TERZO MILLENNIO Verso l'Antropocrazia

Il tempo, riflessione di fine millennio di un fisico quantistico

Di Giuliano Preparata
 

 

Per un fisico interessato ai problemi dinamici della materia, il tempo è la dimensione fondamentale entro cui i suoi sistemi si evolvono, il costante punto di riferimento delle sue analisi. Eppure, solo l’occasione di una conferenza popolare, il 23 aprile 1998, organizzata dall’Assessorato alla Cultura della Provincia di Milano (che ringrazio di tutto cuore), mi ha fatto riscoprire quanto del mio essere, della mia cultura, della mia dimensione di uomo di pensiero è intriso delle vicissitudini che questo potente e fondamentale concetto ha subito nel corso dei 2.500 anni di storia della cultura occidentale. Quello che segue è il frutto di queste riflessioni.

IL TEMPO NEL PENSIERO CLASSICO

Il tempo, la dimensione i cui punti sono gli istanti che compongono ogni accadimento naturale, ha sempre avuto nel pensiero classico un ché di inquietante e misterioso. A differenza dello spazio, l’arena di tutto ciò che contempliamo, il tempo non sembra avere estensione: il presente svanisce immediatamente nel passato e il futuro ci appare impenetrabile, avvolto dalle nostre speranze e dalle nostre paure. Per l’uomo occidentale la dimensione temporale è limitata e lineare; su di essa per ognuno di noi sono ben impressi due punti di nascita e la morte, il cui controllo per l’uomo classico sta nelle mani del destino, divinità distante, ostile. Per l’uomo orientale il tempo invece ha un aspetto più benigno, non la dimensione illimitata della linea retta ma quella finita, rassicurante, "degli infiniti ritorni", del cerchio su cui gli eventi della nascita e della morte non sono che temporanei traguardi. È proprio da queste fondamentali differenze di percezione del tempo che le due culture, l’occidentale e l’orientale, traggono gli aspetti caratterizzanti le loro differenti visioni del mondo: la irriducibilità delle due dimensioni, quella spaziale e quella temporale, nella prima, infinita interconnessione, l’unità di spazio e tempo, nella seconda. Il grande attivismo, la poca propensione alla contemplazione, la faustiana aspirazione al dominio sulla natura mediante scienza e tecnico, sono i tratti più caratteristici dell’uomo occidentale nel suo tentativo affannoso di esorcizzare quell’istante che sull’asse del tempo conchiuderà l’intervallo assegnatogli. E la filosofia greca ha dato senso e sostanza alla "Weltanschaung" della nostra civiltà in modo profondo e luminoso. Innanzi tutto la differenza tra spazio e tempo: quello sede di simmetrie geometriche di grande bellezze e perfezione, questo alveo di un fiume disordinato (il "PANTA REI" di Eraclito) di eventi in cui tutto si confonde e si intorbidisce, il bello che si disfa nel laido, l’ordine che si dissolve nel caos, l’armonia che svanisce nel rumore. Il fiume del tempo ha un solo sbocco: la morte. E l’uomo classico cerca di arrestare questo inevitabile fluire con i teoremi della geometria, con i metri della poesia e della musica con l’armonia dell’arte, con il mondo immutabile delle idee, con le leggi del diritto. È in questo modo che egli cerca l’immortalità, di arrestare il faustiano "attimo fuggente".

