fra Bernardo che lo fissò con occhi infiammati di febbre,  sorridendo amabilmente, convinto che il buon vecchietto fosse lì per dargli un coraggio che medici e malattia gli avevano ormai tolto.

“Io non avevo mai visto quel fraticello fisicamente insignificante - scrisse più tardi  - ma egli entrò nella mia stanza, e poi nella mia vita,  come una vecchia conoscenza e parlò con una sicurezza tranquillizzante”.

Se era sconosciuto a Fra Bernardo, il “fraticello” era conosciuto dagli altri religiosi, fra i quali godeva fama di santo. Non da parte di tutti, purtroppo, ma questo deponeva a  suo favore,  perché la storia è piena di santi che, ignorati in casa propria (compreso Gesù, minacciato di morte a Nazareth),  si prendono la rivincita dopo la morte, “costringendo” gli “increduli” a deporre in proprio favore davanti al tribunale ecclesiastico una volta avviato il loro processo di beatificazione.

Il “fraticello”, dunque.

Si trattava di P. Damiano da Cingoli, il “sognatore” su cui alcuni facevano troppe riserve, chiedendosi se uomini come lui  siano utili all’umanità, oppure vanno combattuti proprio per quella carica di fuga che il sogno sembra favorire. Egli era arrivato nell’infermeria dei Cappuccini di Macerata dopo una vita che va raccontata per lungo, tanto essa è piena di insegnamenti, di episodi edificanti, di miracoli che gli meritarono la “canonizzazione” popolare. Chi conosceva tutto questo credette opportuno riflettere sulle strane parole  rivolte all’infermo e si permise di consigliare la visita da parte di un altro medico, direttore del dispensario provinciale.

 Più diligente degli altri colleghi, questi visitò accuratamente il giovanissimo infermo, gli prescrisse una serie di medicine e, in capo a una settimana, egli era in piedi, sano e rinvigorito, tanto che dopo una breve convalescenza  riprese lo studio. “Va bene le medicine - scrisse Padre Bernardo raccontando l’episodio - ma io sono convinto che la mia guarigione venne dalle preghiere di Padre Damiano, il quale tutti i giorni  veniva nella mia stanza a recitare il rosario con   me e per   me”.

I contrari al “sognatore” furono serviti perché, a dispetto di ogni realismo che pretende di far tenere  a ogni costo i piedi per terra, coloro che sul momento  camminano con la testa per aria, spesso sono gli unici ad aver ragione più tardi.

Padre Damiano non si limitò alle preghiere, ma, com’è costume dei santi, caricò sulle sue spalle  la croce di Fra Bernardo. Qualche mese prima di morire disse a Fra Camillo Gattafoni a Macerata di essersi offerto vittima a Dio per la guarigione di Fra Bernardo. “E’ così giovane!”, disse.

Dio lo prese in parola e lo portò con sé  sette mesi dopo, consunto da una serie di malattie dovute non tanto all’età (61 anni), quanto alla sua impazienza di unirsi eternamente a Colui che aveva sempre amato e servito.

 

                                                                        

UNA VITA  SEGNATA  DAI  PAPI

 

 

Damiano Sfascia nacque in contrada Piammartino di Villa Strada - Cingoli - il 6 maggio 1875, tre anni prima della morte di Pio IX. Suo padre era boscaiolo e dalle piante aveva assimilato una certa durezza di carattere che stonava col nome - Pacifico - e che faceva pesare sulla famiglia, soprattutto su Angela, la moglie, impegnata a tirar su  quattro figli, a curare le faccende di casa e l’immancabile lavoro nei campi, “rituale” di tutte le mamme d’un tempo, quando non si parlava di disoccupazione della donna.

La famiglia era così povera che, non potendo provvedersi gli attrezzi agricoli, dovette accontentarsi di un orticello e d’un pollaio, adattandosi a lavorare nei campi degli altri.  Pacifico rifiutava sdegnosamente la situazione e sfogava la sua stizza sul tronco delle querce disposte in geometrie irregolari lungo i fossi che, dopo una corsa asmatica tra gli ulivi fatti piantare dal cingolano Pio VIII Castiglioni,  mischiavano (e mischiano) le acque con quelle del fiume Musone.

Stanco della situazione, un  bel giorno Pacifico decise di partire per l’Argentina, convinto che “l’altro mondo” fosse migliore di quello che lasciava. Invece lo  trovò uguale e tornò quasi subito, protestando perché neppure lì c’era “la giustizia” che cercava.

Piammartino era la frazione d’una frazione, quindi era più che assurdo parlare di strutture pubbliche, compresa la scuola. Per cui, quando il 3 marzo 1891, a 16 anni, Damiano chiese di entrare tra i Cappuccini per essere - come diceva lui - “frate penitenziale e di preghiera”, domandò di essere accolto tra i fratelli non chierici. I superiori decisero invece per il sacerdozio e lui ubbidì, piegandosi a una preparazione accelerata alla scuola del proprio parroco, don Raffaele Perugini, un sant’uomo che lo avviò al “latinuccio”, d’obbligo per chi aspirava all’altare.

Che si trattasse di una corsa contro il tempo lo si deduce dal fatto che l’anno dopo - 1892 - Damiano cominciò il noviziato a Camerino, conservando eccezionalmente il nome di battesimo, e dall’ordinazione sacerdotale, che ricevette il 4 giugno 1898  a Fermo dall’arcivescovo mons. Roberto Papiri, nella cappella dell’arcivescovado.

Un anno prima (accettate questo riferimento ai Papi nella vita di un uomo che amò la Chiesa come sua madre) aveva ricevuto il sacerdozio Eugenio Pacelli, il futuro Pio XII.

Gli anni tra il noviziato e il sacerdozio Padre Damiano li aveva passati a Trieste, dove emise la professione religiosa il 24 ottobre 1896, e dove studiò  filosofia nel convento che i Cappuccini delle Marche avevano in quella città prima che la grande guerra facesse del Veneto un meeting di tragiche sceneggiature militari allestite, si disse, per ristabilire i confini violati.

A Fermo studiò  teologia e vi terminò gli studi il 21 giugno del 1900, quattro mesi prima che Papa Leone XIII (un altro Papa!) pubblicasse l’Enciclica Tametsi futura, una stupenda trattazione mistica che mostra come nel sacrificio redentore di Cristo si trova la spiegazione ultima di tutto ciò che si compie sulla terra.

Un’Enciclica appropriata, perché gli anni della giovinezza di Padre Damiano coincidono con la “tempestosa irruzione dell’ateismo” denunciata dal Pontefice e che si riassume nel laicismo, l’atteggiamento dello spirito che rifiuta, in teoria e in pratica, la fede e tutto ciò che da essa procede, tanto che, qualche anno dopo, Pio XI lo definì “una peste del nostro tempo in cui si ritrovano, in ciò che hanno di peggio, tutti gli errori”.

Non è facile dire in che misura tutto questo si ripercosse nei conventi in cui P. Damiano completò la sua formazione; ma è facile dire che, anche se qualcosa vi approdò, tanto che alcuni ne pagarono le spese (come P. Fedele da S. Vittoria e P. Alfonso da Monsammartino, insegnanti di Padre Damiano, ai quali peraltro egli fu sempre affezionatissimo), non se ne curò molto perché, come tutti i santi, era convinto che il mondo si rinnova cominciando a rinnovare se stessi.

Un’altra ragione del suo supposto disinteresse per le vicende e le scoperte del tempo (è di quegli anni la telegrafia senza fili, il cinematografo, l’automobile, l’aeroplano e via dicendo), va cercata nella decisione che prese allorché percepì di non essere adatto all’apostolato del pulpito, ma a quello nascosto della direzione spirituale e della confessione. Concentrò quindi tutto il suo interesse sullo studio della teologia morale e dell’ascetica, discipline più consone all’attività che avrebbe svolto e alle quali mise mano subito, memore che il tempo e la grazia non si possono sciupare,  perché sono i più grandi doni di Dio.

 

                                                                   

“A  ME  PIACE  COSI’”

 

 

Dalla metà del 1900 al 1932  Padre Damiano percorse le Marche con un itinerario così vasto che permetterebbe di coprire la carta della regione d’una fittissima tela luminosa, sanguigna, imperlata di sudore e di pianto, come appaiono imperlate di rugiada, all’alba, le reti di ragno tese fra la ramaglia d’un bosco.

E questo sia perché l’itineranza del religioso ai suoi tempi era più richiesta di oggi, sia perché fu lui stesso a volerla, facendo due richieste insolite, una al Ministro Provinciale e l’altra al guardiano dei conventi che via via lo accolsero. Al primo fece sapere di essere disponibile per i conventi  “in cui nessuno vuole andare”; al secondo che non dimenticasse di affidargli “i luoghi più difficili”.

Fu accontentato, e in poco più di trent’anni passò in dieci conventi della regione, raggiunti sempre a piedi, lasciando spesso tracce di sangue sui sassi e sui pruni. Inizialmente portava i sandali, ma da quando prese per seria la burla d’un confratello che gli fece notare come il consumo dei sandali superava la spesa per i mezzi pubblici, scelse di camminare scalzo.

Come faceva nei campi di Piammartino, dove si allenò alla penitenza che prolungava anche di notte, dormendo sopra due mattoni nascosti sotto le lenzuola e flagellandosi le spalle con una corda irta di punte di ferro, fino a versar sangue.

Le sue penitenze stupiscono e, più che all’imitazione, costringono all’ammirazione. Per lui erano ovvie e naturali, per la sola ragione che Cristo ha scelto una vita di sofferenze e di privazioni. “Pensavo a te nella mia agonia; alcune gocce del mio sangue le ho versate per te. Làsciati condurre dalle mie leggi”, geme il Salvatore nel Mistero di Gesù di Pascal.

