Papà Natale lasciò come al
solito i suoi pacchi sotto l'albero e mia madre riempì le due calze con frutta,
cipolle, dolci e tanto carbone solamente nella mia. Ma il più bel regalo arrivò
da Vittorio.
«Conosco una puttana bellissima, che ne dite?»
«Io con le puttane non ci andrò mai!» sbottò Loffredo.
«Zitto chierichetto! - urlò
Vittorio -Tu sarai il primo a entrare.»
Scoppiammo a ridere perché conoscevamo il tormento di mio fratello: si
era invaghito follemente del più bel culetto di tutta la classe, Irene Statera
che però filava con uno della terza F. Non aveva mai avuto il coraggio di
dichiararsi e, pur continuando a toccarsi per lei, aveva dato sfogo alla sua
frustrazione arrivando, per esibizionismo, a masturbarsi in classe quella volta
che la supplente d'italiano, forse dimentica o forse no che la cattedra non era
coperta, aveva divaricato le gambe aggiustandosi lo slip troppo aderente.
Per tre mila lire a testa,
spiegava Vittorio, la diabolica Remì, francese puro sangue, ci avrebbe fatto di
tutto. Ventidue anni, pulitissima, "abitava" al secondo piano di un
vecchio palazzo, in Via Arno 5 A: garantiva lui che c'era già stato.
Sedotto dall’idea, chiesi:
«Non è uno scherzo?»
«Su queste cose non scherzo
mai!» rispose serio.
«Quando?» domandò
Loffredo con la bava alla bocca.
Ci guardammo come cospiratori.
«Anche domani» concluse
Vittorio.
Quel bagno fu il più lungo della
nostra vita. Ci strigliammo come cavalli e ci riempimmo di profumo fin sotto le
ascelle, Ho-hang di Balenciaga, quello che usava nostro padre.
Sul portone trovammo Corrado,
vestito come noi, e dentro i nostri loden blu c’incamminammo verso via Arno:
Daniele, già smanioso, ci aspettava passeggiando nervosamente davanti al bar
all’angolo della strada. Davanti al numero 5 trovammo Vittorio.
Una gentilissima signora
dall'accento straniero ci fece accomodare in un piccolo salotto con i divani
azzurri. La luce soffusa veniva da un lume rosa vicino alla finestra e si
spandeva delicatamente sulle pareti tappezzate da piccole riproduzioni
dell'impressionismo francese, in particolare spiccava quel fiocco di un blu
intenso dell'abito di una donna seduta sulla sabbia, di Renoir.
Non sembrava l'anticamera di una puttana, ricordava stranamente il
salottino d'attesa, pulito, ordinato e intimo del nostro medico di famiglia.
Chissà perché mi venne in mente questo paragone.
Corrado poggiò il pacchetto di
Turmac rosse sull'elegante tavolinetto di cristallo, già stracolmo di ninnoli e
io ne accesi una mentre Daniele, vicino a me, tamburellava con le dita sulle
ginocchia. Loffredo si mordeva distrattamente le unghie e Vittorio gli
gesticolava davanti come un orso in gabbia. Corrado, sbracato nella sua
poltroncina, cercava di distrarsi aspirando profondamente. Per due volte tentò
di farsi uscire gli occhi di fuori, tossendo.
Entrò per primo Daniele, nessuno
lo aveva stabilito ma fu il più lesto ad alzarsi quando ricomparve l'anziana
signora, poi andò mio fratello. Corrado lo spingemmo addirittura a calci mentre
ancora tossiva come un tubercoloso. Io
entrai dopo di lui e per ultimo Vittorio che, appena mi vide in piedi, pronto
per entrare nella stanza di Remì, mi bisbigliò: «Non puoi sbagliare!»
Correva a dirmi questo tutte le volte che dalla lunetta mi concentravo
per i tiri liberi, e non aveva tutti i torti: si trattava pur sempre di fare
canestro.
Alcune foto porno, che forse
sarebbe più appropriato definire osé, giravano già tra i nostri banchi: erano
quei piccoli calendari profumati che Dino, il barbiere, regalava con grande
discrezione. Ogni mese una bambola bionda, bruna, rossa, con seni enormi e
cosce da capogiro, vestita solamente di indumenti intimi e volgari che facevano
esplodere la nostra fantasia. Remì non era niente di tutto questo: alta, pelle
chiara, capelli castani tenuti su da uno chignon volutamente trascurato, e un
reggiseno a balconcino su cui poggiavano due tette piccole e perfette
sormontate da una ciliegina marrone.
Il ventre, armonioso e liscio come una valle svizzera, aveva un
minuscolo pozzo, profondo, al centro e il reggicalze nero incorniciava un'oasi
altrettanto scura, invitante. Le gambe erano lunghe e affusolate.
Mi accolse nella sua stanza in
piedi, statuaria, e con un cordiale sorriso mi invitò a spogliarmi. Perché una
donna così bella si vendeva? Rimasi in mutande e calzettoni ai piedi del letto.
«Anche quelle mon amì!»
disse calma e, distesa a cosce larghe, si fece montare.