IL TEMPO DEL MONDO MEDIEVALE

Il Cristianesimo, centro e fulcro del pensiero medievale, consegna lentamente all’uomo una visione del tempo, meno angosciosa ed ostile. La promessa che l’intervallo terreno è contiguo ad un intervallo illimitato celeste, ricompensa di una vita giusta, gli permette di guardare finalmente allo scorrere del tempo, all’evoluzione dinamica di cose e di esseri viventi con maggiore serenità, e con grande curiosità. Incomincia a domandarsi cos’è il movimento, quali ne sono le cause, quali le possibili leggi. Si accorge che i paradossi di Zenone e degli Eleati altro non sono che l’ipostatizzazione filosofica dell’orrore del mutamento; prova ad andare oltre Aristotele (ma con molta cautela dal momento che sulla sua filosofia i dottori della chiesa hanno basato non poche delle loro sottigliezze teologiche), oltre la sua Fisica abbastanza pasticciata e rudimentale e spesso palesemente ridicola. Ma tant’è che il consigliere dell’Imperatore (Alessandro Magno), non poteva permettersi il lusso di fuggire e rifugiarsi nel mondo delle idee di Platone: doveva, anche se contro voglia e contro la tradizione, occuparsi di cose pratiche, incluso la Fisica. E la Fisica aristotelica dominò l’astronomia, attraverso l’enorme lavoro di Claudio Tolomeo (inventore del sistema tolemaico) per circa quindici secoli. Ma gli occhi erano ormai ben aperti, la curiosità dei filosofi e degli ingegneri ben sveglia sulle nuove macchine, necessarie al funzionamento e allo sviluppo di un mondo senza più schiavi, liberati dall’insegnamento del Cristo. E la descrizione del funzionamento delle macchine richiede l’asse del tempo, il susseguirsi continuo e immutabile degli istanti, degli eventi che ne scandiscono la storia, il processo, in altre parole la DINAMICA. Al cambiamento di configurazione della macchina non è più associata l’angoscia, la paura del divenire dell’uomo classico, ma l’evoluzione dei processi generatori di benessere, come la ruota del mulino, i sistemi per innalzare le acque, irrigare, filare, come pure di quelli generatori di potenza e di morte: gli archibugi, i fucili e i cannoni. Gli occhi dei filosofi della natura sono ormai tutti rivolti allo studio e alla comprensione del Tempo, generatore di cambiamento.