Padre Damiano non conosceva naturalmente le parole del pensatore francese, ma conosceva quelle di Gesù.

E gli bastava quello, perché lo rendeva un’icona di Dio nonostante l’abito liso, il volto in contrasto con i canoni della bellezza umana, le membra un po’ rotte, ma con gli occhi profondi e vivaci, propri di chi è abituato a scrutare le profondità del paradiso.

Nelle parrocchie in cui arrivava, non indulgeva a nessun riposo, ma si chiudeva in confessionale o vegliava in preghiera, disciplinandosi. La stessa vita  faceva in convento, dove passava le poche ore di sonno disteso su due tavole e qualche volta all’aperto.

Un giorno Padre Pietro da Montegiorgio gli chiese un paio di tavole per farci una libreria: sapeva dov’erano e voleva risparmiargli la penitenza che faceva da anni.

- Abbi pazienza, ma per ora mi servono - rispose diplomaticamente l’interpellato che sdegnava decisamente le mollezze traditrici del letto.

In altra circostanza gli fu giocato un tiro originale. Vedendolo tornare spossato dal servizio religioso in una frazione molto lontana, alcuni confratelli lo seguirono furtivamente in cella e, non appena lo videro sdraiato sul giaciglio, cominciarono a cantare il “Libera me, Domine...”, cioè il responsorio che un tempo si cantava durante le esequie.

Padre Damiano si passò una mano sulla barba irsuta per far vedere che era ancora vivo  e, stringendosi nelle spalle ossute, mormorò:

- A me piace così, che ci volete fare?

A un altro confratello che gli chiese come riuscisse a bere sempre acqua calda (che chiamava scherzosamente “acqua delle pentole” perché la prendeva nella prima pentola che gli capitava), rispose che purtroppo non c’era riuscito come avrebbe voluto e che qualche volta gli aveva fatto anche male. “Ma a Gesù in croce è stato offerto l’aceto, molto più indigesto dell’acqua - aggiungeva - quindi lasciatemi fare”.

Poi si chiudeva in camera o si rifugiava nell’orto, sedotto dal fascino delle piante limpide di plenilunio e profumate di essenze, specialmente  quando si torcevano alle struggenti melanconie dell’autunno.

 

 

 

“QUISTU MURIRA’ SANTU”

 

 

I fioretti su questo tema sono tanti e bisogna fare un scelta. L’austerità che lo accompagnò per tutta la vita e che avrebbe stroncato un soldato e sfinito un pellegrino, a lungo andare divenne una sua seconda natura. Aveva conosciuto la fatica fin da piccolo, quand’era  manovale dei muratori, e ne aveva approfittato per dare alla lama della sua anima una guaina resistentissima, d’uomo forte materialmente, nonostante l’apparente gracilità, e spiritualmente: senza debolezze, o abbandoni, o improvvise spossatezze.

Don Leopoldo Giardini, un faceto curato della campagna fermana, un giorno gli ricordò un gustoso episodio accaduto a Porto S. Giorgio. “Padre Damiano - gli disse sorridendo - ricordi quella volta che ci trovammo al Porto insieme? Io predicavo e tu confessavi; io mangiavo e tu facevi penitenza”.

P. Damiano accennò un lieve sì con la testa e non rispose.

Tutti sapevano, d’altronde, che mangiava l’indispensabile per sopravvivere, rifiutando sistematicamente carne e vino. Quando nelle canoniche veniva portata a tavola la carne, lui si affacciava garbatamente in cucina e diceva:  ”Per me lo sapete, vero?” E gli veniva portata a tavola una bella porzione di verdura cotta. “Se non poteva far questo - ha scritto Padre Bernardo Gabrielli - tirava fuori qualche battuta di spirito o qualche episodio curioso, pur di condurla per le lunghe ed evitare di mangiar carne o bere vino”.

Capitava anche che fosse lui stesso a portare alle varie “perpetue” le verdure da cuocere, offertegli dai contadini o raccolte da lui stesso nei campi ondulati di vento e ridenti di acque chiacchierine.

Il parroco di Curetta di Servigliano se lo vide arrivare in casa accaldato e sfinito in un torrido pomeriggio estivo. Certissimo che fosse ancora digiuno, gli fece preparare due uova. ”No, don Angelo, grazie: ne basta solo uno”, supplicò con la poca voce che gli rimaneva.

Quando era in convento da solo (accadeva spesso, soprattutto a S. Vittoria in Matenano, dove visse per anni in compagnia delle acque e delle stelle) faceva di “peggio” perché mischiava minestra e cenere, rispondendo a chi una volta lo colse sul fatto: ”Va bene così; l’uomo non fa quello che non vuole”.

Quando a Fermo venne a mancare il cappellano del cimitero,  la gente chiese che venisse sostituito da Padre Damiano, conoscendone l’amabilità, la disponibilità e soprattutto la capacità di confortare in momenti particolarmente dolorosi. Il superiore si oppose, giustificando così il rifiuto.

- Se fa tanti sacrifici in convento, sotto la sorveglianza del guardiano che lo frena e lo regola con la sua autorità - disse -  che cosa farebbe sentendosi libero e solo?

Quello che stupisce di più, comunque, non è la sua penitenza, ma il sorriso con cui la faceva. Sono molti quelli che soffrono, ma pochi solitari riescono a irradiare luce dal loro dolore. La faccia scura danneggia l’etica e l’estetica. Padre Damiano appartiene a questa aristocrazia spirituale di anime penitenti che corporalmente riflettono una sensibile felicità che in lui  traspariva anche dalle spiritose battute in latino maccheronico che muovevano al  sorriso,  sdrammatizzavano situazioni critiche, risolvevano quelle imbarazzanti, invitavano benevolmente a riflettere.

Se vedeva qualcuno pavoneggiarsi con ninnoli costosi e vistosi, indicando il cimitero, diceva: "Sed non portabis illuc” (sarai sepolto senza di loro). A chi gli faceva notare che quel suo stile di vita era il modo  migliore per rovinarsi la salute, rispondeva:”Ego scio, ego scio, lo so, lo so”.

Ma non mutava vita.

A Cingoli sfidò coraggiosamente la neve per soccorrere le monache di S. Sperandia.  Racconta suor Rosaria Zenobi:”Un anno, per le abbondanti nevicate rimanemmo isolate nel monastero. Trascorsi tre giorni, quando non c’era speranza che qualcuno potesse venirci in aiuto, sentimmo suonare il campanello alla porta: era P. Damiano.

Dal convento dei Cappuccini aveva azzardato di venire da noi, avendo grande pena in cuore perché eravamo senza Messa, senza comunione e bisognose, forse, di qualche aiuto.

Arrivò tutto coperto di neve e bagnato di sudore per lo sforzo e lo strapazzo. La madre Badessa volle che entrasse nel monastero e passasse per la clausura, per risparmiargli il tragitto esterno fino alla chiesa.

Attraversando la cucina, dov’era acceso un bel fuoco, non si fermò neppure un attimo a scaldarsi né ad asciugarsi, ma andò direttamente a celebrar Messa, zuppo e affaticato com’era.

Terminata la celebrazione, felice  e contento di quell’atto di carità, se ne tornò in convento, lasciandoci commosse fino alle lacrime”.

“Altra volta - continua a narrare suor Maria Rosaria - venne da S. Vittoria a Cingoli a piedi. Devotissimo di S. Sperandia, volle fare un pellegrinaggio dalla cittadina ascolana al suo sepolcro a piedi e digiuno, passando la notte sotto un albero per un breve riposo. Arrivato al santuario passò ore e ore in ginocchio davanti all’urna della santa, ma senza alzare il velo che ne copre le reliquie. Quando gliene chiedemmo il motivo, rispose sorridendo che S. Sperandìa sapeva e vedeva bene che lui era lì e che anche lui sapeva la stessa cosa, per cui non occorreva altro”.

Volle subire tre operazioni completamente sveglio. Dovendo asportare un tumore sul lato destro del collo, il chirurgo insistette per l’anestesia, ma lui rifiutò stendendosi sul lettino e dicendo:”Son pronto; tagli pure, che non mi muoverò”. E dire che aveva orrore del sangue!

Quello che per gli altri poteva sembrare assurdo, per lui era naturale: andare a piedi, fermarsi a parlare con i contadini, confessare sul ciglio della strada, cadere sfinito a terra, bere al beccuccio d’una sorgente che scendeva dal monte, inginocchiarsi sul sentiero con un bestemmiatore per suggerirgli le parole con cui chiedere perdono (era intransigente con i bestemmiatori e con chi non santificava la festa), togliere dalle spalle d’una donna un fascio di legna e caricarlo sulle proprie, erano gesti così spontanei in lui  (e così insoliti negli altri), che tutti lo seguivano come si segue qualcuno che, ancora vivo, è già leggenda.

Bello l’episodio del bestemmiatore, che va rievocato nella sua plasticità: da gruppo marmoreo scolpito all’aperto.

Padre Damiano camminava per la campagna, quando sentì una bestemmia che rotolò nell’aria come un tuono.  Traballò come se fosse stato colpito da uno schiaffo, ma si riprese subito, tolse i sandali e corse verso il bestemmiatore, costringendolo a fermarsi mettendosi a braccia larghe in mezzo alla strada. L’uomo si fermò e Padre Damiano, puntandogli contro l’indice, gridò: “Dio non si offende! Scendi e inginocchiati per chiedergli perdono”.

Ci fu un accenno di reazione, ma poi l’uomo scese e si inginocchiò vicino  al frate, chiedendo perdono a Dio. Poi si alzò rasserenato, e solo  allora Padre Damiano si accorse che il cielo era azzurro e che le rondini vi tracciavano pentagrammi senza note.

