Javier Marías, Domani nella battaglia pensa a me, Einaudi, 1998, 283 p.  

Il romanzo

La storia si svolge a Madrid e ha come protagonista Víctor Francés, sceneggiatore cinematografico e televisivo. Il romanzo prende avvio da un'avventura erotica tra Victor e Marta, una giovane donna sposata da poco conosciuta. Il marito di Marta, Eduardo, è a Londra per lavoro e Victor cena a casa di Marta. Al termine della cena, dopo i primi convenevoli amorosi , la donna comincia a stare male e muore tra le braccia di Victor. Lo sceneggiatore non sa come comportarsi. Medita a lungo cosa fare del bambino di due anni che dorme ignaro; è incerto se avvisare o meno il marito. Decide di andarsene dopo avere lasciato del cibo al bambino e aver fatto un timido tentativo di telefonare al marito, subito interrotto per non essere in grado di sostenere la conversazione.

Unico testimone della morte di Marta, Victor sente la responsabilità di essere il custode delle sue ultime volontà e decide di entrare in contatto con il marito, la sorella e il padre della donna. In particolare, stabilisce un rapporto molto stretto con la sorella, Luisa, raccontandole gli ultimi attimi della vita di Marta e rivelandole tutte le paure, le incertezze ed i dubbi da lui provati in quel frangente.

Il successivo colloquio di Victor con il marito, Eduardo Deán, rivela come gli eventi di quella notte e il silenzio del giorno successivo avevano determinato un susseguirsi di accadimenti che sarebbero stati ben diversi se la morte della moglie gli fosse stata comunicata immediatamente. La mancata informazione aveva però permessoa Deán di capire l'inganno di cui era vittima: una scoperta pagata però a caro prezzo visto poiché nell'arco di poco più di venti ore egli perde sia la moglie che l'amante.

Il risultato finale è di una grande e tragica beffa in cui gli uomini, nella vita e nella morte, rappresentano delle pedine di un gioco oscuro, di cui non possono e non sanno capire il senso. Ogni cosa sembra così moltiplicarsi in una poliedricità inesauribile di interpretazioni alternative e possibili.


Le prime righe

Nessuno pensa mai che potrebbe ritrovarsi con una morta tra le braccia e non rivedere mai più il viso di cui ricorda il nome. Nessuno pensa mai che qualcuno possa morire nel momento più inopportuno anche se questo capita di continuo, e crediamo che nessuno se non chi sia previsto dovrà morire accanto a noi. Molte volte si nascondono i fatti o le circostanze: i vivi e quello che muore - se ha il tempo di accorgersene - spesso provano vergogna per la forma della morte possibile e per le sue apparenze, e anche per la causa. Una indigestione di frutti di mare, una sigaretta accesa quando si sta per prendere sonno che dà fuoco alle lenzuola, o anche peggio, alla lana di una coperta; uno scivolone nella doccia - la nuca - e la porta del bagno chiusa a chiave, un fulmine divide l'albero in un grande viale e quell'albero cadendo schiaccia o stacca la testa di un passante, forse uno straniero; morire con indosso soltanto i pedalini, o dal barbiere con un grande bavaglino, al postribolo o dal dentista; o mangiando il pesce e trafitto da una spina, morire strozzandosi come il bambino la cui madre non è lì a infilargli un dito in gola per salvarlo; morire rasati a metà, con una guancia coperta di schiuma e la barba diseguale fino alla fine dei tempi se nessuno rimedia e per pietà estetica non conclude il lavoro; per non citare i momenti più ignobili dell'esistenza, i pià nascosti, di cui non si parla mai se non durante l'adolescenza, perché al di fuori di questa non c'è il pretesto, anche se c'è poi chi li sbandiera per apparire arguto senza ruscirci mai. Ma quella è una morte orrenda, si dice di certe morti; ma quella è una morte ridicola, si dice anche, sghignazzando. Lo sghignazzo viene fuori perché si parla di un nemico finalmente estinto o di qualcuno distante, qualcuno che ci ha fatto uno sgarbo o che abita nel passato da molto tempo, un imperatore romano, un trisavolo, oppure qualche potente nella cui morte grottesca si vede soltanto la giustizia ancora vitale, ancora umana, che in fondo desidereremmo per tutti quanti, noi compresi. Come mi rallegro di questa morte, come mi dispiace, come la celebro. A volte per suscitare l'ilarità basta che il morto sia uno sconosciuto, della cui disgrazie inevitabilmente ridicola leggiamo sui giornali, poveretto, si dice in preda alle risate, la morte come rappresentazione o come spettacolo di cui si da notizia, tutte quante le storie che si raccontano o si leggono o si ascltano percepite come teatro, c'è sempre un grado di irrealtà in ciò di cui ci informano, come se niente accadesse mai per intero, nemmeno quello che capita a noi e che non dimentichiamo. Nemmeno quello che non dimentichiamo.

