MASSIMO CARLOTTO, La verità dell'Alligatore
ed. e/o, 1995, 212 p.
(Dal mondo)
Biografia autore

Approfondimenti....


Il romanzo

La verità dell'Alligatore è il primo romanzo di Carlotto che vede come protagonista l'Alligatore, ex cantante di blues condannato ingiustamente a sette anni di carcere. musicista che lavora, ai confini della legalità, per alcuni avvocati che hanno bisogno di togliere dai guai i propri clienti; l'aiutano nel compito Beniamino Rossini, malavitoso "vecchio stampo" e Max la Memoria, ex fiancheggiatore dei gruppi terroristici graziato dal Presidente della repubblica.

L'innocente Nazzareno Corradi, implicato tuttavia in passato in un caso d'omicidio, viene arrestato con l'accusa di essere coinvolto in un grosso giro di droga, gestito dai colombiani. La vicenda, dai pericolosi

risvolti internazionali, vede implicate anche le forze dell'ordine che utilizzano il Corradi per coprire un pentito in grado di disvelare gli alti livelli del traffico della droga in tutto il nord-est dell'Italia.

L'intera vicenda si svolge sullo sfondo della realtà sociale del nord-est italiano caratterizzato da un considerevole giro di denaro ed un vasto mercato della droga. Sino al termine del romanzo l'Alligatore ed i suoi collaboratori sono impgnati in una dura battaglia fuori dalla legalità contro Tia, ultima sopravvisuta del cartello di Medellín impegnata ferocemente a mantenere e rafforzare i propri affari in Italia, e contro omertà e giochi sporchi condotti dalle forze dell'ordine.


Le prime righe

Quando la vidi entrare, tailleur costoso e borsa rigida da professionista, capii subito che mi sarei perso parte del concerto di Cooper Terry che stava iniziando in quel momento.

Solo il chiarore fioco irradiato dai tubi fluorescenti delle pubblicità delle varie marche di birra illuminava l'interno del locale in cui mi trovavo - il Noisebar Banale - uno scantinato trasformato nel club più frequentato di Padova, situato al Portello, quella zona della città un tempo gagliardo quartiere di malaffare, oggi popoloso rifugio-dormitorio per universitari fuori sede: ogni cinque portoni una pizzeria al trancio, dopo dieci una lavanderia a gettoni e ovunque cumuli di biciclette arrugginite, incatenate ai pali della segnaletica stradale.

Detesto che qualcuno mi disturbi mentre ascolto del buon blues, ma allora capitava piuttosto di frequente. Tutti sapevano che fare il giro dei locali era l'unico modo per trovarmi: il mio nome non appariva sulla guida telefonica e nessuno conosceva il mio indirizzo.

Molti anni prima - ero ancora uno studente - la mia casa nel centro storico veniva aperta a chiunque si presentasse alla porta dichiarando di aver bisogno di un posto per dormire. Una sera era arrivato un tizio dall'accento romano, con una borsa sportiva e una faccia che avevo già visto da qualche parte. Ci arrestarono all'alba. Lui è ancora dentro, io gli ho fatto compagnia per sette lunghi anni. Per cavarmela con molto meno avrei dovuto firmare certi verbali e riconoscere certe facce. Preferii starmene zitto. Non mi presentai nemmeno al processo, lasciando tutto solo l’avvocato d'ufficio, un tipo smilzo dagli occhi scuri vivaci e con un vistoso paio di baffi. Tutti e due sapevamo che per me si poteva fare ben poco. Giudici e giornalisti mi definirono un irriducibile. Invece io non stavo né da una parte né dall'altra. Semplicemente non avevo nulla da dire.

In galera continuai a non vedere e a non sentire. Questo fece di me una specie di saggio, una persona di rispetto. Così quando c'era qualche problema mi venivano a cercare e io fungevo da intermediario. Delle loro beghe da malavitosi non me ne importava un accidente, ma le guerre interne a cui inevitabilmente portavano rendevano più dura la vita di tutti. Anche la mia.

Una volta uscito ho continuato a godere di una buona reputazione. Un giorno mi venne a trovare un avvocato che non sapeva come fare per dimostrare che il suo cliente, sebbene accusato di aver rapinato una banca, era del tutto innocente. Fu un lavoro pulito. I veri responsabili si decisero a fornire le prove dell'estraneità dell'imputato quando ebbero la mia parola che nessuno avrebbe mai scoperto la loro identità.

Da allora svolgo piccole indagini per tutti quei legali che hanno bisogno di entrature nel mondo della malavita. Solo dietro compenso, naturalmente.

Tutti buoni motivi per non far sapere in giro dove abitavo. Neanche agli amici.

Ma trovarmi non era difficile perché nell'ambiente chiunque era al corrente che ai concerti blues non mancavo mai.

Prima di finire nei guai ero il cantante di un gruppo, gli Old Red Alligators, e fu così che iniziarono a chiamarmi Alligatore. Ci esibivamo nei club del nord e non eravamo male. Accompagnavo i miei blues con il rubboard, uno strumento che si ricava artigianalmente da una lamina di metallo ondulato - a una prima occhiata, può sembrare una tavola per lavare i panni - e la cui sonorità è sempre presente nella musica zydeco dei gruppi neri Cajuns, i discendenti degli afroamericani della Louisiana. Lo suonavo alla maniera di Cliveland Chenier, cioè servendomi di una sorta di plettro che il più delle volte si riduceva a essere la linguetta della lattina di birra che tieni al tuo fianco per bagnarti il becco quando ti viene sete. il nostro pezzo forte era tratto da una poesia di Assata Shakur:

I must confess that waltzes
do not move me.
I have no sympathy for symphonies.
I guess I hummed the Blues
too early,
and spent toomany rnidnights
out wailing to the rain.

Dalla galera sono uscito senza più la voglia di cantare e suonare. Mi va solo di ascoltare. E di continuare a bere. Ormai soltanto calvados, tutto ciò che mi rimane di una donna perduta in Francia. Un tempo tutto quello che mi capitava a tiro, perché "puoi togliere il blues dall'alcol ma non l'alcol dal blues". Durante quei sette lunghi anni, invece, non ho toccato un goccio. Dentro si distillava clandestinamente una specie di veleno che i vecchi coatti chiamavano "il brandy dell'Hotel Millesbarre". Ma era troppo triste bere di nascosto.


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