IL TEMPO NEL RINASCIMENTO

Come sappiamo con la caduta di Costantinopoli nelle mani dei Turchi, alla metà del 400, la migrazione degli intellettuali bizantini nel nostro Paese riportò in superficie un filone della cultura classica, che era rimasto confinato ad Oriente, praticamente sconosciuto al mondo del Medioevo. Nei bagagli di questi transfughi si trovano testi di Platone, Archimede, Plotino e della scuola neo-platonica che i nuovi intellettuali italiani ormai in fuga dalle Università medievali verso le Accademie fondate da principi e mecenati (come l’Accademia platonica di Picino, Poliziano e Pico della Mirandola, voluta dal Cosimo de Medici), lessero e concentrarono febbrilmente e avidamente alla ricerca di un nuovo mondo, più felice e luminoso, in cui l’uomo possa testimoniare la propria dignità, la propria somiglianza con il creatore, abbandonando per sempre la visione medievale della vita terrena, come mero passaggio a quella eterna. La riscoperta di Archimede, lo scienziato che calò il mondo delle idee di Platone, della matematica e della geometria nel mondo fisico, spinge in modo portentoso un gruppo di filosofi e di ingegneri a guardare con sguardo rinnovato al mondo cangiante dei fenomeni naturali, alla ricerca di simmetrie e regolarità nell’apparente scompostezza della loro evoluzione e soprattutto, ed è qui che la lezione giuridica romana diviene essenziale, di leggi universali. Lo spazio chiuso del mondo di Aristotele, organizzato in sfere concentriche intorno al nostro pianeta, si apre all’Universo di Giordano Bruno che diventa infinito come l’Essere che lo ha creato. Che idea sconvolgentemente nuova, questa di Bruno, che vede lo spazio, anche quello vuoto, come una creatura divina! Vedremo più in là come la fisica dei quanti stia recuperando questa grandiosa intuizione. In questo nuovo spazio splendidamente fisico, i cui punti e figure obbediscono ai teoremi generali e universali della geometria di Euclide, il tempo diventa anch’esso la realizzazione fisica di uno spazio continuo unidimensionale, misurato da orologi che stanno diventando sempre più precisi. La scienza delle macchine, la Meccanica, incomincia ad assumere i connotati moderni di intima interconnessione tra le figure geometriche spaziali e il continuo temporale. La fisica ne esce sconvolta. Il moto allo sguardo penetrante di Cusa, Leonardo, Bruno e Galilei non appare più come il processo aristotelico, che conduce ogni corpo al suo "luogo naturale", ma diviene uno stato, una configurazione le cui caratteristiche cinematiche mutano soltanto per un intervento esterno, per l’azione di una forza. Galilei, ultimo anello di una lunga catena di osservatori sperimentali e elaboratori teorici, formula infine il principio di inerzia, dopo aver dedicato due decenni di notti vigili alla comprensione del concetto di velocità istantanea. E questo luminoso inizio della dinamica classica richiede lo spazio infinito di Bruno, e il tempo, anch’esso infinito, rigorosamente definito da Newton nei "Principia". Da questa alleanza fra spazio euclideo e tempo continuo ed immutabile nasce, come è moto la scienza moderna, che nel campo della filosofia della Natura detta agli uomini un insieme di regole e comportamenti necessari a carpire ai fenomeni naturali i loro misteri, giacché come usava ricordare Eraclito: "la Natura ama nascondersi". L’incredibile efficacia della scienza moderna nell’addentrarsi nelle profondità più riposte nella Natura ha dunque la sua origine nella scoperta dovuta agli uomini del nostro Rinascimento, che affermazioni di verità sulla natura sono possibili purché: a) si demarchi nettamente il campo di indagine; b) si sottopongano le congetture teoriche alla prova di fatti, dedotti da esperimenti concepiti e svolti con il massimo rigore, c) si riconosca il carattere approssimativo ed evolutivo nel tempo della nostra conoscenza della natura. Dai principi generali della nuova scienza emerge dunque il carattere "progressivo" del tempo, non più ostile e angoscioso dunque, ma necessario allo sviluppo delle nostre conoscenze, al crescere della nostra padronanza sulla natura. Un’idea del tempo, positiva, forse anche eccessivamente, che informerà quell’epoca di certezze che fu l’età dei Lumi.

IL TEMPO NELLA FISICA CLASSICA DEL 900

Gli spettacolari successi della Meccanica galileo-newtoniana, nella meccanica celeste così come in quella delle macchine, il grande impulso che essa riuscì ad imprimere alla prima rivoluzione industriale e all’ascesa della borghesia industriale e produttiva, contribuirono in modo poderoso ad affermarla come granitico paradigma scientifico, che l’Abbè de Fontanelle cercava di insegnare con garbo e piacevolezza alle dame dei Lumi. Ma i fenomeni dell’elettricità e del magnetismo, indagati con grande lena a partire dalla fine del 700, incominciarono ad aprire qualche crepa nel maestoso edificio galileo-newtoniano, dapprima con la teoria di Maxwell (del campo elettromagnetico nel vuoto) e poi con gli esperimenti di Michelson sulla indipendenza della velocità della luce dallo stato di moto della sorgente luminosa. Maxwell riuscì a portare a compimento le idee del grande Michel Faraday sulle "linee di forza" dei campi elettrici e magnetici, formulando verso il 1860 una teoria matematica del campo elettromagnetico, in cui elettricità e magnetismo venivano completamente unificati, mettendo in evidenza la natura elettromagnetica della luce e la relazione fra la sua velocità C (3000.000 Km. al secondo) e le costanti fondamentali dell’elettrostatica- -la costante dielettrica del vuoto E - e della magnetostatica- la permeabilità magnetica del vuoto M.

