ANCORA A PROPOSITO DELLA FABBRICA DI BOMBE

(Articolo apparso su SulcisIglesienteOggi del 29-04-2001)

Bando ai moralismi, cambiare il sistema

Eccolo l’unico tassello che mancava. Arriva tra lo stupore e l’indignazione di molti che per il nostro territorio sognano certamente un futuro diverso ma senza dover pagare un prezzo così alto.  L’industria della guerra naviga verso i nostri lidi. Sembra che anche la Sardegna avrà la sua fabbrica di bombe per volere di una delle più importanti aziende italiane nel settore. E il luogo pensato per realizzarvi la struttura è proprio il Sulcis Iglesiente nella zona compresa tra i comuni di Domusnovas e Iglesias, in una località semideserta detta “Matt’e Conti”. La SEI (Società Esplosivi Industriali), a Domusnovas possiede già la Sarda esplosivi industriali, che finora ha prodotto esclusivamente miscele destinate all’industria mineraria. Ma oggi che il settore estrattivo ha praticamente concluso il suo tempo, la SEI ambisce a trasferire nella nostra isola anche il suo business militare costruendo bombe per i Tornado, e pensando di usufruire tra l’altro dei contributi previsti da una legge volta a favorire le imprese che investono al sud. La notizia secondo cui sono stati messi i primi mattoni per la costruzione dello stabile che dovrebbe ospitare la tanto contestata fabbrica, non lascia certamente tranquilli i cittadini di questo territorio che ha bisogno di risollevarsi, di voltare pagina, di guardare al futuro con ritrovata fiducia.

Per ora la sollevazione popolare e la raccolta di undicimila firme che esprimono un chiaro dissenso, a poco sono valse contro la volontà di qualcuno evidentemente più forte che, avendo potere decisionale in tutta la faccenda e sfruttando una intollerabile demagogia, ritiene di poter facilmente incontrare il plauso di cittadini espropriati di fatto del diritto-dovere di decidere sulla destinazione del territorio e dei fondi pubblici. Sviluppo si, verrebbe da dire, ma non a costo di sacrificare una coscienza collettiva che è anzitutto etica e civile prima ancora che cristiana. Non a costo di assecondare, giustificandolo con il motivo della disoccupazione, con le esigenze della Difesa o semplicemente con l’indifferenza, il protrarsi di un’attività orientata verso la fabbricazione di ogni sorta di oggetti da guerra. Gli stessi che, sottoforma di mine antiuomo, mutilano, quando non uccidono, milioni di uomini, donne e bambini in Afghanistan o in Libano, nel Kurdistan o nei territori della ex Jugoslavia; gli stessi che in tanti Paesi africani tormentati da conflitti, vengono fatti imbracciare ai bambini di sei anni per sopprimere i loro coetanei e indirizzarli in questo modo alla pedagogia della guerra; gli stessi che fomentano e incoraggiano in ogni dove rivolte e sedizioni.

La non violenza, infatti, non è moralismo da strapazzo, come è stata definita da chi caldeggia la causa della fabbrica; non nasce da una “presa di posizione acritica” dettata da un “pacifismo estremista” che nega le esigenze della Difesa. La non violenza è uno stile di vita che trova le sue ragioni più profonde nel desiderio di cambiare un sistema perverso che sta rendendo sempre più incolmabile il divario fra sfruttatori e sfruttati, tra ricchi e poveri. La nonviolenza aborre le armi perché servono essenzialmente a mantenere privilegi e ricchezze e alimentano il meccanismo che genera lo sfruttamento e lo sbilanciamento economico fra Nord e Sud del mondo. Il venti per cento del nostro pianeta non riesce a farne a meno perché è il modo più efficace per controllare l’ottanta per cento delle risorse.

La nonviolenza è un valore che ha duemila anni, Gandhi l’ha praticata e, guarda caso, non era nemmeno cristiano! E prima di lui, Gesù Cristo. Renè Girard è un agnostico, eppure per primo ha detto che l’unico testo della letteratura mondiale religiosa da cui la violenza è completamente assente è proprio il Vangelo. Da quella croce promana una forza che nasce dal perdono. Da quella croce Dio non finisce ancora oggi di scandalizzarsi nel vedere i suoi figli che soffrono perché i loro fratelli non hanno imparato a fare un uso consapevole dei beni di tutti.

È una riflessione d’obbligo questa, quando si pensa che l’Italia è tra i Paesi che detengono il triste primato di una produzione d’armi che sostiene da sempre in modo alquanto cospicuo le casse dello stato. Dalla relazione presentata al Parlamento da Massimo D’Alema nel 1999, risulta che l’Italia avrebbe effettuato consegne d’armi per circa 1715 miliardi e concesso autorizzazioni all’esportazione per 2596 miliardi. Turchia, Algeria, Cina, Brasile, Arabia Saudita, India, Indonesia e Pakistan, sarebbero i Paesi principalmente importatori secondo un rapporto dell’Ires (Istituto ricerche economiche e sociali) di Firenze e Amnesty International. Complessivamente questo sistema, il nostro sistema, impiega 1000 miliardi di dollari ogni anno in armi. Armi pagate con la fame di 40 milioni di esseri umani sacrificati sull’altare della logica di mercato. Ma, così «non difendiamo nessun confine, solo i privilegi dei ricchi» scrive Alex Zanotelli da Korogocho in Kenia, un villaggio di centomila anime che vivono ammassate, “sardinizzate”, come dice lui, su una piccola collina di due chilometri e mezzo per uno e mezzo. E c’è da crederci, da convincersene prima che sia troppo tardi, se a dirlo è uno che è sceso nei bassifondi della storia e che, anche volendo, non potrebbe fare “moralismo da strapazzo”.

Giorgia Loi- Iglesias