Tutti sentivano di dover essere migliori accanto a un uomo che cercava solo le anime, liberandole dal freddo artiglio di satana. Qualcuno non l’accettava; qualche altro lo considerava un semplicione, uno “sciapetto” da compatire; altri ancora lo scambiavano per un esibizionista  e quasi un denigratore di tutti gli affetti, lontano mille miglia da quel Gesù che nel Vangelo manifesta più soavità che asprezza.

C’era anche, però, chi riconosceva in lui il soffio dello Spirito che spira come vuole, perfino come l’uragano. L’importante è saperlo riconoscere e saperlo amare nella sua aspra realtà.

Gli umili lo riconoscevano e lo amavano in Padre Damiano, senza porsi le dotte domande dei sapienti e dando ai suoi atteggiamenti i colori giusti e la meraviglia necessaria. In alcune sue azioni c’è lo spirito dei Fioretti francescani, anche se non c’è la pagina. Per questo, rispondendo a chi la pensava diversamente, la gente comune diceva:”Quistu murirà santu!”

Anche se il mondo è “un lodatore di virtù finte”, come diceva Leopardi, qualcuno va controcorrente, vede giusto e sa scoprire la perla nascosta nel campo.

 

             

IL VENTO SULLA VELA

 

Nato sotto la protezione d’un santo, Padre Damiano “doveva” raggiungere la stessa meta. Il nome gli fu posto infatti perché le difficoltà della nascita si risolsero quando la mamma lo affidò a uno dei due santi medici orientali (Cosma e Damiano) detti anargiri, perché curavano i malati gratuitamente. Le difficoltà furono serie, se fu deciso di battezzarlo subito, completando più tardi le cerimonie in parrocchia.

Per una di quelle rivelazioni che lo Spirito riserva agli eletti, capì fin da piccolo il valore della sofferenza e la cercò con gesti superiori all’età. Quando Angela, premurosa come tutte le mamme, si alzava  di notte per controllare il sonno dei figli, rimboccare le coperte, chiudere la finestra o aprirla, secondo l’umore delle stagioni, spesso  non lo trovava a letto, ma  sull’uscio, sdraiato per terra e con un mattone per cuscino.

A una zia che lo rimproverò perché, oltre a mettere in ansia la mamma, si rovinava la salute, rispose:”Lasciami perdere: tu non sai quanto bisogna soffrire, se Gesù ha sofferto tanto”.

Fin da piccolo, Damiano percepì l’esperienza della croce allo stato di avvenimento  e non di memoria, considerandola non solo come un fatto attuale, ma da imputare a se stesso: Cristo soffre per causa mia. D’altronde l’oggetto d’ogni esperienza cristiana della croce non può consistere in una semplice pratica della compassione, ma deve arrivare alla autoimputazione. Come avvenne a tanti santi, egli arrivò al punto di non leggere più la passione di Cristo, ma di pensarla e di riviverla nella sua piccola vita.

Solo così si spiega la scelta di camminare sempre a piedi e scalzo; di rifiutare il refrigerio d’un bicchiere d’acqua; di astenersi dal vino e dalla carne; di scegliere sempre l’ultimo posto. Fin dai primi giorni di convento rinunciò volutamente al riposo e ai pochi momenti di svago, impegnandosi nei lavori dell’orto, della cantina, della chiesa, impaziente di migliorare una coltura, di riparare una porta, di abbellire un altare che voleva in ordine e pulitissimo. Una volta, da sacerdote, minacciò di non celebrar Messa  se non gli permettevano di cambiare un tovaglia sudicia di cera e di vino.

Nel 1895 affrontò senza anestesia l’operazione dell’ernia, trovatagli quando passò la visita militare a Udine, cosa che ripeté più tardi quando gli fu asportata un’escrescenza mascellare, giustificandosi col dire che Gesù in croce rifiutò l’anestesia  che si offriva ai condannati.

Trovandosi a Fermo con Fra Marcellino da Capradosso e Fra Giuseppe da Rapagnano, gareggiò con tutt’e due in penitenze e preghiere, esortandosi a vicenda a “fare senza parlare”, noncuranti dei sorrisetti di compassione che li circondavano, ma che più tardi cedettero il posto a un’ammirazione che dura ancora e che non finisce di riferirsi a loro quando si parla del recupero del  “vero spirito cappuccino”.

Duro con se stesso, era però estremamente attento alle necessità degli altri, in convento e fuori. A S. Vittoria lastricò da solo, pietra dopo pietra, una scorciatoia che collegava il convento al paese, stanco di veder la gente arrivare in chiesa inzaccherata di terra o bianca di polvere; aiutò i contadini a migliorare le case; a portarvi l’elettricità; a canalizzare acque sorgive. Imbracciò vanga e zappa per aiutare le donne rimaste sole in casa durante la guerra; scrisse e lesse le lettere che esse si scambiavano  con gli uomini al fronte; aiutò per anni una mamma a sfamare e imboccare il figlio disabile; procurò medicine e ghiottonerie agli anziani e ai  malati. Una signora conservò a lungo in casa una bottiglia di rosolio ricevuta da lui, che ne conobbe il malcelato desiderio di averla.

Nel frattempo  insegnava una preghiera; educava alla bellezza della fede; alla purità del mistero cristiano; richiamava un pagina di catechismo; si univa al rosario che sentiva recitare, inginocchiandosi vicino all’uscio; diceva  parole di conforto. “Su, su, coraggio - disse a una donna che aveva una famiglia numerosa - se continui così ce la farai: la tessera per il paradiso è assicurata”.

A Cingoli si interessò per far portare l’elettricità fino alla famosa Piazza Padella, contattando gli uffici competenti di Falconara e S. Severino Marche, che raggiungeva sempre a piedi. In convento collaborò attivamente a scavare il pozzo che si trova ancora accanto alle mura di cinta, “vestito di tuta, madido di sudore, sporco di polvere e di fango”.

Durante il servizio militare, che svolse per un paio di mesi nel 1918, prima a Brescia e poi in Ancona, si addossò i servizi più faticosi e più umili, nonostante le beffe di chi lo considerava un “buono a nulla”, compreso un capitano che lo umiliava continuamente solo perché era un frate.

A S. Pietro Morico  aiutò  due fratelli angosciati per il fallimento a cui stavano esponendosi per la crisi che aveva colpito il loro lanificio. A situazione ormai disperata, arrivò lui, capì che il male veniva dal loro disaccordo, li rappacificò, benedisse lo stabilimento e il lavoro riprese immediatamente. Il primo panno che uscì dai telai fu per lui, per una tonaca nuova. Accettò e fece cucire la tonaca, ma non la  indossò mai.

A Macerata, a Cagli, a Fossombrone, a Cingoli, a Iesi... ovunque lasciò il ricordo d’un atto di bontà, di un gesto di misericordia, di una cortesia, di un rimbrotto (“aveva le ugnette” disse di lui un confratello), di una goccia di sangue sui sassi, di un’estasi... risposte generose allo Spirito che soffiava sulla sua vela.

 

 

                                                            

GRAN  MEDICO  DELLE  ANIME

 

 

La santità è un’esperienza spirituale, interiore, consumata principalmente fra l’anima e Dio. Ciò che ne appare all’esterno non è mai tutto: resta sempre un margine vastissimo, incontrollabile, di possibilità e di sorpresa, senza aggettivi correnti. Oltre quel margine il cuore e la testa dell’uomo non possono avanzare con i ferruzzi della critica e dell’induzione storica, ma solo con gli abbandoni della fantasia e le sfide della preghiera.

Non è facile, perciò, parlare dell’apostolato più specifico e più nascosto di Padre Damiano, scelto, pare, per l’incapacità di esporsi in pubblico con la predicazione, ma più esattamente perché gli permetteva di trasmettere meglio alle anime la passione per la santità.

“Gran medico delle anime - scrisse il dott. Pierluigi Perri, che fu ricondotto da lui sulla strada della verità - con pronto intuito faceva la diagnosi, con la bontà attraeva, con la semplicità guidava, con l’esempio convinceva. Con i penitenti fu sempre benevolo e indulgente, accogliendoli con volto amico e con parole incoraggianti”.

Sempre. E’ un avverbio da sottolineare vigorosamente, perché mai a nessuno disse: “Aspetta, ora non ho tempo”. Era troppo convinto che l’anima è bella e santa perché amata da Dio e non che è amata da Dio perché è bella e santa per non andarle subito incontro.

Qualsiasi anima, fosse quella della lavandaia di Fossombrone, del postino di S. Ippolito  o quella di Alberto del Fante, il massone convertito da Padre Pio e suo primo biografo. Padre Damiano lo incontrò  mentre tornava a Fermo in treno e ne divenne il confidente, il confessore e il padre spirituale. Per vari anni ogni metà del mese arrivava al convento di Macerata per una giornata di ritiro insieme a lui, “stemperando vicino alla sua dolcezza  la rigidezza  con cui lo trattava P. Pio”.

Del Fante gli portò il dott. Giorgio Festa, il medico incaricato di controllare le stimmate di Padre Pio. Anche lui ne divenne un penitente assiduo e devoto.

“Se è morto da santo - ha scritto Egle Paoloni Caferri - è proprio perché era sempre pronto a confessare la gente e perché usava tutti i mezzi per indurre qualcuno a confessarsi”. A Pasqua escogitava l’impossibile per indurre gli uomini a confessarsi, andandoli a trovare girava nelle officine, nelle botteghe, per i campi, impaziente di vederli riconciliati con Dio. “Tutte le anime debbono tornare a chi le ha create - diceva - preghiamo perché questo avvenga. Ci sono tanti pesci; uno tira l’altro. Preghiamo”.

Quando riconsegnava gli orologi riparati e gli veniva chiesto quanto gli fosse dovuto, rispondeva:

- Niente, ma vatti a confessare.