C= EM

Questo trionfo di James Clerk Maxwell fece però storcere la bocca dei leader della comunità scientifica, e in particolare di Lord Kelvin, giacché il campo elettromagnetico di Maxwell aveva due gravi difetti: i) non aveva la forma di un modello meccanico; u) nulla diceva sulla struttura del mezzo in cui, necessariamente, si dovevano propagare le onde elettromagnetiche. Maxwell spese alcuni anni a costruire un ingegnoso quanto fasullo ed inutile modello di questo presunto mezzo, che fu battezzato con la parola classica ETERE, basato su una miriade di coni, cilindri e sfere infinitesimali, le cui oscillazioni, rotazioni e traslazioni sarebbero state associate ai fenomeni elettromagnetici. Tuttavia, poiché questo marchingegno avrebbe dovuto identificarsi con lo spazio vuoto, la cui impalpabilità è fuori discussione, e allo stesso tempo avrebbe dovuto dar luogo ad onde "sonore" centomila volte più veloci di quelle che si propagano nei metalli più rigidi, il paradosso era drammaticamente acuto. Ma nella scienza organizzata tale è la forza del paradigma che nel 1903 (due anni prima della Relatività di Einstein) Lord Kelvin, in un famoso discorso alla British Society for the Advancement of Science, affermò che la teoria dell’Etere aveva passato tutti i test, e che rimaneva soltanto una piccola nube in un cielo radioso, gli esperimenti di Michelson, ma il tempo si sarebbe incaricato di mettere le cose a posto. In cosa consisteva, dunque la "minaccia" di Michelson? Nel fatto del tutto intuitivo che, se il campo elettromagnetico è di tipo meccanico, esiste uno ed un solo sistema di riferimento in cui questo oggetto fisico, come abbiamo visto, infinitamente rigido e infinitamente tenue al tempo stesso, è in quiete. Pertanto ogni osservatore che stia in moto rispetto a questo "sistema assoluto" osserverà una velocità delle onde elettromagnetiche diversa, ottenuta dalla composizione della sua velocità rispetto all’Etere e della velocità della luce rispetto a quest’ultimo. La Terra con i suoi movimenti di rotazione e rivoluzione attorno al sole è un osservatorio ideale per tali composizioni di velocità, e Michelson, un americano nato nel Far West, mise a punto un sistema di grande precisione e sensibilità per rivelare questi effetti. Ma il responso di lunghi anni di studi fu consistentemente negativo: indipendentemente dalla velocità della Terra (a delle sorgenti luminose da essa trasportate) la misura della velocità della luce forniva sempre lo stesso valore. In altre parole: la velocità della luce non dipende dal moto delle sue sorgenti. Un risultato che, se accettato, dava finalmente una devastante "picconata" al paradigma meccanicistico. Furono Lorentz prima (1890) e Poincarè più tardi ad accorgersi che le equazioni scritte da Maxwell avevano la strana proprietà matematica che per le sue soluzioni (le onde luminose, ad esempio) la composizione della loro velocità con quella dell’osservatore dà un unico risultato: il moto è del tutto influente, proprio come aveva osservato Michelson. Teoria ed osservazione erano dunque in perfetto accordo. Sì, d’accordo, ma questo cosa vuol dire? E come può conciliarsi con l’argomento apparentemente inattaccabile, del sistema di quiete dell’Etere? Per Poincarè, celebre matematico francese, il problema era di scarsa rilevanza: la teoria di Maxwell è in accordo con gli esperimenti di Michelson perché la velocità di un osservatore in moto e quella della luce non soddisfano le leggi di composizione, intuitive e confermate da una miriade di osservazioni, della meccanica galileonewtoniana, ma altre leggi scoperte da Lorentz e generalizzate da egli stesso. In termini tecnici, le equazioni che descrivono il passaggio da un riferimento fermo ad uno in moto non sono quelle ipotizzate da Galilei, e dal suo famoso principio di