Due vite parallele

 

L'ESSERE E L'APPARIRE

di Enrico Gilardoni

CAPITOLO IX

 

Nel frattempo Renato, finalmente gestore a pieno titolo della Agenzia di Montecompatri, si dedicava con ogni energia al suo lavoro, cercando di trarne il massimo profitto e di valorizzare la sua immagine, non tanto per un suo immediato tornaconto personale quanto per avere la soddisfazione di essere considerato dall'ambiente che gravita attorno alle attività finanziarie un operatore emergente dotato di non indifferenti capacità imprenditoriali e professionali. Come spesso succede nella vita di tutti, al concretizzarsi di un evento favorevole se ne contrappone un altro di segno contrario. Infatti Renato e la sua giovane moglie Benedetta non avevano ancora finito di rallegrarsi per il successo ottenuto nell'essere riusciti a raggiungere un traguardo di un certo prestigio, quando ecco che una non lieve avversità veniva a turbare la loro soddisfazione. Nel giro di poco meno di ventiquattr'ore successe l'imprevisto. Benedetta, poco dopo il risveglio, avvertì una strana sensazione di malessere quando ormai Renato era uscito di casa per i suoi impegni di lavoro; per prudenza decise di non recarsi a scuola per tenere le sue lezioni nella speranza che l'indisposizione passasse senza conseguenze. Nel pomeriggio accertò un peggioramento delle sue condizioni avvertendo dei sintomi che non aveva mai provato. Cosciente del suo stato di moglie in attesa, contattò il dottore che le consigliò l'immediato ricovero in ospedale, ravvisando dalla descrizione dei sintomi fattagli telefonicamente una incombente minaccia di aborto. Al suo rientro a casa Renato percepì l'effettiva gravità della situazione in cui si era venuta a trovare sua moglie; seguendo il consiglio del dottore prese contatto con l'ospedale i cui medici però esclusero l'opportunità di un ricovero temendo che il trasporto, nonostante le precauzioni, fosse controproducente. In queste occasioni l'assoluto riposo a letto ed una terapia con specifici farmaci sono gli unici rimedi che possono prevenire l'interruzione della gravidanza. Sulla base di questi suggerimenti i due giovani attesero l'indomani, nella speranza che la natura e le medicine riuscissero a non privarli del figlio che avevano concepito. Prima dell'alba del giorno dopo accadde purtroppo l'irreparabile. Una forte emorragia colpì la giovane donna e con essa di perse l'embrione che stava crescendo nel grembo materno. I successivi accertamenti ospedalieri e le cure dal caso fecero ristabilire in breve tempo Benedetta ma lasciarono un triste rimpianto nel suo animo.

Il fatto in sé stesso, non certo grave sotto il profilo clinico e non infrequente fra le donne in attesa, per Benedetta e Renato si tradusse in un vero e proprio trauma che segnò profondamene la loro psiche del tutto impreparata ad affrontare eventi che coinvolgono la sfera dei sentimenti. Sentimenti che in effetti erano maturati inconsapevolmente dentro di loro di pari passo alla crescita della creatura che già sentivano appartenergli. Anche se il passare del tempo attenuò apparentemente il loro dispiacere, in realtà nel loro inconscio permaneva un latente stato di sofferenza che influiva negativamente sulla loro serenità. Da qui l'insorgere di insulse discussioni per i motivi più banali, polemiche che si tramutavano in diatribe che non riuscivano a trovare una rapida composizione e che, di conseguenza, inaridivano il loro rapporto. Questo stato di cose indusse Renato a coltivare ulteriormente il suo lavoro. Quasi senza accorgersene anche Benedetta si dedicava a tempo pieno ai suoi studenti e di conseguenza la convivenza dei due coniugi si attestò a un livello privo di quel calore che solo gli affetti più profondi possono produrre e far permanere negli anni. La successiva accertata impossibilità a diventar madre fece cadere Benedetta in uno stato di profonda depressione. Renato per sua indole non era certo il tipo capace di dare un decisivo contributo per alleviare la pena che questo secondo e più grave colpo della sorte aveva inflitto a sua moglie e a lui stesso. Il sovrapporsi di questi eventi mise a dura prova la loro unione che tuttavia, nonostante il ripetersi di dispute burrascose, riuscì a non sgretolarsi. Al di fuori delle amarezze familiari Renato cominciò a rendersi conto che il possesso dell'Agenzia di Montecompatri, dapprima considerato un ambitissimo punto di arrivo, non costituiva in realtà quella posizione di prestigio e di lucro a cui lui mirava.