Appena veniva chiamato lasciava tutto, compresa la colazione o  il pranzo,  e si chiudeva in confessionale, da dove più volte fu tirato fuori svenuto per la stanchezza e il digiuno.

Alzarsi da mensa per confessare gli accadeva spesso, ed era conseguenza logica di quello che compiva  ogni mattina sulla mensa dell’altare. L’Eucaristia non sopporta la sedentarietà, ma spinge a servire gli altri, perché altrimenti sarebbe un sacramento incompiuto. Gesù nel cenacolo lo “completò” lavando i piedi agli apostoli. Padre Damiano lo completava lavando le anime con dedizione ammirevole, persuaso di servire e di raggiungere così Colui col quale desiderava rimanere per sempre.

“Avevo 17 anni quando mi confessai da lui la prima volta - ha scritto Medusa Capodagli da Fossombrone - e  rimasi talmente colpita dalla sua bontà, che scaturiva da quella di Dio, proponendomi che bontà e solo bontà doveva essere il programma della mia vita. Tra tanti altri cappuccini, anche di rilievo, il santo era lui; ed era lui il confessore più ricercato. A Fossombrone confessava in duomo e più d’una volta, mentre si incamminava verso la chiesa, diceva alle donne che vedeva pigrire al sole: “Mi chiamo frate Sfascia e confesso tutti i giorni nella cattedrale: vi aspetto. Poche deludevano la sua attesa”.

Sempre a Fossombrone era a disposizione delle lavoratrici della seta che passavano quasi tutte al suo confessionale al mattino presto o al pomeriggio, dall’una e mezzo alle 18. A quell’ora, d’inverno, era buio fitto, ma esse lo trovavano sempre là. Andavano volentieri, attratte non dal suo aspetto, che non incoraggiava davvero ad ascoltarlo, ma dalla sua mitezza, dalla sua bontà e dalla sua comprensione, così rare che non si incontravano in nessun altro. Le pochissime volte che non lo trovavano in chiesa andavano a piedi al convento, nonostante la salita per arrivarvi”.

Con lui, epigone di una lunga schiera di santi vissuti nel convento, il colle era diventato un rogo di luce.

La testimonianza di Paolo Valentini, di S. Ippolito, è corsa da una trepidazione che la rende umanissima. Bel ragazzo, amante dei festini, mangiapreti convinto e deciso, non tralasciava un ballo e arrivò perfino a giurare di uccidere il prete del suo paese, spinto dal galateo malavitoso degli amici.

 Non lo fece perché trattenuto da un amico e da un ammonimento  dello stesso sacerdote: “Paolo, se ascolti le mie parole, vali più di me che te le ho dette”.

Dopo vari propositi di cambiar vita, tutti regolarmente disattesi, compreso quello fatto nella trincea sul Bainsizza, finalmente incontra Padre Damiano e dice subito: “Ho trovato chi mi salverà”.

Stupendo mistero questo nascere improvviso della fede!

“Dopo la prima confessione - aggiunge Paolo - iniziarono per me tre anni di gaudio spirituale, soprattutto perché mi disse che in capo a sei mesi “il diavolo non sarebbe più stato padrone della mia vita”. Avvenne proprio così.

Per incoraggiarmi a lasciare il peccato mi parlava d’una penitente che ne aveva combinate più di Carlo in Francia, ma che poi era diventata una cristiana esemplare. I santi sono riusciti, diceva, perché non dobbiamo riuscire noi?”

A distanza di anni, Paolo parlava di Padre Damiano con l’entusiasmo e l’ammirazione del primo incontro, vivendo così esemplarmente che la figlia Elvira ha scritto:”Com’è bello aver avuto un babbo così! Le virtù che maggiormente ammiravo in lui erano la fede e la sincerità. Faceva tutto senza vergognarsi, anche se sapeva di essere deriso”.

Cosa diceva ai penitenti Padre Damiano? “Poche cose e in forma quasi ingenua - ha scritto Padre Bernardo Gabrielli - ma aveva un grande ascendente sul penitente, per cui ogni sua parola era accettata con molta devozione. Inoltre sapeva suscitare un’estrema confidenza. Aprirsi con lui era facile, perché comprendeva le azioni più delicate, trovando la parola adatta per ogni circostanza”.

Quel suo parlar semplice (non usava Gesù le patois de Canaan, il dialetto di Canaan?) era una scelta per far capire che lo scoraggiamento non doveva prevalere sulla speranza, né il lamento sulla letizia di riavvicinarsi a Dio. La novità delle sue poche parole stava nel silenzio che lasciavano nell’anima appena le udiva.

Nessuna meraviglia, perciò che davanti al suo confessionale ci fosse sempre gente “come alla fiera”, ha detto una donna; che davanti alla sua cella dell’infermeria approdasse gente che veniva da lontano; che lo chiamassero perfino i detenuti nel carcere penale di Fossombrone; che ci fosse anche chi voleva confessarsi soltanto da lui. Perfino in punto di morte.

A Sant’Elpidiuccio di Montélparo un contadino disse chiaramente ai familiari che lo invitavano a ricevere gli ultimi sacramenti: ”Solo se viene Padre Damiano”. Egli ne fu avvertito e a piedi da Cingoli corse a  raccogliere l’ultima confessione del moribondo, salvando in extremis una partita spirituale che sembrava persa per sempre. Non fu la prima volta, del resto, che Padre Damiano decidesse una gara tra il bene e il male al novantesimo minuto.

Altre volte fu avvertito da voci non umane.

A Fossombrone assisteva da tempo una giovane di 28 anni,  tubercolotica e provata da una serie di sventure familiari: morte del padre e del fratello, dissesto finanziario e perdita del lavoro. “Il 12 novembre del 1928 - scrive Medusa Capodagli - a ora insolita Padre Damiano si recò a casa dell’inferma per confessarla e confortarla. Non fu chiamato da nessuno, perché non c’erano stati peggioramenti.

Finita la confessione se ne andò. Ma aveva appena passato il ponte sul Metauro, che si diffuse la notizia della morte dell’inferma. Padre Damiano aveva misteriosamente presentito che la mia amica era alla fine.

Il fratello dell’ammalata ne fu talmente commosso che propose di confessarsi anche lui”.

E’ spontaneo, parlando di Padre Damiano confessore, riferirsi a quanto avveniva in quegli anni a Padova con S. Leopoldo Mandic e a S. Giovanni Rotondo con S. Pio da Pietrelcina, cappuccini come lui. Padre Damiano non ha avuto attorno al suo confessionale le loro folle oceaniche, ma ha avuto certamente la loro stessa santità, messa a servizio degli umili, com’è dovere di ogni servo premuroso del popolo di Dio.

Servo che cammina col popolo, col compito di sveltirne la lentezza del passo e imprimere alla sua itineranza i ritmi di un’accelerazione carica di attese. Servo attento a non esasperare nessuno, ma anche coraggioso  per smascherare e combattere i vizi palesi e nascosti dei ricchi come dei poveri, perché egli vedeva in tutti la dignità della persona, riconoscendo la loro fondamentale uguaglianza e rispettando i tratti caratteristici della loro distinzione.

 

 

 

 

“SE E’ CELESTE, CHE  VADA  IN  PARADISO”

 

 

 

Parlando di Padre Damiano come confessore, sarebbe riduttivo considerarlo un uomo adatto solo a convertire  peccatori incalliti nel male; a invitare al sacramento della riconciliazione anime che non vi si accostavano da tempo; a raddrizzare i sentieri della vita di quanti lo cercavano per raccontargli le loro pene, chiedendo conforto. Anzi, per chi ne conosce a fondo la vita e lo spirito, questo è un aspetto secondario, perché innanzitutto egli è stato un plasmatore di anime. La luce che gli splendeva nelle mani callose di lavoro sembrava nascosta e flebile, ma come tutti gli asceti e i mistici, egli la rivolgeva verso le anime, avviandole verso la sua sorgente, trasformando le pietre d’inciampo in pietre di guado.

Sentire Gesù (come Gemma Galgani, egli poteva dire di “essere nato per Lui”) significava per lui trasmetterlo agli altri, anche a quelli che non lo “capivano” pienamente, ma che pian piano, grazie alla sua benevola insistenza, desideravano “conoscerlo”.  Gli bastava questo, perché nel desiderio  di conoscere Dio non solo c’è una specie di vaccinazione contro il male (il desiderio è una medicina, e la medicina non è una conquista, bensì un aiuto), ma c’è soprattutto la spinta decisiva verso la virtù, non imposta, ma sollecitata, allevata, educata.

“La confessione per lui - ha scritto Medusa Capodagli - più che un ascoltare e un ricevere i peccati, era l’occasione per animare e risvegliare, per avviare al miglioramento, mentre per il fedele era il momento per accogliere l’esortazione o il consiglio, che riaccendeva la speranza e la fiducia”. Il tutto con voce dolce come un accordo d’arpa, ma provocatrice come un rimorso incrostato sulla coscienza degli interessati.

“Il terreno della vostra anima è pronto - disse a una signora di Fermo, dimostrando un’intelligenza tenuta lucida dalla contemplazione - cosa risolvete di fare? Per la via della perfezione non dobbiamo camminare a passo, ma correre senza stancarci. Da voi vorrei una cosa: che siate sempre contenta senza mai contentarvi. Mi capite cosa voglio dire con questo?”

“Ho capito”  rispose la donna, che dimostrò con la vita di aver afferrato la forza allusiva delle parole negli echi di rimando.