inerzia, ma hanno una differente struttura, che per corpi che si muovono ad una velocità molto più piccola di quella della luce (tutti quelli considerati dalla Meccanica Classica) è praticamente identica a quella galileiana. In questa osservazione di Poincaré possiamo cogliere due aspetti essenziali della scienza moderna: 1) la conoscenza scientifica "cresce". La "nuova" verità che pure logicamente rimpiazza e quindi nega la "vecchia", lo fa in modo "costruttivo", la sostituisce solo nell’ambito di nuovi fenomeni dove appare come approssimazione troppo grossolana , e quindi viene "falsificata" dalle nuove osservazioni. Essa tuttavia rimane vera nell’ambito della classe più ristretta dei vecchi fenomeni, dove costituisce un’ottima approssimazione, la cui validità resta inalterata; 2) il valore fondamentale del pensiero teorico che coglie, in successivi passaggi, la razionalità della natura, organizzandone la miriade di fenomeni mediante un numero limitatissimo di principi, da cui l’analisi matematica deduce, o meglio, ricerca la meravigliosa complessità dell’Universo. L’analisi matematica delle trasformazioni di Lorentz e Poincaré mette in risalto un fatto sconvolgente, per la prima volta nella descrizione dei fenomeni fisici i punti dello spazio e gli istanti del tempo non costituiscono due realtà separate, le cui estensioni sono soltanto correlate dall’evoluzione dinamica. In altre parole, i regoli che misurano le coordinate dei diversi punti dello spazio, e gli orologi che scandiscono i diversi istanti del tempo, fino ad allora facevano parte di due sfere concettuali irriducibili, indipendenti dallo stato di moto dell’osservatore che attraverso di essi descrive la "cinematica" del suo soggetto fisico. Non appena la velocità "V" dei sistemi fisici, osservatori e osservati, si avvicinano a quella della luce "C", cioè quando V/C=1, istanti temporali e punti geometrici si mescolano indissolubilmente nello spazio-tempo. Si scoprono cose stranissime: un osservatore si porta un regolo di un metro su un’astronave che trasla con velocità "V". Per un osservatore fermo sulla Terra la lunghezza del metro si è contratta (contrazione di Lorentz-Fitzgerald) di un fattore 1-V2/C2. Ed egualmente strano è il caso dei due gemelli, di cui uno parte sull’astronave portandosi un orologio, che segna il suo tempo in accordo con i suoi ritmi biologici. Per il gemello rimasto sulla Terra l’orologio del fratello scorre invece più lentamente del suo. Per cui, se ad un certo istante inverte bruscamente la rotta e ritorna con la stessa velocità V sulla Terra, il suo orologio segna un tempo Tastro= 1-V2/C2 Tterra. Poniamo ad esempio V/C=V3/2 cioè V=260.000 Km/sec., e che il viaggio dell’astronave duri 30 anni, il gemello rimasto sulla Terra avrà la venerabile età di 60 anni, il doppio di quella del gemello astronauta. Tali erano le conseguenze delle equazioni di Maxwell, e seppure "fantascientifiche" non preoccupavano più di tanto Lorentz e Poincaré. In primo luogo perché tali effetti riguardavano situazioni così remote dalle possibilità dell’epoca, e in secondo luogo perché, dopotutto, queste erano solo costruzioni della mente umana e non c’era nessuna necessità logica che dovessero avere a che fare veramente con la Natura: si trattava soltanto, volta per volta, di trovare un accordo all’interno della comunità dei sapienti su quale fra le teorie proposte fosse la più adatta alle osservazioni. Questo "convenzionalismo" pone i fisici positivisti di fine ottocento in ottima compagnia con il Cardinale Bellarmino che sosteneva tesi analoghe con Galilei, nel tentativo di dissuaderlo dal pensare che Copernico avesse scoperto la verità sul moto del sistema solare. Dal punto di vista puramente logico tutto ciò non è attaccabile, ma quello che ci insegna la storia della Scienza è che