DONALD WESTLAKE, Veleno nel sangue
A. Mondadori, 1962, 175 p.
(Il Giallo Mondadori ; 720). - Tit. origin.: 361 (c1962). - Trad. di: Paola Garini. - Copertina di Carlo Jacono

 

 


Il romanzo

Dal retro di copertina:

"Quando Ray Kelly viene congedato, suo padre arriva fino a New York per accoglierlo. L’indomani, ripartono insieme per tornare a casa. Duran­te il tragitto, Ray dice: “ Mi sento bene. Sono felice di essere di nuovo negli Stati Uniti, con mio padre, in abiti civili. Che meraviglia! ”.Ma a un certo punto, da una Chrysler sbuca improvvisamente una mano armata di pistola, e il padre di Ray sbarra gli occhi, mentre dalla bocca gli schizza fuori il sangue, e si riversa in grembo a suo figlio. Ray resta vivo per miracolo, anche se menomato. Da questo momento, la sua vita ha un solo scopo: prendere l’assassino e ucciderlo. Westlake è un autore che sa il fatto suo: speriamo che “ sforni ” molti “ gialli ” come questo."


Le prime righe

Sceso all'Aeroporto di Maguire, mandai un telegramma a mio padre prima che ci facessero salire negli autobus per portarci in caserma, dove rimasi solo due giorni perché la mia ferma scadeva, e io ero libero d'andarmene per i fatti miei: in abiti civili, finalmente.
Ero un vero fallimento: avevo ventitré anni, una gran confusione d'inglese e tedesco in testa, due valigie piene di cianfrusaglie e nessun progetto: promettevo bene!
Mi trovavo nella caserma di aviazione Manhattan Beach, che si trova nel quartiere sud-est di Brooklyn, non lontano da Coney lsland e lontanissimo da Manhattan. Uscii dal cancello senza che nessuno mi guardasse due volte, e mi trovai sulla Orientai Avenue; avanti a sinistra, vicino a un campo, c'era un rondò intorno al quale giravano gli autobus. In quel momento, ce n'era fermo uno verde; mi avvicinai, sali e dissi all'autista di farmi scendere a una stazione della metropolitana perché dovevo andare a Manhattan, poi sedetti in un posto laterale, proprio dietro di lui.
Nell'autobus, c'erano altri due avieri verso il fondo, un'infermiera negra e nessun altro. Poco dopo, salì un tale con due valigie, ed evitò di guardarmi. Non l'avevo mai visto prima ma si capiva che era stato appena congedato, come me; per questo, provavamo tutti e due una specie d'imbarazzo ed evitavamo di guardarci in faccia.
Era il pomeriggio di martedì 12 luglio, e faceva molto caldo; veramente, avrebbero dovuto congedarmi il 23, ma in Aviazione non badano a qualche giorno di differenza: basta che coincida il mese.
Fuori, l'asfalto si scioglieva, e vi rimanevano le impronte; lontano, si levavano dei bagliori dalla strada; le cromature delle auto luccicavano per miglia in distanza; il campo, fra il rondò e l'Oceano Atlantico, appariva arido e brullo.
Poco dopo, l'autista mise da parte il "News", avviò il motore e girò attorno al rondò sterzando con forza; sul dorso, la sua camicia grigia mostrava chiazze di sudore. Quando raddrizzò la vettura, procedendo in linea retta, dal finestrino 'che aveva accanto entrò una lieve brezza.
- Ecco la metropolitana, da quella parte - indicò, fermando la macchina. Alcuni gradini salivano verso una strada sopraelevata. Lo ringraziai, e, mentre scaricavo le valigie, lui aggiunse:
- Buona fortuna, soldato!
Abbozzai un sorriso, ma non apprezzai la parola "soldato": non ero un soldato qualsiasi, ero un aviere, e avrebbe dovuto saperlo, lui che percorreva quella linea vicino alla base! Al diavolo! Oramai non ero più neanche un aviere: ero un civile.
Mi trovavo alla fermata di Brighton Beach sulla linea omonima: Coney Island era la terza fermata, al capolinea di sinistra; Manhattan sempre dritto a destra. Dopo aver portato le valigie su per le scale ero già stanco: presi mentalmente nota di due punti di riferimento per ogni evenienza, e mi avviai alla piattaforma.