Un’altra che capì bene quello che  diceva, fu una ragazza di S. Vittoria,  la città in cui Padre Damiano passò molti anni della sua vita religiosa. Il giorno della festa di S. Valentino si chiuse di buonora in confessionale, uscendone verso mezzogiorno per celebrar Messa e con una sorpresa davvero insolita. Il cuscino  del confessionale gli si era stranamente attaccato alla tonaca e non riusciva a staccarlo. La gente in un primo tempo sorrise, vedendolo così impacciato e palesemente indispettito,  poi si indignò e alla fine si commosse. Si seppe, infatti, che il fidanzato della ragazza, convinto che essa  fosse entrata in monastero  su suggerimento del frate, si era vendicato spalmando una tubetto di pece sul cuscino incriminato.

Nessuno invece protestò quando entrò in convento un altro suo penitente, un certo Domenico Biondi da Rapagnano, nonostante i parenti fossero contrari. Più tardi Padre Damiano si trovò con Domenico - diventato Fra Giuseppe da Rapagnano -  nel convento di Fermo, insieme al Servo di Dio Fra Marcellino da Capradosso,  gareggiando con tutti e due nel fuggire comodità e privilegi, armi pesanti che, come quelle di Saul, non permettono di abbattere Golia.

Esigente,  efficace e insonne pur di stabilire il regno di Dio nelle anime,  non era però importuno. “Le nostre conversazioni - ha detto Pierluigi Perri - erano tutt’altro che pesanti. Esse toccavano argomenti di vita devota, di morale, e sfumavano intorno alla bellezza del creato, alle meraviglie della natura, alla virtù delle erbe, alla bontà degli uomini”.

Usava anche le parole forti, ma solo con chi sapeva che avrebbe saputo capirle.  “Il Signore vi fa le grazie, ma voi non volete accettarle”, disse a una donna che non si decideva a mutar vita. Alla risposta che la buona volontà non mancava, aggiunse: “Sì, potrà anche esserci, ma è come avere volontà di dare un pezzo di pane al povero, senza però metterglielo tra le mani”.

Dava consigli vedendo lontano. Una giovane particolarmente bella e agiata  gli chiedeva da tempo che voleva farsi suora, ma lui non sembrava dar peso alla cosa. Finalmente un giorno in tono quasi ispirato le disse:”Andate pure, ma ricordatevi che dalle suore sarete maltrattata e dai frati malvista. Se ve la sentite, partite pure, altrimenti restate a casa”.

La ragazza era decisa e partì, ma si avverò subito quello che le aveva detto P. Damiano. La superiora la guardava di traverso e non la voleva. Padre Damiano lo seppe,  corse al convento e redarguì risolutamente l’interessata, che rispose con meditato puntiglio. “Avete l’anno di noviziato e non é giusto rimandarla così; se non va, provvederete dopo”, tagliò corto il religioso.

Passò del tempo e il fraticello si riaffacciò in convento per chiedere informazioni. “Padre Damiano - le rispose sorridendo la superiora - di buone figliole ne ho avute tante, ma come questa mai”.

Non sempre aveva bisogno della confessione per capire lo stato delle anime: a volte gli bastava solo uno sguardo. “Allorché incontrò una mia consorella - racconta suor Maria Rosaria Zenobi - sospese il lavoro che stava facendo in monastero, la seguì a lungo con uno sguardo penetrante e disse che avrebbe fatto un’ottima riuscita se avesse trovato un buon direttore spirituale, altrimenti avrebbe avuto e dato noie “con quel carattere che si fa trascinare”.

I fatti gli diedero ragione, giacché suor Maria Teresa, “quella giovane”, ebbe una sua storia spirituale tutta particolare.

A me successe qualcosa di simile perché, stringendomi un giorno i polsi mi disse che non potevo fare i lavori che facevano le altre, perché molto più debole di loro. Naturalmente risposi che non era vero, che potevo far tutto, ma lui insistette, dicendomi chiaro e tondo che non dovevo portare “quel” cilicio né fare la disciplina con “quel” ferro irto di punte o addirittura con la corda.

Avrei voluto insistere, ma lui tagliò corto sostenendo che mi avrebbe portato lui una disciplina adatta e di cui mi sarei dovuta servire. Infatti qualche giorno dopo mi fece chiamare in parlatorio e me la diede. Inutile dire che l’ho conservata come il suo ricordo più caro.

Nel 1920 a Cingoli infierì “la spagnola”, l’epidemia che fece migliaia e migliaia di vittime in tutta Italia. Ammalai anch’io e si temette per la mia salute, anche perché il medico aveva detto che non c’erano speranze. Avevo 19 anni e nel monastero si diffuse una comprensibile tristezza.

Una sera arriva Padre Damiano e chiede mie notizie. “State tranquille, Maria Rosaria non morirà. Fatele bere due sorsi d’acqua e guarirà”. Da tempo non potevo ingerire niente, tuttavia feci il possibile per bere i due sorsi consigliati da P. Damiano e guarii subito.

Qualche mese dopo egli tornò e gli fu chiesto di pregare per  suor Alma Celeste, gravemente inferma. “Se è celeste, lasciatela andare in paradiso”, rispose. E in capo a dieci giorni la suora morì”.

Una donna di Sorbolongo (un paesino vicino a Fossombrone) ammalò gravemente e i medici le prescrissero una medicina molto costosa. Non avendo i soldi per comperarla, pensò di chiedere aiuto a Padre Damiano e si incamminò verso il convento dei Cappuccini. Attraversando la ferrovia le venne in mente di aspettare il passaggio del treno e lasciarsi morire fra le rotaie, ma vinse il desiderio di incontrarsi con il frate che tutti dicevano santo.

Egli le parlò con calma, invitandola a confidare in Dio e nel Beato Benedetto; la benedisse e la mandò via confortata e...affamata, perché, arrivata a casa, mangiò tanto pane da sentirsi sazia. Era una cosa che non faceva da tre anni; ma sentì di doverlo fare perché nel pane trovò la sua guarigione.

Ci sono molti altri episodi che rivelano il suo spirito profetico e che la gente riteneva  il frutto naturale della sua unione con Dio. Con  amore impaziente essa non gli concesse l’appuntamento con la morte per crederlo santo. Accade infatti che, mentre il verdetto della Chiesa docente è possibile soltanto sopra la tomba dei santi, il popolo cristiano si riprenda con loro, ogni tanto, qualcuno degli antichissimi diritti, di quando eleggeva  vescovi e canonizzava gli uomini che stimava di più.

Padre Elia da Cupramontana (un vero uomo di Dio anche lui) racconta che a Fossombrone arrivò un telegramma che annunciava la morte della mamma d’un religioso. P. Damiano sentì leggere il telegramma e disse subito:

- Che? tua madre è morta? Ma no, sta’ tranquillo, non solo non è morta, ma avrà ancora qualche anno di vita”.

Quando, nel 1927, morì a Iesi Padre Fedele da Monterado, un esimio musicista e un religioso di esimia virtù, Padre Damiano ne diede notizia ai confratelli in tempo reale. Mentre stavano conversando, egli si fece improvvisamente serio e disse che in quel momento il buon religioso era morto. Quando arrivò la notizia ufficiale, si constatò che tutto era avvenuto nel giorno e nell’ora annunciata da lui.

Congedando un giorno Paolo Valentini di S. Ippolito, il postino da lui riportato a Dio, disse:

- Tornate presto o non mi rivedrete più.

- Parte, forse? - chiese con apprensione il penitente.

- O muoio o vado via...Ma forse non morirò; andrò via.

Infatti ammalò abbastanza seriamente, ma si riprese e fu trasferito.

Anche se si conosce la risposta, è naturale chiedersi dove attingesse luce,  forza e intuizioni profetiche un uomo così equilibrato, prudente e corretto, doti di un uomo veramente superiore. Se glielo avessero chiesto, probabilmente si sarebbe confuso, ma nessuno glielo chiedeva, sapendo che passava gran parte del giorno e della notte a “parlare con Gesù”, che è un modo di vivere, perché Dio è cosa che non si può possedere senza sentire il bisogno di possederne di più. E’ come l’amore, che più ti ama più lo ami. E’ il tesoro che si aumenta aumentandosi.

“Un giorno - racconta Padre Eusebio da Cagli (altro santo con la S maiuscola) - mi recai a fargli visita nell’infermeria di Macerata. Non trovandolo da nessuna parte, mi fu detto di dare un’occhiata in cappella. Aperta la porta, lo vidi in ginocchio davanti all’altare con il viso e le mani protese verso il tabernacolo, come fuori dei sensi, senza accorgersi del rumore fatto dalla porta e dalla mia presenza.

Lo chiamai, ma stentò a muoversi e a tornare in sé, come chi si sveglia da un sonno profondo”.

Conoscere gli altri è notizia, curiosità. Può essere cultura. Conoscere Cristo è vita, è possedere la visione e la soluzione del nostro destino. Quem nosse vivere.  La vita è conoscere Lui, la sua persona, più ancora della sua dottrina. C’è chi ha detto che il vero conoscere è espresso bene dal verbo francese co-naître, che dice di un conoscere che è un nascere insieme. Un vero conoscere. Quello dei santi.

Altri confratelli attestano che, davanti al tabernacolo diceva parole che avevano il sapore di cose vedute. “Non lo vedi quel bel Gesù? Eccolo, eccolo, sta qui! Quanto è buono! quanto ci ama!”

Al Padre Provinciale che, trovandolo d’estate in chiesa sudato e con un respiro affannoso, gli chiese come stava, rispose:

- Bene, Padre Provinciale, molto bene.

- Eppure dal respiro non si direbbe.

Padre Damiano indicò il tabernacolo e rispose:

- Meglio di così? C’è Lui; c’è Lui. Quando c’è Lui tutto va bene; anzi, benissimo.

Egli viveva in uno stato eucaristico permanente e vi trascinava anche gli altri. A Cingoli entusiasmò tanto i seminaristi verso l’Eucaristia che tutti raccolsero una sua idea audace: mettere insieme i loro oggettini d’oro e fonderli per farci la chiavetta del tabernacolo.

