O.L.F.A
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ANNO
VI NN. 27/28 LUGLIO-AGOSTO/SETTEMBRE-OTTOBRE 2002 FERRARA
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Ivan Plivelic - Ferrara
PENSIERI
DI UN INTEGRATO QUALSIASI
È un giorno qualsiasi, sto camminando per
una strada che ho già percorso innumerevoli volte, ma oggi, è come se non
l’avessi mai vista. Eppure, se mi sforzo un po’, mi vengono in mente tanti
ricordi che sembravano assopiti nella memoria.
La feci la prima volta
il giorno d’arrivo in questa città, che non credevo sarebbe diventata la mia
dimora definitiva. Dietro di me avevo tagliato i ponti con la mia terra,
pensando di non poter ritornare mai più. È un paese non tanto lontano ma ci
vogliono i soldi e poi quando ci vado m’accorgo che non è più come una volta.
Strano, ma mi sento quasi uno straniero, più che qui in Italia. Quarantacinque
anni sono troppi, cambiano le usanze e pare che la mia lingua madre non sia
aggiornata. Mi sento sospeso tra due entità, due culture, due lingue e… due
cucine. Forse, per essere felice, dovrei uscire da questo connubio abbandonando
il passato ma so che non è possibile, e allora cerco disperatamente di far
convivere in me questa duplice personalità che si è creata.
Tentai nei primi decenni
di camuffarmi per un nativo italiano, integrarmi ad ogni costo. Abbandonai la
lingua madre, non pensavo, non scrivevo più in quella e quando capitava di
incontrare dei compaesani balbettavo quasi. Era una vergogna. Poi, le cose di
una volta ritornano inevitabilmente, il “travestimento” perfetto non riesce per
qualche inflessione sbagliata, per una nota storica locale, si scopre il foresto. Ed i rapporti umani cambiano
immediatamente: i più incominciano a semplificare il linguaggio “per facilitarmi”,
parlando alla maniera dei Baluba, altri, più intelligenti fanno alcune domande
educate ma non si va di là degli aspetti folcloristici. Si sa poco del mio
paese e non vedo un gran interesse per approfondire di più, oltre a qualche
nozione da turismo per massa. Si comportano così perfino gli stretti familiari.
E allora mi dico: non serve ad insistere nell’anonimato, è meglio far capire
chiaramente chi sono, da dove vengo, evidenziare le peculiarità piuttosto che
le similitudini, cercare di travasare la mia cultura a vantaggio dei locali.
Vedo che talvolta disturbo con i miei racconti, sembrerebbe ch’io voglia
vantarmi di una superiorità ma non è così. Le due culture non devono essere
antagoniste ma complementari a reciproco vantaggio. E finisce che ora mi
considero una sorte di ambasciatore di entrambi i paesi; quando sono qui peroro
la causa del paese natio, desideroso di entrare nella Comunità Europea, quando
sono là, decanto le meraviglie dell’Italia e la gentilezza degli Italiani.
Ho trovato il mio equilibrio, consone alla
società che sta diventando sempre più multietnica. In questa missione le
traduzioni dalle rispettive lingue giocano un ruolo decisivo.
All’arrivo qui non sembrava facile
ricominciare tutto da capo, ma poi, più per fortuna che per merito, ho avuto
degli aiuti. Di colpo la mia situazione è cambiata dal punto di vista economico
ma, per il resto, le cose rimanevano come prima: non avevo conoscenze, non
avevo una ragazza da frequentare, ero un niemand,
un nessuno che riesce sì a pagarsi un cinema o anche un caffè ma rimane fuori
della società che l’aveva accolto, più per forma che per sostanza. Inserirsi
sembrava una situazione insolubile ed io vagavo per questa strada che è la mia
preferita, senza speranza per il futuro e un sapore amaro in bocca per la
situazione presente. E pensare che, quando ero ancora nel mio paese, credevo
che una volta là… tutto sarebbe stato diverso, più facile; mi avrebbero accolto
come uno che ha fatto anche il loro bene, non solo il proprio interesse.
Ricordo questa strada come se fosse ieri:
inizia vicino al Duomo, all’incrocio che porta alla Biblioteca, allora sede
dell’università.
Arrivai con una valigia piena di vecchie
riviste e null’altro, ma animato di una fede che non è mai crollata. Ricevuto
dal rettore, mi sembrava di entrare nel paradiso, i suoi modi signorili mi
elevavano al suo livello che credevo mi competesse per educazione e non per
rango. Non fu così con tutti i suoi adepti; alcuni pensavano che avrei compreso
meglio il linguaggio semplificato, un po’ alla maniera che si legge nei romanzi
che parlano dei neri d’Africa. Qualcun altro faceva domande strabilianti
chiedendo se da noi ci fossero dei gatti o addirittura delle chiese!