Sul treno si trovavano dei ragazzi di quattordici anni circa, che scarabocchiavano i manifesti pubblicitari e facevano un gran chiasso, mentre io contemplavo il panorama che mi si offriva dal finestrino: panorama che poco dopo si trasformò in una squallida periferia: edifici di pietra, quattro o cinque negozi, file e file di finestre; sui marciapiedi carrozzini per bimbi, vecchie sedie da cucina e scatole di latte in polvere, vuote. Poi imboccammo una galleria e non ci fu più nulla da vedere. I ragazzi scesero alla fermata di Newkirk e da questa stazione in poi il treno percorse una interminabile via sotterranea, così mi misi a leggere gli avvisi pubblicitari affissi sopra i finestrini.. Il treno passò sul ponte di Manhattan, affiancato da auto e camion che correvano su un tratto loro destinato. La scena si presentava ai miei occhi come la pagina illustrata d'un libro di geografia per ragazzi: un DC 3 volava nel cielo; sotto il ponte, un rimorchiatore, e in fondo alla pagina tre righe d'informazione sui trasporti.
Attraversato il ponte, il treno imboccò una seconda galleria, e io presi il giornale su cui era segnato l'indirizzo che la moglie di Bill mi aveva dato. Pensavo che sarebbe venuto lui, a incontrarmi in città, ma, quando avevo telefonato a mia cognata, lei mi aveva comunicato che mio fratello era andato a Plattsburg per un affare con una compagnia di trasporti, e che in sua vece, sarebbe venuto mio padre, e mi diede il nome dell'albergo nel quale lui si trovava. Questo, il giorno prima, e mi aveva fatto un certo effetto, parlare con la moglie di mio fratello, poiché non la conoscevo: lui l'aveva incontrata sei mesi dopo che io ero partito per la Germania; poco dopo l'aveva sposata, e da allora erano trascorsi quasi due anni.. Si chiamava Ann.
Tre anni erano molti, e solo ora me ne rendevo conto.
L'albergo si trovava all'angolo tra Lexington Avenue e la Cinquantaduesima 5 tra da Est: era il Weatherton. Mi alzai e andai a consultare la mappa in fondo alla vettura: dovevo prendere il treno per Lexington che faceva una fermata alla Cinquantunesima Strada: doveva essere quella giusta. Seguendo col dito il tracciato sulla mappa, capii dove mi trovavo: ecco, avrei dovuto scendere in Union Square e prendere la linea di Lexington.
Scesi alla seconda fermata dopo il ponte; girai un poco sempre portando le va1igie, studiando le indicazioni, urtato dalla gente. Alla fine scorsi la freccia che indicava l'uscita e la seguii, all'inferno la metropolitana, così complicata! Salii le scale e, tornato al sole, chiamai un tassi e dissi all'autista: - Lexington Avenue, angolo Cinquantaduesima Strada. - Il tassametro segnava settantacinque cents e gli diedi un dollaro, mentre un fattorino dell'albergo si prendeva cura del mio bagaglio. Una tenda verde sormontava l'ingresso e riparava dal sole il portiere in divisa verde e oro. Entrato, mi diressi al bureau, chiedendo di mio padre, Williard Kelly senior. Due altri fattorini, ai quali diedi mezzo dollaro di mancia, mi accompagnarono davanti alla porta della sua camera. - Ora busso - dissi al fattorino numero due. - Non ci vediamo da molto tempo.
- Sissignore. - Intascò Il suo quarto di dollaro e se ne andò. Bussai e mio padre mi aprì, sorrise ed esclamò: - Ray, ragazzo mio!
Sorridendo e reggendo le valigie, entrai e lui mi batté sulle spalle soggiungendo: - Hai scritto che saresti diventato sergente. Come mai? Hai rinunciato?
- Sai, ero aviere scelto e avrei potuto ottenere la promozione a sergente, ma solo prolungando la ferma, e mi pareva che non ne valesse la pena. Così sono tornato borghese.
- Perdinci, Ray - esclamò - hai un bell'aspetto! Sei diventato più alto, no?
- Non credo: più robusto, forse.
- Mio Dio, sì: guarda che spalle! Dì, aspetta di vedere Betsy: ha cinque mesi, adesso!
- Sorrise ancora. - Che effetto ti fa, essere zio?
- Ancora non lo so. Ho parlato ieri con Ann per telefono, sembra in gamba.
- E' una brava ragazza, Bill si è sistemato bene. - Poi scosse il capo ammiccando, mi si avvicinò per abbracciarmi e mi accarezzò la nuca. - Dio mio, ragazzo - disse con voce rotta.
Avevo cercato di farmi forza, ma ora non potei più trattenermi e tutti e due ci mettemmo a piangere come due femminucce, pur continuando a darci dei colpi l'un l'altro per dimostrarci che eravamo uomini.
Quando proposi di andare a colazione fuori, papà si mostrò piuttosto riluttante: non aveva voglia di lasciare la stanza, e, siccome non sembrava indisposto, pensai che fosse solo stanco e volesse anche evitare il caldo tremendo di fuori, mentre lì c'era l'aria condizionata. Tuttavia uscimmo, ma lui volle rientrare al più presto. Mi sarebbe piaciuto visitare un po' la città, ma poiché ero rimasto lontano da lui tre lunghi anni, rientrai anch'io. Lungo la strada, mi guardavo continuamente in giro; ero nato a New York, ma c'ero rimasto soltanto un anno, e non potevo ricordare niente della città, come non ricordavo niente di mia madre, che era morta un anno dopo il trasferimento.