questo punto di vista non porta da nessuna parte, e umilia questa grande avventura dell’uomo a gioco di società di una corporazione chiusa di individui, il cui disprezzo per gli altri è pari soltanto alla loro arroganza e alla loro sete di potere e di gloria. Ci volevano infatti gli occhi privi di malizia, direi innocenti, del giovane Albert Einstein (allora ventiseienne) per capire che le trasformazioni di Lorentz-Poincaré non erano una semplice, curiosa proprietà delle equazioni di Maxwell, ma un aspetto fondamentale dell’architettura dello spazio-tempo, valido non solo per i fenomeni elettromagnetici, ma per ogni accadimento naturale. Era così nata la teoria della Relatività Speciale (RS), per cui il tempo non ha più le caratteristiche assolute del tempo di Galilei e Newton, che fluisce sempre uguale a sé stesso, imperturbato dalla natura degli eventi, che "etichetta" con inesorabile precisione. Lo stretto legame tra il ticchettio dell’orologio, la lunghezza del regolo e lo stato di moto del loro possessore rimuove una volta per tutte dalla visione del mondo della scienza moderna i concetti di spazio e tempo, nella loro dipendenza dal movimento di una classe di osservatori, in reciproco moto rettilineo ed uniforme. Nella visione generale di Eistein il principio di inerzia galileiano acquista una nuova dimensione, quella del tempo. La sintesi fondamentale di spazio e tempo della Relatività speciale veniva a coronare e a premiare gli sforzi di una "realista" che, convinto della capacità dell’uomo di svelare la verità della Natura, riconosce nelle proprietà delle equazioni di Maxwell, nell’Elettrodinamica dei corpi di movimento (tale è il titolo della famosa memoria che fonda la RS) leggi ben più generali, che governano tutto il mondo, non solo i fenomeni elettromagnetici una meta fondamentale del pensiero scientifico che gli occhi sofisticati e mondani dei "convenzionalisti" non erano riusciti a vedere!. Ma la teoria della RS è solo una tappa nella comprensione della struttura profonda dello spazio-tempo: rimaneva quell’elemento di arbitrarietà nel selezionare fra tutti gli osservatori possibili quelli in moto reciproco rettilineo e uniforme: per quelli, e quelli soltanto valevano le equazioni di Maxwell e la generalizzazione di Albert Einstein a sistemi meccanici arbitrari. Ad Einstein fu necessario un decennio di sovraumani sforzi di comprensione e concettualizzazione per rimuovere tale arbitrarietà e consegnare all’umanità la teoria della Relatività Generale (RG), in grado di predire le correlazioni fra regoli e orologi di osservatori in moto reciproco arbitrario. E nell’ottenere questa poderosa sintesi concettuale Albert Einstein diede corpo al sogno di un altro grande fisico-matematico Bernhard Riemann, allievo del grande matematico Gauss, che sessanta anni prima aveva intuito la soluzione che Einstein regalava agli uomini nell’anno del Signore 1916, in piena conflagrazione mondiale. Il campo gravitazionale, la prima forza studiata dalla scienza moderna (la famosa mela di Newton), svela finalmente il suo mistero, che appare intimamente legato alla "struttura locale" dello spazio-tempo, alla sua "curvatura", una caratteristica intrinseca della geometria che come aveva insegnato Gauss, distingue una sfera da un piano, un iperbolide da una sfera. Orbene secondo la RG la geometria dello spazio-tempo non è più "piatta" (o Euclidea) come nella RS, ma la sua curvatura dipende localmente dalla distribuzione di materia, ovvero dal campo gravitazionale. E la spiegazione data dalla RS di un fatto astronomico, rimasto fino ad allora misterioso, la precessione del perielio di Mercurio, insieme ad altri fenomeni di cui la fisica galileo-newtoniana non riusciva a dar conto, era la testimonianza che la Natura ci aveva svelato un’altra, profonda verità.