Incredibile, penso che, prescindendo dalla religione di ognuno, queste due cose
siano un denominatore comune per tutti gli uomini, credo anche per i Papuas.
Non finirò mai di sorprendermi.
È vero che appena tre mesi dopo il mio
arrivo in un paio di casi mi presero per nativo residente all’estero, ma ciò mi
diede scarsa soddisfazione in confronto alla mancanza di un vero contatto con
gli indigeni. Per loro ero sempre una creatura esotica e se vogliamo
fantastica. Che ha fatto molto per il suo paese, che sta facendo molto per
integrarsi in questo che l’ha accolto. Fui ospite esaminato di alcuni circoli, alcuni partiti mi fecero delle
lusinghe vane.
Andavo spesso al cinema passando per questa
strada dove mi piacerebbe abitare. A mio avviso è la più straordinaria della
città, come dicevo parte da quell’incrocio, va avanti dritto o quasi ma per
poco. Si apre uno spiazzo, a sinistra una chiesa sconsacrata (credo lo sia
perché non è mai aperta), la via s’incurva, pare che quest’angolo famoso porti
il nome di certi personaggi traditi, piuttosto frequenti da questa parte. Poveretti,
non sapevano come stavo male io. I loro guai al confronto del mio erano
bazzecole. Un altro tratto dritto per modo di dire, dopo di che una nuova curva
nasconde il proseguimento agli occhi di chi sta colà. Sicché è questo il punto
che preferisco in tutta la città per il suo mistero, per l’impossibilità di
perlustrarla del tutto d’un colpo d’occhio.
Com’era ed è diversa dalle strade della mia
città, lunghe, dritte e animate da tram e passeggeri. Qui prevalgono le
biciclette e le vecchiette che stringendo la borsa della spesa, cercano di non
finire sotto le automobili che spuntano a tradimento sui marciapiedi. Gli
antichi costruttori non potevano prevedere la motorizzazione e ora tutti
paghiamo il fio della loro incapacità di progettare per il futuro. Il che, pare
non sia una deficienza di una volta, sembrerebbe che l’umanità non impari mai
dagli errori del passato.
Proseguo. Appare un incrocio ad ipsilon.
Una casetta con l’intonaco scrostato e dal profilo tagliato s’incunea in mezzo
come una torta dimenticata nel frigorifero. Fa pensare a Parigi, certo non alle
case del mio vecchio quartiere. Un cinematografo, ricavato da una chiesa
sconsacrata. Buffo: questi abitanti si professano religiosi ma nel contempo
trasformano i luoghi del culto in teatri, da noi non si è così bigotti ma cose
del genere non se ne vedono.
Un profumo invade le narici: sento l’odore
del baccalà, un pesce seccato al sole che sembra pergamena. Qui si usa molto,
da noi è sconosciuto. Ho paura che non mi piacerà quando sarò costretto ad
assaggiarlo. Ma quando? Potrebbe accadere, se qualcuno dei locali dovesse
invitarmi a cena. Spero non sia il venerdì. Ne ho avuto già abbastanza coi
carciofi che mia madre affermava non essere buoni, sicché a casa non li avevo
mai mangiati, come anche le melanzane. Adesso ne vado matto. Adeguamento alle
usanze locali, indispensabile per integrarsi. Qui si mangia molta pasta che da
noi non si usava ma ora sì, con l’estendersi delle usanze internazionali e
confondendo le cucine locali. Alla fine tutti mangeranno la stessa cosa e tutto
avrà lo stesso sapore? Spero di no. Il tratto seguente mi porta verso le
antiche mura. Qui già profuma l’incipiente primavera che i miei cromosomi
rifiutano come un errore della natura. Da noi il risveglio viene in altri tempi
e con minore esuberanza, sento che faccio fatica ad adeguarmi a questi ritmi
inusuali. Qui tutto è diverso ad incominciare dagli odori.
All’inizio andavo per le strade annusando
come un cane segugio; oggi, con l’aumento delle automobili è più facile sentire
la puzza di queste piuttosto che delle verdure e della frutta. Noto che i
fruttivendoli non stendono più per la strada la loro merce come allora, la via
non è più profumata come prima e ciò rende ancor maggiore il contrasto con i
ricordi della mia gioventù, quando ogni cosa per le strade sapeva di un profumo
fragrante. Nostalgia per quei tempi pur sapendo che anche là non è più così:
avanza quella che chiamano civilizzazione o società del benessere, non so alla
fine se stavamo meglio noi poveri ma sani o questi qui che hanno tutto il
necessario ma soffrono d’indigestione e di mille mali sotto la coda come il
famoso somaro di uno di cui ho dimenticato il nome. Ridicolo, ma se ci penso,
il povero ambiente natio nella mia città era assai più sano di quanto sia ora
qui nelle campagne. Venire qui forse non è stato un bel cambio sotto questo
profilo ma in compenso e devo accontentarmi, ora possiedo tante cose che
nemmeno immaginavo allora che esistessero. Mi sono integrato, apparentemente
sono come gli altri abitanti attorno, parlo la loro lingua, loro mi rispondono,
ma se s’accorgono di una diversa inflessione della mia pronuncia allora
incominciano i guai: il tono cambia impercettibilmente, sovente si riprende la
maniera di parlare con i verbi all’infinito e piovono domande curiose se non
assurde.