Poiché a tanta intimità con Dio  non si arriva improvvisamente, ma dopo una lunga contemplazione, va detto che Padre Damiano viveva costantemente di Dio e per Dio. Qualcosa di simile aveva sostenuto secoli prima con altre parole  S. Bonaventura da Bagnoregio, affermando che la sapienza cristiana consiste in estatici rapimenti  e non in statici compiacimenti. La mente deve essere continuamente rapita, e velocemente rapita, dalle creature al creatore, dalla terra al cielo.

Probabilmente P. Damiano non conosceva il testo di S. Bonaventura, ma ne aveva ereditato lo spirito.

Che é cosa molto più importante.

 

                                                                                    

 

 

 

 

MAI OZIOSO  E  MENTALMENTE  SEMPRE  IN  PARADISO

 

Dovendo ora parlare della devozione alla Madonna di Padre Damiano,  devozione  autentica, perché divenuta imitazione, ci si può servire di  una mistica francescana di cui egli non conobbe gli scritti, pur conoscendone il nome. Si tratta della Beata Battista Varano da Camerino, vissuta tra il 1458 e il 1524, autrice di molte e originalissime opere di carattere ascetico-mistico e autobiografico.

Fra le prime c’è una Novena alla Vergine che è un piccolo capolavoro di riflessioni sulla vita della Madonna, adatte a inserirvi un rapido riassunto della vita di Padre Damiano. Partendo dall’umiltà della Vergine e dal suo silenzio durante la permanenza al tempio, la Beata Battista indugia su alcuni momenti della sua vita, dicendo che non era “mai oziosa e mentalmente sempre in Paradiso”, fedele alla preghiera notturna, dalla quale “quando si partiva, pareva che dalla sua verginale faccia uscissero raggi di splendore”.

Portando Gesù nel grembo, insieme con lui cresceva in lei “il suo amore e il desiderio di adorare questo Dio piccolino”, tanto che i nove mesi della gestazione le parvero “le mille migliaia di anni”, durante i quali cresceva in lei “il desiderio di popparlo”.

“Fortificata da esso dolce Gesù” e superato il doloroso periodo di Natale e della fuga in Egitto, durante il quale si nutrì di solo “pane e acqua alle rare fontane incontrate”, ella trovò “tutto il paradiso”  vivendo “in dolce sua compagnia a Nazaret”.  “O regina del paradiso - scrive la Beata - che cosa sarebbe stato vedere tutt’e due mangiare in povera mensa, solo con pochi frammenti di pane e un piccolo vaso d’acqua!”

Una volta iniziata la vita pubblica, Maria “si affliggeva la mente quando  chiamavano il Figlio suo seduttore del popolo, indemoniato, bevitore di vino, bestemmiatore, e quando vedeva le diligenze dei giudei in farlo morire...Così è da sapere che per nostra cagione ella patì tanti dolori e afflizioni”.

Dopo la tragedia del calvario, durante la quale “il suo cuore pareva al tutto diviso al mezzo”, la Varano descrive l’apparizione del Risorto alla madre (felice intuizione, alla quale  noi siamo arrivati solo oggi!), l’Ascensione (“ella lo mirò tanto assorta che quasi le pareva salire insieme con il Figlio”)  e la Pentecoste (“la Vergine aveva questo desiderio più per gli apostoli e per tutti i fedeli, che erano e che dovevano venire, anziché per lei medesima, perché essa ne era già tutta piena”), trascorse gli ultimi anni “in ogni esercizio spirituale di orare, meditare, contemplare nel suo oratorio che era tutto un paradiso, dove il suo viso diventava più splendido dello stesso sole.

Ella - conclude la Beata di Camerino - è l’unico rifugio e conforto di tutti gli eletti...e sarebbe disposta a morire per tutti se fosse di necessità”.

Mettendo accanto a queste pagine la vita di Padre Damiano (passi l’audacia della sinossi!), ci si accorge come egli abbia impostato la vita sul modello di quella della Vergine benedetta descritta dalla Beata Battista.

“Mai oziosa e mentalmente sempre in paradiso”, scrive la clarissa. Padre Damiano fu un lavoratore instancabile, impegnato nell’orto, nel convento, nei campi dei contadini, nella piccola officina in cui riparava orologi e attrezzi di ogni genere, rivelandosi un artigiano abile e paziente. Portò la luce elettrica o l’acqua nei conventi (a S. Vittoria fece gli impianti da solo). Nel monastero di S. Sperandia a Cingoli, scrisse suor Maria Rosaria Zenobi, “con capacità fece tanti lavori nella chiesa (il lucernario del cupolone) e nel monastero (impianto elettrico). D’estate riparò tutto il tetto sotto il sole cocente, a piedi nudi sopra i coppi infocati, da solo e con umiltà e generosità inaudite, senza chiedere o accettare ristoro. Certi giorni, per non sospendere il lavoro, non tornò in convento neppure per mangiare, e nemmeno volle nulla da noi in monastero. A mezzogiorno diceva che avrebbe mangiato più tardi; alla sera che ormai era notte e doveva tornare in convento.

Un anno passò un’intera giornata ad addobbare la chiesa per la festa di S. Sperandia, togliendoci da un grosso imbarazzo perché, dato che il sacrestano era stato chiamato alle armi, non sapevamo proprio come fare. Fu un lavoro di grande pericolo e che richiedeva molta attenzione; ma, abile, industrioso e attento com’era, se la cavò alla perfezione”.

Tuttavia rispettò sempre la gerarchia dei valori, tenendo conto della classifica giusta delle cose che contano. Prima Dio, poi il resto; fare diversamente l’avrebbe considerato un addentare le bucce rinunciando al frutto che c’è dentro.

“Quando si partiva dall’orazione pareva che dalla sua faccia verginale uscissero raggi di splendore”, scrive la Beata Battista della Madonna. Le testimonianze sul raccoglimento di Padre Damiano si sprecano. “In attesa delle confessioni, stava inginocchiato dietro l’altar maggiore con il volto coperto dalle mani...Quando, uscito dalla sua estasi, si accorse che lo stavo aspettando - ha scritto un confratello - si scusò e si mise subito a mia disposizione”. E un altro: “Se dovessi dire che cosa mi ha impressionato di più in lui, direi che è stata la sua perseveranza nella preghiera”.

Senza di essa anche Padre Damiano avrebbe battuto l’aria e avrebbe dato anche lui “uno scorpione a chi gli chiedeva un uovo” e “un serpente a chi gli chiedeva un pesce”.

“Stava in preghiera immobile, con grande riverenza, tanto da muovere alla compunzione e alla tenerezza chi, non visto, l’ammirava”.    “La sua Messa non aveva nulla di eccezionale, e non era nemmeno lunga. Eppure si percepiva di assistere alla celebrazione fatta da un santo per il raccoglimento e l’atteggiamento profondo di fede e di umiltà che esprimeva”. “Quando si allontanava dall’altare sembrava un altro e così leggero che sembrava non toccasse terra”.

Se è vero, come diceva Barth, che Dio ha tempo per l’uomo, l’uomo deve aver tempo per Dio perché solo così si potrà fruire in tempi brevi di ciò che le sapienti strategie umane non possono ottenere.

“Durante il viaggio in Egitto, Maria si nutrì di pane e acqua alle rare fonti incontrate”, scrive la Varano. Padre Damiano fu talmente povero che fu paragonato a S. Francesco. Portava sandali “che sembravano fatti apposta per camminare con difficoltà e disagio”; viveva in una celletta  disadorna e poverissima, le cui imposte sembravano le palpebre della morte; andava a piedi nudi anche nella stagione più fredda; aveva solo due tonache, una per la notte e l’altra per il giorno, greve di asprigni sudori di campo;  un solo fazzoletto che divideva in due. Installando l’impianto elettrico nel monastero di S. Sperandia “confezionò gli isolatori con pezzi di canna e gli interruttori con pezzi di legno uniti a forma di forbici. Legava il filo elettrico agli isolatori con filo comune, che noi aiutanti dovevamo tagliare preciso per non mancare allo spirito di povertà”.

Esagerazioni? Può darsi, ma dettate solo da un amore sincero per una virtù eminentemente francescana e in difesa della quale Padre Damiano a volte alzava insolitamente la voce.

“Se si permetteva qualche garbata osservazione - ha scritto Padre Bernardo Gabrielli - era soltanto quando i superiori, secondo lui, lasciavano  un po’ correre sulla povertà. Egli non vedeva solo la poesia della povertà, ma ne considerava l’esercizio come l’unico e insostituibile mezzo di vita spirituale, indispensabile per ogni vero figlio del Poverello d’Assisi, il termometro unico della spiritualità cappuccina”.

“Il suo oratorio era un paradiso...” conclude la Varano nella Novena, parlando della Madonna. A S. Vittoria Padre Damiano aprì un oratorio per i giovani in cui curava la catechesi, preparava alla confessione e ascoltava la gente che voleva parlargli. “In questo modo - ha scritto un testimone - fece rifiorire tra i giovani e nel popolo la fede, formando più d’una generazione cristiana. L’oratorio fu per tanti anni un luminoso faro di vita”.

Il ricordo dell’oratorio (che richiama alla memoria le “Cappelle serotine” di S. Alfonso M. de’ Liguori a Napoli) durò a lungo a S. Vittoria e ridestò scintille di speranza nel cuore di tanti giovani per i quali Cristo era forestiero, la Chiesa un’estranea, il Vangelo un brandello di ricordi infantili.