C'è un grado di irrealtà in quello che è capitato a me, e oltretutto non è ancora concluso, o forse dovrei usare un altro tempo verbale, quello classico della nostra lingua quando raccontiamo, e dire quello che capitò a me, sebbene non sia concluso. Forse adesso, a raccontarlo, potrebbe farmi ridere. Ma non credo, perché ancora non è lontano e la mia morta non abita nel passato da molto tempo e non era né potente né nemica, e senza dubbio non posso nemmeno dire che fosse una sconosciuta, anche se sapevo ben poco di lei quando è morta tra le mie braccia - adesso ne so di più, invece. E' stato un caso che non fosse ancora nuda, o non del tutto, eravamo proprio nella fase della svestizione, ci stavamo spogliando l'un l'altra come succede di solito la prima volta che succede, cioè, nelle notti inaugurali che assumono l'apparenza dell'imprevisto, o che si fingono non premeditate per lasciare salvo il pudore e per poter poi avere una sensazione di inevitabilità, e così respingere la possibile colpa, la gente crede alla predestinazione e all'intervento del fato, quando le conviene. Come se tutti quanti avessero interesse a dire, se si presenta l'occasione: "Non sono stato io a cercarlo, io non volevo", quando le cose riescono male o si rivelano deprimenti o uno si pente o risulta che ha fatto del male a se stesso. Non sono stato io a cercarlo e nemmeno volevo, dovrei dire adesso che so che lei è morta, e che è morta inopportunamente tra le mie braccia quasi senza conoscermi - immeritatamente, non toccava a me starle accanto. Nessuno mi crederebbe se lo dicessi, e questo tuttavia non importa un granché, visto che sono io che sto raccontando, e mi si sta a sentire o non mi si sta a sentire, questo è tutto. Non sono stato io a cercarlo, io non volevo, dico perciò adesso, e lei non può più dire altrettanto né nient'altro né smentirmi, l'ultima cosa che ha detto è stato: "Dio mio, e il bambino ". La prima cosa che aveva detto era stato: " Non mi sento bene, non so che mi sta succedendo ". Intendo dire la prima cosa dopo che s'era interrotta la fase della svestizione, eravamo già arrivati in camera da letto ed eravamo sdraiati, mezzo vestiti e mezzo spogliati. All'improvviso si è tirata indietro e mi ha toccato le labbra come se non volesse smettere di baciarmele senza il passaggio di un altro affetto e di un altro tatto, e mi ha scostato delicatamente con il dorso della mano e si è messa giù di fianco, voltandomi le spalle, e quando le ho domandato: "Che cosa c'è?", mi ha risposto cosi: "Non mi sento bene, non so che mi sta succedendo". Ho visto allora la sua nuca che non avevo mai visto, con i capelli un po' sollevati e un po' arruffati e un po' sudati, e non faceva caldo, una nuca ottocentesca lungo la quale correvano striature o fili di capelli neri e appiccicati, come sangue non ancora secco, o fango, come la nuca di qualcuno che è scivolato nella doccia e non ha avuto tempo di chiudere il rubinetto. Tutto è successo molto in fretta e non c'è stato il tempo per poter fare niente. Per telefonare a un medico (ma quale medico alle tre del mattino, i medici ormai non vanno per le case nemmeno all'ora di pranzo), per avvisare un vicino (ma quale vicino, io non li conoscevo, non ero a casa mia e non ero mai stato in quella casa in cui mi ero trovato a essere ospite e poi intruso, nemmeno in quella strada, poche volte nel quartiere, molto tempo prima), per telefonare al marito (ma come avrei potuto telefonare al marito, che oltretutto era in viaggio, e nemmeno conoscevo il suo nome per intero), per svegliare il bambino (e perché mai avrei dovuto svegliare il bambino, con tutto quello che c'era voluto per farlo addormentare), per cercare di aiutarla io stesso, si è sentita male all'improvviso, dapprima ho pensato o abbiamo pensato che le avesse fatto male la cena con tutte quelle interruzioni, o ho pensato io solo che forse si era depressa o si stava pentendo o che aveva avuto paura, queste tre cose assumono spesso l'aspetto del malessere e della malattia, la paura e la depressione e il pentimento, soprattutto se quest'ultimo compare contemporaneamente alle azioni che lo provocano, tutto insieme, un sì e un no e un forse e intanto tutto è proseguito o è passato, la sventura di non sapere di dover agire perché bisogna dare un contenuto al tempo che preme e continua a scorrere senza aspettarci, andiamo più lenti: decidere senza sapere, agire senza sapere e perciò prevedendo, la più grave e la più comune disgrazia, prevedendo quello che viene dopo, percepita normalmente come disgrazia minore, ma percepita da tutti giorno per giorno. Qualcosa a cui ci si abitua, non ci badiamo molto. Si è sentita male e non oso nominarla, Marta, questo era il suo nome, Téllez il cognome, ha detto che sentiva nausea, e io le ho domandato: "Ma che genere di nausea, di stomaco o di testa?" "Non lo so, una nausea tremenda, di tutto, di tutto il corpo, mi sento morire".