IL TEMPO NELLA FISICA QUANTISTICA DI FINE MILLENNIO

Prima di balzare alle visioni di fine millennio, fermiamoci un istante a contemplare la lenta ma portentosa metamorfosi che la percezione del tempo ha subito lungo i duemilacinquecento anni della cultura occidentale. Da essenza ostile e angosciosa, generatrice di degradazione e di caos, da esorcizzare e dissolvere nell’armonia delle simmetrie dello spazio -l’Uno di Parmenide-, il tempo dell’uomo classico si tramuta lentamente nella dimensione la cui estensione è la vita terrena, contigua ad una vita eterna, di gioia o di dolore secondo gli esiti della natura nella sua evoluzione temporale non provoca alcun senso di angoscia, e la sua serenità è la condizione necessaria per vedere il vero. La riscoperta del mondo geometrico e matematico di Platone e Archimede ad opera degli uomini del nostro Rinascimento, all’indomani del recupero cristiano della dimensione temporale, conferisce al tempo il carattere distintivo della Meccanica classica, ipostatizzato dalle definizioni newtoniane di continuo unidimensionale assoluto del tutto separato dall’area spaziale del moto dei corpi e della propagazione dei tempi. Nei due successivi, meravigliosi balzi -tempo intimamente connesso (RS) prima (1905) e della RG poi (1916) Albert Einstein ci ha consegnato uno spazio-tempo intimamente connesso (RS), la cui misurabilità locale dipende dalla presenza e intensità del campo gravitazionale generato dalla distribuzione di masse nell’Universo. Ma la sintesi operata da Einstein non può essere definitiva, rimane all’interno del mondo determinato e deterministico della fisica classica, lo stesso che alla fine dell’800 era entrato in crisi profonda a causa delle strane proprietà della radiazione che emergono dall’apertura di un forno: la radiazione di un corpo nero. Il superamento della fisica classica da parte del nuovo paradigma quantistico è cosa ben nota, non è tutt’oggi noto però in che modo la fisica dei quanti modifichi, e quindi superi la visione einsteiniana. Il punto cruciale di questo passaggio, non più procrastinabile, sta nel "quantizzare" la RG, cioè sottoporre il campo gravitazionale classico, così mirabilmente descritto da questa teoria, alla metamorfosi quantistica. È opinione comune dei fisici di questa fine di millennio che allo stato attuale delle conoscenze tale "quantizzazione" è impossibile, e che per renderla coerente con la fisica dei quanti è assolutamente necessario che la teoria classica di Einstein venga ampliata. Questa è la ragione del rigoglioso fiorire negli ultimi quindici anni di complicatissime quanto astratte "Teorie delle Supercorde" dette anche "Teorie del tutto" (TOE, Theories of Everything). Tuttavia, fortunatamente, ad una analisi più profonda questa opinione si rivela del tutto infondata, sì da permettere al "rasoio di Occam" di fare ancora una volta giustizia dei più nauseabondi orpelli. La verità è che la RG di Einstein è perfettamente "quantizzabile" (compatibile con la fisica dei quanti) purché si analizzi con la necessaria profondità il problema del Vuoto. Per avere un’idea del problema della quantizzazione di una teoria di campo, occorre dare uno sguardo alla seguente sinopsi.

FISICA CLASSICA: traiettorie di particelle: X=X (t)

FISICA DEI QUANTI: funzione d’onda F (x,t) F(x,t)2= probabilità di osservare la particella al punto x, all’istante t.

Equazione dinamica F= ma Equazione di Schroedinger in DF/DT= H(x,V)F

Soluzioni determinate dalle condizioni iniziali x(0), v(0)

In un sistema aperto F(x,t) F(X) stato di minima energia, VUOTO, ground state.