Il pube era curato: piccoli
ciuffi finemente attorcigliati a virgola, il suo corpo profumava e i capezzoli
erano morbidi.
«Oh lalà! Il est grand!» esclamò. «Vuoi che
lo prenda in bocca? Oui?» e s’impossessò del mio pisello.
Lo vedevo entrare e scomparire
in quella voragine e sentivo la sua lingua battermi sulla punta come tante
martellate nella testa.
«Vuoi godere così?»
chiese con dolcezza, ma ripensai alle parole di Vittorio, e risposi che
desideravo scopare.
«D'accordo, mon amì»
sussurrò. Sollevate le ginocchia, guidò con le mani la mia penetrazione.
Che caldo provai! Scivolai
dentro come se quello fosse stato da sempre il mio nascondiglio, mentre lei,
cingendomi la schiena con le gambe, mi spingeva ancora di più nel suo ventre.
Strana sensazione di profondità, sentirsi materialmente perso e avere invece
ben chiari i confini dello spazio in cui agisci. Muovi i primi passi come fossi
nel buio, fino a che ti senti sicuro e cominci a correre, correre, correre… non
hai più paura d'inciampare ma, all'improvviso, cadi in un vuoto senza fine e
senza tempo, il buio inonda la tua mente e ritorni piccolo, spaesato, stanco ma
felice. Avevo goduto.
«È la prima volta, vero?» chiese con delicatezza. Era troppo
dolce per essere una puttana.
Risposi un timido sì.
«Quanti anni hai?»
continuò.
Frattanto che mi rivestivo, raccoglieva i miei soldi nel primo cassetto
del comò, davanti al letto.
«Sedici a marzo.»
«Vraiment ? Tu es un garcon bien
roulèe, mon cher. Torna a trovarmi, au revoir!» e
richiuse il cassetto.
Scendemmo le scale come pavoni,
più leggeri di testa e di tasca con tante domande che si accavallavano
frenetiche. Ognuno con un particolare da confessare o un'impressione da
sottoporre al giudizio degli altri.
Vittorio si era addirittura
scritto tutti i nostri tempi: venne fuori che il più veloce era stato Daniele,
mentre mio fratello, acclamato come la tartaruga del gruppo, non aveva
assolutamente voglia di parlarne.
Corrado, invece, fantasticava
sulla melodiosità della voce di Remì, sulla sua dolce erre moscia, fino a
dichiarare che, per questo, avrebbe sicuramente scelto una francese come
moglie.
Vittorio non si lasciò sfuggire
il tempo per una battuta:
«Così ogni tanto ce la
presti!» gridò, scatenando le nostre risate.
Daniele, ancora più eccitato,
rifletteva ad alta voce sulle curve ma soprattutto sulle tette di Remì.
Sapevamo cosa sarebbe successo: avrebbe speso con lei tutte le sue paghe
settimanali per un anno intero.
Ci fece rivivere il suo orgasmo e quando raccontò che alla fine della
prestazione aveva addirittura chiesto lo sconto, mancò poco che ci rotolassimo
in terra per il gran ridere, costringendolo poi a ripetere il racconto per più
di una volta.
«Sabato io torno» concluse alla fine trasognato.
Nessuno però rispose, pensavamo tutti la stessa cosa. Forse.
Il pomeriggio terminò in una
sala giochi, ma oramai ci sentivamo grandi per quel posto dove si giocava al
flipper e non ci divertimmo: che potere ha una donna!
Gli altri ci salutarono e noi
due c’incamminammo in silenzio verso casa, ognuno assorto nei propri ricordi.
Intuivo però che Loffredo fremeva. Voleva sicuramente raccontarmi la sua
esperienza ma non lo agevolai per niente.
«È stata una vera tortura, credimi!» piagnucolò all'improvviso.
Con la mano mi afferrò un braccio e sottovoce aggiunse:
«Ogni volta che provavo a
scoparmela perdevo l’erezione.»
«Forse perché sapevi che era una
puttana.»
Ero fermo, dritto davanti a lui e lo guardavo incredulo.
«Non lo so… ho dovuto pagare
il doppio per venirmene…» rispose abbassando gli occhi «… le ho chiesto
il cu....»
Scoppiai in una fragorosa risata
ma lui, serio, continuò:
«E se fossi frocio: un lurido
invertito che proverà piacere soltanto in quel modo... ti rendi conto?… Voglio
morire.»
Si
aggrappò alla mia spalla. Sembrava che avesse veramente paura e la sua voce era
monocorde.
«Se volevi farmi crepare d’invidia ci sei riuscito, se devi rompermi
le palle: cambia aria» dissi, e scoppiammo in una fragorosa risata.
Quella sera non mi addormentai
subito, m’interrogai fino a notte sulle emozioni della giornata e, nonostante
la bile per l’ingegnosa “frociaggine” di mio fratello, mi convinsi d’essere
diventato un vero uomo.
Onnipotenza d’un sano amplesso.
(Da Aa.
Vv.: Dalla lirica alla prosa, pp. 199-203; Edizione O.L.F.A. 2002, Ferrara, pp.
446)
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