Certo, io per definizione “non posso
conoscere né la storia né la cultura di questo paese come le conoscono loro”.
Anche se di fronte ho un perfetto bifolco ed io parlo correttamente, lui
insiste sulla cultura plurimillenaria della sua gente, pensando che solo questo
lo possa elevare a gentiluomo.
Ho
avuto anche molti aiuti, ho sposato una donna di qui che mi vuole bene ma le
cose non cambiano. La mia vita precedente non interessa ad alcuno, figli
compresi, se voglio recitare una poesia nella mia lingua, nessuno la capisce
come nemmeno le nostre canzoni che pure sono così espressive, sembra che siamo
un popolo di violini e di cibi piccanti ma nulla di più, senza chiese, senza
gatti, senza Dio che appartiene solo a questi cittadini.
Vorrei
tanto, almeno una volta, sussurrare “ti amo” nella mia lingua materna alla mia
donna, che lei capisse perché l’amore è sì universale ma ha anche il sapore
inconfondibile d’ogni lingua, ogni nazione. Di certe parole, anche se ne
comprendi perfettamente il significato, si perde qualcosa se le pronunci in
un’altra lingua. Ogni tanto traduco i poeti della mia gioventù ma quasi sempre
passano per semplici passatempi – a me dicevano tanto. Chissà cosa succede o
potrebbe accadere a questi se andassero a vivere nel mio paese? Imparerebbero
la lingua al punto da carpire i più reconditi significati? Riuscirebbero ad
amare come amano nella propria lingua o farebbero finta, mormorando parole
generiche? Tanti pensieri percuotono la mente mentre percorro per l’ennesima
volta la strada che mi vide povero in canna e pieno di dubbi, timori e speranze
e mi vede ora signore della terza età, un po’ curvo, sistemato e avviato verso
una vecchiaia decorosa, guadagnata con il duro lavoro sì ma anche grazie ad una
spinta iniziale ricevuta, senza la quale forse oggi sarebbe tutto diverso,
assai meno favorevole. Diciamo allora che, anche se un completo dissolvimento
nel processo d’integrazione non è pensabile, un buon livello d’adeguamento c’è
stato sia da parte mia e anche da parte degli abitanti di questo paese
ospitante. Perché, forse non si sono accorti, ma sono cambiati anche loro: non
sono più così chiusi e provinciali come al mio arrivo, tanti anni or sono, ma
più aperti anche a causa dei mezzi di diffusione radiotelevisiva ma anche per i
viaggi che fanno all’estero. Ci stiamo adeguando a vicenda, la convivenza
acquista sempre più un carattere universale, sebbene, di ritorno a casa, poi
ognuno ritorna alle proprie faccende. Manifestare troppo apertamente
l’attaccamento alla propria cultura a qualcuno potrebbe apparire come un
“tradimento” dell’ospitalità ricevuta e allora ce lo teniamo nel cuore.
Oggi,
grazie alle accresciute possibilità economiche ce lo possiamo concedere. Visto
da fuori, ormai sono un perfetto integrato; a me importa ormai solo la parte
migliore della loro cultura, e da tempo ho smesso d’importunarli coi ricordi
della mia terra. Non è pensabile diversamente; noi rimarremo sempre degli
“animali curiosi” da guardare con la lente d’ingrandimento e solo i nostri
figli potranno sentirsi perfettamente a casa loro. Pagando purtroppo la perdita
di tutto ciò che io non riuscirò mai a trasmettere. Io vivo in una situazione
felice di una doppia vita, doppiamente ricca, loro avranno soltanto quella
della nazione dove sono nati. I miei libri, la mia musica particolare, i miei
scritti nella lingua materna saranno raccolti in un pacco e nel migliore dei
casi finiranno in una biblioteca.
Chiedo soltanto che le mie ceneri siano
divise in due parti, una dispersa qui e l’altra vicino alla tomba di mia madre
che non ha mai voluto cambiare la terra natia per un pezzo di pane più grosso.
Io invece ho ormai due patrie e so di godere una fortuna che non è toccata a
molti.
Secondo
classificato Concorso Letterario «Con gli occhi di ieri e di oggi» di Ferrara
nella sezione «Narrativa Immigrati».