L'esperienza che via via stava facendo lo ricondusse a condividere quelle tesi da lui precedentemente contestate, che altri operatori finanziari sostenevano con la massima convinzione. In sostanza costoro andavano predicando che se non si raggiunge un giro d'affari di un certo volume non si possono ottenere quei ritorni in termini economici che fanno fare il salto di qualità. In effetti la competenza, l'oculata gestione, la più completa dedizione agli affari non bastano a produrre margini di guadagno sufficienti per accumulare quelle risorse indispensabili per intraprendere nuove iniziative se non si dispone di un'azienda di adeguate dimensioni. La gestione di una Agenzia di assicurazioni presente su una piazza di un paese piuttosto piccolo, detratti i costi e gli imprevisti, dà un reddito di poco superiore a quello di un buon impiego. Di fronte a queste ineludibili constatazioni sperimentate direttamente, Renato si rese conto di dover fare una scelta: vivere senza troppi affanni con il reddito del suo lavoro e quello di sua moglie, oppure tentare di migliorare nettamente la sua posizione scalando parecchie posizioni nella informale classifica delle persone più in vista del suo ambiente affrontando tutti i rischi connessi. In questa seconda ipotesi era chiaro che non gli sarebbero bastate né la sua indiscussa competenza né il nome che si era fatto lavorando seriamente in tutti gli anni trascorsi; occorrevano capitali in misura cospicua e l'aiuto della buona sorte, come in ogni iniziativa che si ha intenzione di intraprendere. Conoscendo il suo carattere, Renato sapeva perfettamente che il porsi davanti alle due alternative costituiva una pura finzione in quanto lui aveva istintivamente abbracciato la scelta più ambiziosa. La sua voglia di fare e di emergere, non disgiunta dalla soddisfazione di disporre di risorse finanziarie conquistate con il suo impegno, gli faceva escludere a priori ogni esitazione. Partendo da queste premesse si trattava ora di realizzare il suo ambizioso progetto. In primis, fra le altre difficoltà, doveva riuscire per forza di cose a convincere sua moglie, e questo era uno scoglio da non sottovalutare; seguiva poi un'altra serie di ostacoli che avrebbero scoraggiato chiunque non avesse posseduto la sua caparbietà. Egli si rese conto che doveva tessere una tela e non doveva escludere che in più di un'occasione il suo ordito anziché progredire avrebbe potuto regredire. Temendo di trovare non lievi resistenze da parte di Benedetta, che coltivava una filosofia esistenziale molto diversa dalla sua, decise di mettere a fuoco gli altri aspetti del progetto che intendeva realizzare. Rispetto a qualche anno prima, quando si trattò di rilevare dal signor Marini l'agenzia di Montecompatri, la sua posizione era di gran lunga migliore sia sotto il profilo economico che sotto quello della sua solvibilità. Il suo nome e la sua Ditta si erano affermati sulla piazza e le Banche non avrebbero certo negato all'imprenditore Renato Morelli fidi per importi anche cinque o sei volte superiori a quelli tanto faticosamente ottenuti all'epoca del suo ingresso nel mondo degli affari. Tutto ciò sul piano progettuale rappresentava senza dubbio un grosso vantaggio, restavano però da analizzare numerosi altri elementi dell'affare. Dapprima occorreva individuare l'occasione buona e poi, proprio in conformità con le valutazioni che consigliavano l'investimento, occorreva tentare l'acquisto di una azienda che per le sue dimensioni offrisse quel volume di affari ritenuto indispensabile per fare il salto di qualità.

A fronte di queste due condizioni che riteneva prioritarie, Renato avrebbe dovuto offrire al venditore un corrispettivo in danaro di certo non indifferente. Per far fronte a tale esborso, alle sue disponibilità avrebbe dovuto aggiungere altri cospicui capitali presi in prestito, accollandosi i relativi oneri finanziari. Ma non bastava, l'aspetto che più lo preoccupava era il timore non infondato di pagare l'azienda da acquistare ad un prezzo molto più alto del suo intrinseco valore e della sua effettiva redditività. Il suo fiuto, la sua specifica esperienza non erano sufficienti a controbattere le voci ed i commenti che circolavano nell'ambiente e che bollavano come "affaronissimi" o "bidoni" le ricorrenti compra-vendite stipulate negli ultimi tempi. Egli non voleva approfittare dell'eventuale impellente necessità del rivenditore in gravi difficoltà; allo stesso modo non intendeva subire una super quotazione del bene messo in vendita.

Convinto di essere in una posizione di preminenza e soprattutto di non avere l'urgenza di concludere l'acquisizione che aveva programmato, Renato continuava a gestire tranquillamente i suoi affari avendo per così dire parcheggiato le sue intenzioni ai margini della sua mente.