Il commento

Un romanzo il cui titolo si rifà al quinto atto del Riccardo III di Shakespeare, "Domani nella battaglia pensa a me, quando io ero mortale, e lascia cadere la tua lancia rugginosa. Che io pesi domani sopra la tua anima, che io sia piombo dentro al tuo petto e finiscano i tuoi giorni in sanguinosa battaglia. Domani nella battaglia pensa a me, dispera e muori".

Un'opera decisamente interessante in cui le emozioni, le fantasie e le sensazioni di Victor coinvolgono completamente il lettore. Lo stile di Marias non è dei più semplici: all'inizio il suo ampio periodare comporta qualche fatica, la lettura non procede spedita, il ritmo è lento, i flussi di coscienza del protagonista ritornano spesso su se stessi. Superate le prime pagine, così come mi era già accaduto con il portoghese Saramago, ho apprezzato notevolmente il romanzo da consigliarne sicuramente la lettura.

Marias mostra un'indubbia capacità a rappresentare i flussi di coscienza di Victor, i suoi tortuosi percorsi, le sue ambiguità, le mille sfaccettature e possibilità con cui essa percepisce la realtà circostante. Emblematico, in questo senso, l'episodio della prostitua Celia che a Victor sembra essere la ex moglie Victoria. L'autore non chiarisce il dubbio e lascia il lettore, così come Victor nell'incertezza se il colloquio, l'abbordaggio, le parole della giovane moglie/prostituta sono finzione o se invece tutto corrisponde al normale approccio dell'amore prezzolato.

Mi fermo qui e lascio la parola all'autore stesso che nell'epilogo del romanzo delinea in modo estremamente efficace il senso del romanzo soffermandosi, più in generale, sul significato della letteratura e del rapporto di questa con la realtà.


Torna alla pagina principale