"...Ci sono certi venti che si possono chiamare gentili. Sono quelli che soffiano piano ma soprattutto sono quelli caldi. Si avvicinano con un sospiro tiepido e leggero, come il respiro di un amante timido che sussurri prima di appoggiare le labbra alla pelle. Sono le brezze di mare e di monte, il ponente quando l'aria è dolce e il levante, che se è bagnato di pioggia in arrivo è come un secondo bacio, più intenso e umido di saliva

Sul Molo Vecchio i venti gentili suonavano piano, scivolavano tra le arcate e le lamine di copertura stendendo un mormorio sottile e sommesso come un fondo di archi, da cui si staccava ogni tanto un violino più agile o il tocco più acuto di un triangolo.

[...]

Ci sono poi certi venti che si possono chiamare arroganti. Sono quelli che arrivano all'improvviso, senza pudore, e spingono, scostano con durezza, come se veramente il loro soffio non fosse solo aria in movimento ma un corpo fisico, fatto di materia che ha bisogno di spazio e lo vuole in fretta. Sono venti ruvidi, che non hanno tempo, gonfi e pesanti come mani appoggiate sul petto a spingere lontano, per farsi strada, e si chiamano maestro o maestrale, bora e tramontana. Più cattivo il libeccio, che prima di arrivare si annuncia con una scarica di raffiche nere, sprezzanti come una risata.

Più che dal colore o dal loro effetto sul mare o sul suo corpo, l'ufficiale postale li riconosceva dalla voce. Sulla pelle se li era sentiti soltanto le rare volte che usciva dal faro, mai negli ultimi tempi, e vederli scompigliare le onde gli era quasi impossibile, avvolto com'era da quella nebbia biancastra che quasi ogni giorno gli appannava le finestre come vetro smerigliato. Se li riconosceva, se riusciva a immaginarne la consistenza o a ricordarne il carattere, era da come suonavano. I venti arroganti suonavano strumenti a fiato e a percussione. Soffiavano forte dentro un crescendo di trombe, tube e tromboni, e picchiavano a pugni chiusi sulle grancasse e sui tamburi. Martellavano insistenti sulle campane. Da quel sipario di ovatta oltre le vetrate del faro, così bianco e così vuoto da sembrare abbagliante, arrivava un crescendo di tuoni strappati a forza dagli occhielli dei piloni, di boati schiacciati contro le strutture tese del molo, di strilli scoccati dalle borchie dei tiranti, acuti e veloci come fulmini. Era una sinfonia che montava, che si gonfiava rapida in quel nulla accecante, gli squilli delle trombe che si rincorrevano, arrampicandosi come topi, uno dietro l'altro, sempre più in alto, il muggito profondo delle tube e dei bassi che si allargava violento come uno schianto, le raffiche acute delle campane e le esplosioni dei tamburi, sempre più serrate, sempre più forti, sempre più veloci, finché il libeccio non sollevava un'onda di mare e la spaccava contro il molo, metallica e schiumosa come un colpo di piatti.

Ci sono certi venti che si possono chiamare diabolici. Sono quelli che vengono dall'Africa e si potrebbero anche chiamare seducenti o insistenti ma diabolici è meglio. Sono venti che fanno impazzire. Sono venti che avvolgono, che soffiano forte, ma invece di spingere sembra che girino attorno. Sono venti caldi, così secchi che asciugano la gola o così umidi che appiccicano i vestiti addosso. Sono venti che si appoggiano, che pesano sul collo e sulle spalle e intanto soffiano, soffiano e soffiano, insistentemente, anche quando sembra che non lo stiano facendo. Perché sono venti che fingono, che coprono il sole di polvere e sabbia come fosse notte, che sciolgono la neve d'inverno come fosse estate, che riempiono gli occhi e le orecchie, si infilano dentro e svuotano, grattano via il cuore e il cervello, lasciando un involucro inutile, vuoto, ronzante di polvere e mosche.

Alcuni di questi venti l'ufficiale postale li conosceva di persona, come lo scirocco, di altri aveva sentito parlare da chi era ritornato dalla Tripolitania e li chiamava simùn, harmattan e ghibli. E anche un vento del nord, il föhn, portato da chi aveva fatto la guerra sul Carso.

Uno solo dei venti africani arrivava a volte fino all'isola, guidato dalle correnti marine attraverso un buco tra le masse d'aria lungo e stretto come un corridoio era il khamsïn, il vento nero e rovente che aveva portato le tenebre in Egitto ai tempi di Mosè.

Il khamsïn suonava il flauto. Era un flauto a due canne, una più bassa e l'altra più acuta ma sempre insinuante e sottile. Le note sibilavano rotonde e leggere, volavano attorno, giravano veloci ma ogni tanto ne usciva una diversa, disarmonica e dissonante, che restava sospesa nell'aria come un granello di polvere.

Gli altri venti diabolici suonavano i violini. Ma non piano, in sottofondo, li suonavano forte come solisti, compatti e insistenti come uno scroscio di pioggia, vibranti come fiamme, sempre più intensi, più stretti e più acuti, e anche tra quelli ce n'era qualcuno che si alzava, che usciva, storto, inclinato dalla parte sbagliata, pungente come uno spillo dimenticato. ... " p. 138-140.


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