Tale sinopsi è generalizzabile senza salti concettuali ad un campo come quello elettromagnetico e gravitazionale. Poiché la soluzione delle equazioni di campo è generale di una difficoltà proibitiva il problema del VUOTO, dello stato di minima energia su cui si tesse la rete di qualsiasi processo osservabile (le cui caratteristiche dinamiche saranno perciò influenzate in modo fondamentale dalla sua struttura), viene affrontato con un’ipotesi di semplicità. Si assume, cioè, che il VUOTO sia quello più semplice, compatibilmente con il principio di indeterminazione di Heisenberg, il così detto VUOTO PERTURBATIVO (Perturbative Ground State). La struttura del PGS consiste in una miriade di ondicine le cui ampiezze fluttuano caoticamente e casualmente attorno al valore zero, corrispondenti ad un valore medio nullo del campo, ma non ad un valore medio nullo dell’energia che sarebbe incompatibile con il principio di Heisenberg, e quindi con la teoria dei quanti. Questa "energia" di punto "zero" stabilisce una differenza fondamentale tra il Vuoto Classico e il Vuoto Quantistico. In questo quadro la differenza cruciale fra campo elettromagnetico e campo gravitazionale è che il PGS del primo è in grado di sostenere una dinamica coerente, mentre per il secondo ciò non è possibile. Sembrerebbe che il "rasoio di Occam" consigliasse a questo punto di abbandonare per la RG l’ipotesi di PGS e di cercare per il VUOTO un’altra struttura. Invece la fantasia dei fisici teorici si è sbizzarrita nella direzione citata più sopra. Chi invece, come chi scrive, si è mantenuto fedele a quell’aureo precetto e si è imbarcato in una lunga quanto faticosa analisi di nuove strutture di campi gravitazionali quantistici, alla ricerca di quello di energia minore, dinanzi ai suoi occhi sbalorditi ha visto il vuoto classico disfarsi in una sorta di schiuma, i cui pieni e vuoti, delle incredibili dimensioni di 10.33 dell’inconcepibile durata di 10.13 sec. dando così corpo all’intuizione (direi piuttosto, alla profezia) di Riemann che la struttura elementare dello spazio-tempo può ben essere discreta, come quella di una "schiuma". Naturalmente i pieni e i vuoti sono talmente minuscoli che praticamente con i microscopi d’oggi (i grandi acceleratori di particelle), la cui risoluzione non va oltre un millesimo della taglia del protone, la schiuma che ha dimensioni 16 ordini di grandezza più piccole è ben lungi dall’essere percepibile, tuttavia il suo effetto indiretto è di rimuovere certe difficoltà logistiche dalla teoria quantistica dei campi, che hanno costituito per molti fisici, anche della classe di P.A.M. Dirac, una barriera invalicabile alla comprensione. Ma se lo spazio-tempo associato alla gravità quantistica cessa di essere infinitamente divisibile, dilaniato da potenti fluttuazioni quantistiche che venerano incessantemente minuscoli buchi neri, della taglia di Lp=10 cm (la lunghezza di Planck), a livello macroscopico spazio e tempo trovano una nuova alleanza nei moti collettivi degli oggetti elementari, atomi e molecole, che costituiscono la materia condensata-liquida e solida. Questo fatto sorprendente è legato al formarsi all’interno della materia condensata di particolari domini, i domini di Coerenza (DC), in cui un grande numero di sistemi elementari oscilla collettivamente su determinate frequenze, tipiche della dinamica quantistica dei sistemi stessi. E l’elettrodinamica quantistica (QED), Quantum Electro Dynamics) correla in modo sottile la taglia di questi domini con la lunghezza d’onda elettromagnetica. L=c/v associata alle frequenze atomico-molecolari v. Sull’onda di questa fin qui inesplorata coerenza fra spazio (Domini di Coerenza) e tempo (periodi di oscillazione di atomi e molecole) sta nascendo una nuova, più realistica e sottile teoria della materia condensata, le cui implicazioni sono ancora difficili da discernere, ma sul cui potenziale di progresso culturale ed economico, non possono esserci dubbi. Ma di questo sarà bene parlare un’altra volta.

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