Passammo il pomeriggio in camera, in canottiera e col condizionatore d'aria in funzione. C'erano due letti più ampi dei normali, e mi gettai su uno dl essi con due cuscini sotto il capo. Papà continuava ad aggirarsi per la stanza, inquieto, spostando posacenere, bicchieri e guide del telefono: non lo avevo mai visto così nervoso, e solo per questo lo trovavo cambiato; per il resto, era sempre lo stesso, come se tre anni non fossero passati. - Aveva circa cinquant'anni, i capelli rossicci striati di grigio, un po' di pancetta e occhiali di plastica con lenti d'antiquata forma rotonda: proprio come sempre. Anche la sua canottiera era di vecchio stampo, con le spalline sottili che lasciano nude le spalle e le braccia: le spalle di papà erano grassocce, un po' curve e coperte di lentiggini.
Durante il pomeriggio mi ragguagliò sulla famiglia: Bill, il mio fratello maggiore che aveva ormai ventisei anni, si era sposato, aveva una bambina e lavorava per la "Carmine Truck Sales"; da un anno aveva preso la patente di guida. Lo zio Henry sempre lo stesso. Come tutti: sempre gli stessi.
Anche dopo cena, mio padre voleva rientrare immediatamente in albergo, adducendo la scusa che dovevamo esser ben riposati per il viaggio dell'indomani, ma io dissi: - Via, sono appena le sette e mezzo; andiamo, papà, è l'unica occasione che ho per dare un'occhiata alla città. Ti prometto che saremo di ritorno per mezzanotte.
Allora, lui acconsentì stringendosi nelle spalle, e visitammo Times Square e altri luoghi, ma ne fui deluso: mi ero aspettato qualcosa di unico. Come Monaco. Quella sì, che era unica. Ne ero rimasto affascinato: non avevo mai visto nulla di simile; ma New York non era che un grosso paese, una specie di Binghamton più estesa, come l'ingrandimento d'una fotografia, nel quale la grana è più chiara e di conseguenza anche i difetti sono più appariscenti.
Tornammo in albergo prima di mezzanotte, e la mattina dopo lasciammo la stanza prima delle nove.
Alla porta dell'albergo, ci avevano fatto trovare la macchina di mio padre: una Oldsmobile: lui comprava sempre quel tipo, ma questa non l'avevo ancora vista perché l'aveva acquistata l'anno prima; era nera, mentre, quando m'ero Imbarcato per la Germania, ne aveva una in due toni d'azzurro.
Vennero sistemate le valigie nel baule, e papà s'incaricò di distribuire le mance. Partimmo dirigendoci a ovest attraverso la città, verso la Cinquantatreesima Strada.
Feci per abbassare il finestrino, ma papà disse: - No, lascia stare. Guarda. - Premette un pulsante sul cruscotto: seguì un ronzio, poi sentii un soffio d'aria fredda sulla fronte, proveniente da un forellino proprio sopra lo sportello.
- Condizionatore d'aria - spiegò mio padre. - Trecento dollari in più, ma ne vale. la pena: cambia completamente l'aria ogni minuto.
- La professione dell'avvocato rende bene - osservai.
- Per conto di clienti, ho curato la liquidazione di danni subiti, in seguito a incidenti, presso varie compagnie d'assicurazione ed ho preso delle buone percentuali. - Mi sorrise.
Anch'io sorrisi: ero contento d'essere di nuovo negli Stati Uniti, d'essere con mio padre, d'essere un borghese. Magnifico!
Salimmo verso 1'Henry Hudson Parkway e il ponte George Washington di cui imboccammo Il piano inferiore. Papà disse:
- Questo è nuovo.
- Questa parte del ponte? E' magnifica.
Andammo dalla Statale numero 9 alla 17, e poi a ovest, sulla 17, diretti a Binghamton.
A trentotto miglia da New York,, mentre la strada era deserta, ci si avvicinò una Chrysler gialla e marrone: l'uomo dalla nostra parte sporse dal finestrino una mano che impugnava una pistola e cominciò a sparare.
Mio padre mi guardò con gli occhi sbarrati e colmi di terrore: schiuse le labbra e disse:
- Cap - con voce strozzata, poi il sangue gli schizzò dalla bocca, e lui mi cadde in grembo, con lo sguardo vitreo. L'auto deviò dalla strada e andò a sbattere contro la spalletta del ponte.


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