E’ chiaro che l’oratorio  di cui parla la Varano non era fatto di pietra, ma di carne: inutile dire che Padre Damiano “costruì” anche questo. Da lì  nasceva la devozione per i santuari mariani, soprattutto quello di Loreto (il primo luogo che visitò dopo il servizio militare fu proprio questo) e dell’Ambro; lì coltivava la preghiera prolungata davanti alle immagini della Madonna; da lì scaturiva lo zelo con cui celebrava le sue feste; fioriva la devozione ai quindici sabati, ai cinque venerdì dell’Addolorata e al mese di maggio;  lì crescevano i digiuni del sabato; lì si moltiplicava la recita delle antifone mariane; si destavano l’orante veglia nella notte della “Venuta” e la fedeltà inflessibile al breviario e al rosario, recitato “spesso  in ginocchio e con gli occhi pieni di lacrime”.

Lì nacque anche il perdono che chiese e accordò a un confratello che lo aveva contrastato sempre e in tutto, tentando perfino  di infangarne il nome con una denuncia che solo il tempestivo intervento del Superiore Provinciale fermò sul nascere. Tutto nacque dall’invidia, che la Beata Battista Varano chiama “mala bestia cruentata del sangue del prossimo e a cui nessuno riesce ad abbassare la rabbia”.

“E dire che lui fece l’impossibile per non coprire con la propria ombra le facce di chi aveva intorno. Aveva tanto rispetto per gli altri e tanta amorevole carità che “se i piedi dei confratelli santi non erano, a lui però così sembravano”.

Il suo rifiuto di “credere male del suo prossimo” non era cecità dinanzi all’evidenza del fatto, ma soltanto rifiuto d’un giudizio; un atto che lui temeva sia perché solo Dio è giudice, sia per evitare di crearsi dentro un cuore maligno. All’udito per sapere, egli preferiva l’occhio che non ha bisogno di intermediari. Ma il suo occhio guardava senza scorgere, per questo non dava mai giudizi.

Nessuno come lui lavorò per  ridestare la devozione alla Madonna nelle famiglie portando immagini, rosari, suggerendo la recita delle giaculatorie, insegnando canti (per la sua benevola intromissione nelle case lo chiamavano ”padre ‘mpicciatellu” ) e opponendosi energicamente a presunte apparizioni che alimentavano il fanatismo, distogliendo dalla vera devozione. Frequenti gli inviti a rivolgersi alla sua intercessione, come consigliò a un giovane confratello in difficoltà (“Guarda Maria Immacolata, sarà pulita tutta la tua vita e santa la tua morte”) e alle ragazze dell’oratorio di S. Vittoria: “Siate buone, brave e sempre devote della Madonna.  Quando vi sorprende qualche tentazione o viene qualcuno a darvi fastidio, pregate la Madonna; dite tre Ave Maria, anche solo con la mente, e vincerete sempre”.

Le sue parole semplici e disadorne facevano capire a tutti dov’è la fontana a cui attingere le acque della speranza e della fiducia e ognuno poteva così  dissetarsi alle sorgenti ristoratrici.

Fu la devozione alla Madonna a fargli presentire che sarebbe morto in prossimità d’una delle più grandi sue feste: morì infatti il 23 agosto, al termine dell’ottava  dell’Assunta.

 

 

             

PIOGGIA DI GRAZIE

 

“Viveva immerso nel soprannaturale. La sua fede profonda, nutrita di soda pietà, alimentava la sua vita interiore e la sua attività esteriore”.

La gioia che percorre questa breve testimonianza di don Giuseppe Selandari si respira in ogni parola: Padre Damiano vi brilla di una luce senza intenti di intempestiva glorificazione, semplice e convincente come la vita di Frate Leone,  di Frate Bernardo da Quintavalle o di Fra Ginepro, Frati dei  tempi di Rivo Torto o della Porziuncola. I tempi di Francesco, insomma.

L’agiografo (sit venia verbo!) a volte si scoraggia di fronte a carenze documentarie che occupano  certe zone della sua indagine e compromettono in parte avvenimenti e giudizi. Ma accade anche che un’intera documentazione su un fatto o su una persona  focalizza di meno un’esistenza di quanto fa una sola frase che riporta un’esperienza vissuta,  come  questa testimonianza scritta su un quadratino di carta lucente di grazia. Per conoscere un paesaggio basta anche la luce d’un fulmine che lampeggia.

Da quella fede profonda scaturivano i fatti meravigliosi che la gente chiamava miracoli e che la solerzia di Padre Fulgenzo da Lapedona (a cui si deve la prima biografia del Servo di Dio Fra Marcellino da Capradosso) ha raccolto a Macerata e Montegiorgio. Ci si domanda a quali e quanti risultati si sarebbe arrivati, se la ricerca fosse stata estesa a tutti gli altri luoghi (e sono tanti!) in cui visse Padre Damiano.

Accontentiamoci di questi, anche perché ad Amelia Foresi, non sapendo come comportarsi quando fu pregata di raccontare qualche episodio miracoloso, lo stesso Padre Damiano disse che non occorreva  parlare, visto che la Madonna gli voleva così bene che avrebbe pensato Lei a glorificarlo sulla terra.

Noi però possiamo raccontarne qualcuno, pur senza essere curiosi nell’indagare, né voler apparire ingenui tessendo un panegirico.

Il 3 ottobre del 1933, primo venerdì del mese, Padre Damiano disse alla signora Foresi di prepararsi ad accettare una grave malattia del marito, avvocato Tito Tacci, di Mogliano, con studio a Macerata e a Civitanova. “Per la festa di Cristo Re - disse - sarà colpito da una paralisi. Pregate insieme a me perché non muoia”.

Avvenne proprio così. Il 29 ottobre, mentre a Civitanova si preparava per andare a Messa, l’avvocato si irrigidì come un blocco di marmo. Fu trasportato subito a Macerata e si telefonò a Padre Damiano perché l’indomani andasse a visitarlo. Egli andò, si rese conto della gravità del male e chiese di appartarsi  per pregare. “Prima pregò a mani giunte - ha raccontato un testimone - e occhi chiusi; poi levò lo sguardo, come se guardasse qualcuno che gli parlava e lui approvava col capo. Poi gli si irradiò il volto di gioia, sorrise e, sorridendo con gli occhi scintillanti, disse istintivamente:’Grazie’.

Stando ancora in ginocchio, si voltò verso la signora Amelia e le disse:’La Madonna mi ha concesso la grazia’. Poi si alzò, si avvicinò all’ammalato, lo benedisse e gli fece un carezza sulla guancia, comunicandogli che la Madonna l’aveva esaudito, però lui doveva comprare una campana grossa per la chiesetta della Sacra Famiglia nella contrada di Poggio Imperiale. L‘avvocato, che  era ancora senza parola, mostrò tre dita per far capire che ne avrebbe comprate tre, come disse poco dopo alla moglie che era in cucina a preparare il caffè per Padre Damiano.

Vivrà ancora sette anni - aggiunse il religioso - poco più poco meno. Un anno dopo morirà tua madre. Infatti l’avvocato morì il 14 gennaio 1941 e la mamma della signora Amelia nel febbraio del 1942”.

Sempre alla signora Tacci - alla quale rivelò di non aver mai commesso un peccato mortale - raccomandò di farsi operare d’ernia, prima che fosse trasferito un chirurgo che le ispirava tanta fiducia. La signora non sapeva nulla del malessere, anche perché i medici non le avevano detto niente. Tuttavia ubbidì e si fece operare.

Il chirurgo intervenne subito, ma disse al marito che la ferita non si sarebbe rimarginata, per cui la signora fece chiamare Padre Damiano per l’ultima confessione. Egli arrivò col suo passetto stanco e chiese all’inferma se voleva vivere o morire. “Se, vivendo, dovessi perdere l’anima, preferisco morire”, rispose lei. “Allora dovete vivere”, concluse lui tracciando un segno di croce sulla ferita che rimarginò subito.

 

Davanti all’immagine della Madonna nella chiesa dei Cappuccini fu vista un giorno una donna che piangeva disperatamente accanto a una nipote incinta, paralizzata dal terrore  di portare in grembo un cadaverino. La signora Amelia, che era lì per caso,  se ne interessò subito e corse a cercare Padre Damiano, il quale era in sacrestia e si presentò prima di essere chiamato. “La Madonna ti fa la grazia - disse alla ragazza prima ancora che qualcuno aprisse bocca - ma tu prometti che d’ora in poi guarderai solo tuo marito”.

La ragazza strabiliò. Chi aveva potuto dire a Padre Damiano che il marito aveva avuto un diverbio con un suo presunto spasimante?

“Eccoti un po’ d’olio della lampada di Gesù - continuò a dire Padre Damiano consegnandole un batuffolo d’ovatta zuppo d’olio - ma a Lui non si può prendere l’olio senza restituirlo, perché la lampada gli fa compagnia giorno e notte. Ungi il braccio e la gamba e dì tre Ave Maria alla Madonna al mattino, a mezzogiorno e alla sera. In cambio, una volta a casa, sarai guarita”.

Inutile dire che avvenne proprio così.

 

Rosa Bozzi, madre di Amelia, si precipitò  un giorno a Macerata per farsi  accompagnare  dalla figlia da Padre Damiano perché voleva raccomandargli sua nuora in pericolo di vita per un parto prematuro, complicato dalla propria nefrite purulenta. Padre Damiano stava confessando e le due donne si rassegnarono ad aspettare. A un certo punto egli scostò la tendina del confessionale e disse ad Amelia: “Dite a vostra madre che se ne vada, perché penserò a tutto io”.

E richiuse la tenda.

Rosa protestò. “Come pensa a tutto lui, se io non gli ho detto niente”. “Mamma, prendi il treno e vattene - consigliò Amelia - quello sa già tutto”.

Quando arrivò a casa, Rosa fu salutata dal pianto del nipotino, nato durante la sua breve assenza, e dalle lacrime di consolazione della nuora, guarita dalla nefrite.

 

Un giorno fu chiamato a fare un esorcismo a Sforzacosta. Risalendo in automobile dopo aver liberato l’uomo, batté così violentemente sul predellino della macchina che cadde a terra,  procurandosi una  grossa piaga sul polpaccio della gamba destra. Amelia (è sempre lei che racconta) gli portò una boccettina. “L’accetto per i Frati - disse Padre Damiano - perché la mia piaga deve rimanere così”.

Il superiore gli impose per obbedienza di farsi curare dal prof. Barone, che intervenne con un unguento “capace di guarire la piaga in quattro o cinque giorni”.

“Sarà - commentò Padre Damiano - ma la mia non guarirà, perché l’ho avuta per espiazione”.

E se la portò nella tomba.

 

Altre grazie sono state ottenute dai suoi parenti in Argentina; qualcuna è stata ottenuta nelle Marche dopo la sua morte e altre se ne ottengono oggi, tanto che si è deciso di aprire il processo  per la beatificazione.

Che probabilmente si avrà, se è vero che la Madonna lo promise a Padre Damiano con poche parole che egli rivelò fugacemente, come se gli fossero sfuggite nell’attimo d’una distrazione.

 

 

 

VERSO L’ETERNITA’

 

                                                            

Anche sul giorno più lucente di sole cade rapida la sera. Soprattutto se la giornata è stata turbata da sconvolgimenti atmosferici, che, nella vita degli uomini, corrispondono alle malattie, e in quella dei santi alle penitenze.

“Padre Damiano - ha scritto una sua devota - non poteva morire vecchio perché troppo penitente”. Infatti a 57 anni cedette. Colpito da un ictus che lo paralizzò parzialmente, menomato nella vista, sofferente di nefrite e con una piaga purulenta sotto il ginocchio sinistro, fu mandato da Montegiorgio nell’infermeria di Macerata.

Accettò il trasferimento e le malattie, ma non  si sentì dispensato dal lavoro, lieto di essere incaricato della “diaconia di Cristo”, come diceva S. Ignazio di Antiochia. Sostenuto dal bastone, visitava i confratelli a letto, si informava sulle loro condizioni di salute, sbrigava servizi adatti alle sue possibilità, ascoltava le confessioni di penitenti che venivano anche da lontano (don Vincenzo Lanci arrivava periodicamente da Fossombrone), spazzava la chiesa, passava ore e ore inginocchiato davanti all’altare a pregare per tutti come l’uomo che “soffre le cose di Dio” (Pati divina, diceva S. Tommaso) e  quelle degli uomini ( Pati humana ).

“Libero dalle funzioni di chiesa e dall’insegnamento - ha scritto don Oreste Prosperi - correvo al convento, aprivo la porta, mi affacciavo sulla navata e vedevo P. Damiano con la corona in mano accanto al tabernacolo. Sembrava una visione”.

“Lo trovai a letto, malato - attesta don Filippo Piccinini, fondatore delle Ancelle della Misericordia - chiuso in una stanzetta e tutto raccolto in un atteggiamento di commovente bontà e umiltà”.

Negli ultimi mesi di vita, tra una confessione e l’altra, anziché prendersi una boccata d’aria come gli veniva consigliato da medici e confratelli, rimaneva in stanza recitando il rosario “perché solo così - diceva mostrando la corona - si convertono i peccatori e si salvano le anime”. A volte succedeva che non arrivasse nessuno, soprattutto d’inverno, quando il giorno stenta a nascere dalla nebbia ed entra in agonia a mezzogiorno. Allora qualcuno, storpiando un passo della Bibbia, gli diceva: “Padre Damiano, io li chiamavo, ma essi non correvano”.  Mostrando la corona, sorridendo rispondeva:”Con questa, se non oggi verranno domani!”

E’ stupendo l’apprezzamento intransigente che egli ebbe della confessione sacramentale, ritenuto un mezzo decisivo nella vita spirituale. Egli la considerava la tappa d’una progressiva conversione, un itinerario della luce, un sacramento irrimpiazzabile quasi alla pari del battesimo; una vera rinnovazione del battesimo. Nella sua “povera” teologia egli era certo che, come il battesimo sta all’origine della fede come abito infuso, così la confessione produce carità teologale e lume nella mente.

Noi oggi ne abbiamo fatto il frutto di precetti istituzionali, sostenendo che  nella forma odierna è opera di monaci, introdotta molto tardivamente, tant’è vero che un Concilio (il Lateranense IV, del 1215) parla della sua sufficienza, “almeno una volta all’anno”.  La “scoperta” ci ha dato la stessa soddisfazione che può dare una libertà riconquistata. Per questo, però, la vita cristiana scade sempre più.

Chi ha vissuto il sacramento della riconciliazione come l’ha vissuto Padre Damiano dice che le più grandi grazie ricevute sono connesse alle povere confessioni fatte ai piedi d’un sacerdote; che le esperienze mistiche più profonde sono da attribuire alla potenza di questo sacramento, non tanto perché ci si può liberare da eventuali peccati, ma per l’esperienza amorosa che si fa del Sangue redentore di Cristo.

Durante la malattia mai un lamento, mai un’impazienza, certo che Gesù è il nostro cireneo. “Eppure - ha scritto P. Bernardo Gabrielli - a detta dei medici curanti, i vari mali che lo tormentavano dovevano procurargli dolori lancinanti, che lo costringevano a una dieta severa, resa anche più austera dal suo spirito di penitenza, e gli consentivano a mala pena di trascinarsi penosamente e pesantemente lungo i corridoi dell’infermeria.

Nonostante tutto era sempre sereno, a volte addirittura allegro, tanto da trasmettere buonumore ai confratelli infermi con qualche battuta di spirito, qualche frasetta latina, come usava spesso, con il racconto di qualche episodio vivace. Sembrava che non fosse malato, ma che si trovasse nell’infermeria per edificare e sostenere gli altri”.

Bella questa sottolineatura sulla sua letizia, perché dimostra che, nonostante il peso della giornata terrena, gli era rimasto un sorriso d’avanzo per chi era più tribolato di lui.

Fedele alla levata antelucana, faceva la Via Crucis, si immergeva nella meditazione, si abbandonava a un interminabile ringraziamento dopo la celebrazione della Messa e poi cominciava il giro delle stanze, dicendo ai malati: “Diciamo il rosario?” E cominciava senza aspettare risposta.

Avendo costruito il quadro di riferimento della sua esistenza con le schegge della croce, aveva raggiunto un equilibrio evangelico, frutto di buon volere e di opere buone. Non era mai stato superiore, ma aveva imparato a comandare sul più arrogante dei sudditi: il proprio io. La sua spiritualità, prima che una dottrina, fu un perenne atto battesimale nelle acque della misericordia di Dio.

 Un uomo che stava scrutando l’aurora dell’ultimo mattino, non poteva dimenticare Colei da cui è sorta quella vera, per cui viveva in simbiosi con Maria, il cui rosario teneva costantemente così stretto che il pollice restò malformato per sempre. Guardandolo si capiva che cosa Dio diventa per l’uomo che lo ama “con fede profonda e senza ritegno” (S. Bernardo).

La malattia precipitò e finché fu possibile percepire il bisbiglio delle sue parole, furono udite solo invocazioni e preghiere. Morì il 23 agosto, a ridosso della festa dell’Assunta.

Non avendo un abito decente, fu sepolto con quello che gli diede Fra Camillo, l’infermiere che lo assistette negli ultimi mesi di vita e che gli trovò nella stanza solo un rocchetto di filo e un ago. Se avesse dovuto fare testamento, avrebbe dovuto lasciare solo l’anima e il corpo, “ché certamente, per amore e desiderio ed affezione, altro non possedeva in questo mondo”.

A S. Vittoria in Matenano suonarono le campane  e fu indetto un lutto pubblico.

Il suo volto, ruvido ma bello per l’anima che vi affiorava con un sorriso che sembrava una lama di luce, divenne  come l’aveva dipinto 50 anni prima Cesare Pavisa affrescando a Fossombrone la cappella in cui si conservano le reliquie del Beato Benedetto da Urbino, fresco, giovane, luminoso, come se un’aureola precorritrice ne avesse anticipato la gloria che la Chiesa domani potrebbe riconoscergli.

Chi non vorrebbe morire così?

 

Cinque anni dopo la signora Amelia Foresi, moglie dell’avvocato Tacci, chiese di poterne esumare la salma per metterla in un loculo, memore di quanto aveva fatto per il marito.

Racconta Fra Edoardo Baldassari: “Andammo al cimitero con una cassa di lusso, suscitando le meraviglie del custode, il quale diceva che bastava una cassettina di pochi soldi, perché avremmo trovato solo un mucchietto d’ossa. Invece, nonostante che il coperchio della cassa con cui era stato sepolto fosse rotta in più parti, trovammo il corpo integro, coperto di carne, le guance coperte dalla barba che tutti conoscevamo. La tonaca era tarlata e le mani leggermente nere.

Il superiore, Padre Giuseppe da Civitanova, era fuori di sé; il custode non voleva credere ai suoi occhi”. L’unica che non si meravigliò fu proprio la signora Tacci, perché ricordava perfettamente quanto Padre Damiano le aveva detto poco prima di morire. “Morirò presto, però fra pochi anni mi  rivedrai”.

 

Durante l’ultima guerra un ufficiale tedesco che guidava un plotone in ritirata si aggirava per le campagne di Villa Strada di Cingoli con una carta topografica in mano. Cercava Piammartino, segnato sulla carta come “grosse Dorf”, grande villaggio. Quando gli indicarono le poche case che compongono il villaggio esclamò:”Das ist seher klein,  ma questo è piccolo!”

Chi dice che domani, se avverrà davvero la beatificazione di Padre Damiano, Piammartino non finisca sui libri di preghiera, dove ogni cosa diventa grande?

 

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