Era Giulio invece che non poteva permettersi differimenti nella sua personale e delicatissima vicenda. Egli riteneva di conoscere fino in fondo il carattere di sua moglie. La considerava una donna dal temperamento intransigente, quasi autoritario, decisa a farsi rispettare, ma non immaginava che fosse capace di metterlo di fronte al fatto compiuto. Nella circostanza la sua azione avrebbe potuto costituire l'embrione di una crisi dagli sviluppi imprevedibili e forse addirittura priva di soluzione. Senza tener conto dei sentimenti, che in ogni evenienza giocano un loro ruolo imponderabile, la situazione che si era creata fra lui e Isabella a causa della sua impenitente condotta e per effetto della risoluta reazione di sua moglie lo impensieriva non poco. Analizzando globalmente la vicenda Giulio stentava a trovare valide giustificazioni che potessero perlomeno attenuare la sua colpa. Isabella per giunta si era mossa meglio di un detective, aveva intuito quasi subito la pista da seguire e, non se lo riusciva a spiegare neanche lui, era riuscita a conoscere notizie tanto particolareggiate da fargli pensare che qualcuno l' avesse a bella posta informata.

Molto più semplicemente Giulio avrebbe dovuto rifarsi alle proverbiali sentenze popolari che ammoniscono gli uomini con la loro intrinseca saggezza "il diavolo fa le pentole ma non i coperchi" oppure "tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino". Facendosi un esame di coscienza, egli doveva ammettere con sé stesso che non era la prima volta che la sua troppo disinibita inclinazione per l'altro sesso lo metteva nei guai. In passato, seppur con un occhio nero, era riuscito a districarsi dalla scomoda posizione in cui si era cacciato; adesso la situazione era terribilmente più seria. Come in una partita a scacchi, l'uno all'insaputa dell'altro, studiava la tattica migliore da porre in atto per far prevalere le proprie ragioni o quantomeno salvare la faccia. Isabella, fedele alla sua indole riservata, aveva nascosto ai genitori la vera causa del suo precipitoso ritorno alla casa paterna. Il clima equatoriale di Kampala, la tenera età della sua creatura costituivano un più che valido pretesto per celare agli occhi di tutti l'autentico motivo del suo distacco dal marito. L'apparente serenità non tradiva il suo effettivo stato d'animo. Ella si rendeva conto comunque che se nel giro di qualche giorno non avesse ricevuto comunicazioni da Giulio e lei stessa non avesse telefonato a suo marito, come accadeva durante la sua gestazione, sarebbero naturalmente emerse le prime perplessità. Per ironia della sorte proprio lei, parte lesa, per salvare le apparenze si trovava nella antipatica posizione di augurarsi di ricevere una telefonata da Giulio oppure vedersi costretta a far violenza al suo orgoglio e telefonare lei stessa a suo marito. In questo contesto Isabella capiva di essere in una posizione svantaggiata. Giulio, lontano da tutti, non doveva certo rendere conto a nessuno dei suoi rapporti con la propria moglie. Lei invece si trovava nella necessità o di confessare ai suoi le vere ragioni del suo ritorno, oppure di manifestare con il suo atteggiamento che i contatti con suo marito erano del tutto normali. Grazie alle lunghe assenze da casa dei genitori che amavano trascorrere molte ore sulla spiaggia di Fregene ella dichiarava che in quelle stesse ore aveva ricevuto chiamate telefoniche da Kampala o lei stessa aveva telefonato a Giulio approfittando delle occasioni in cui la sua Cecilia dormiva. Ovviamente questa strana situazione non poteva durare per molto tempo anche perché era prossimo il periodo dell'anno in cui è prassi usufruire delle ferie estive. Isabella pensava che se Giulio avesse voluto tirare ancora la corda avrebbe potuto comunicare ai propri genitori che aveva intenzione di usufruire delle sue vacanze senza rientrare in Italia, avendo deciso di recarsi con moglie e figlia in una spiaggia africana. Se invece egli avesse voluto in qualche modo ricomporre la frattura determinatasi, si sarebbe fatto vivo per fare il primo passo verso la riconciliazione. Giulio, da parte sua, strumentalizzando la drastica presa di posizione di sua moglie e cercando di rovesciare a suo favore le posizioni, lasciava trascorrere i giorni ritenendo che Isabella sarebbe stata costretta a venire a Canossa. Abituato a star solo, non scartava neanche l'ipotesi che, ove la situazione non si fosse risolta prima delle ferie, egli avrebbe potuto approfittarne e fare "vacanze separate" che gli avrebbero potuto offrire anche l'occasione per intrattenere piacevoli incontri... con l'altro sesso. In questi casi il confronto, all'inizio aspro ed apparentemente insanabile, con il passare del tempo si affievolisce ma è ovvio che uno dei due deve prendere l'iniziativa per riprendere a comunicare.

In questa situazione Isabella, consapevole di trovarsi in qualche difficoltà, decise di farsi avanti mortificando il proprio orgoglio che peraltro le suggeriva di non esporsi in prima persona. Decise quindi di intraprendere una via traversa telefonando all'Ambasciata in ore diverse da quelle dell'orario di ufficio per lasciare al centralinista un messaggio per suo marito e quindi sondare la sua disponibilità a richiamare. L'indomani Giulio capì che Isabella aveva in qualche modo rotto l'isolamento o che forse qualche serio motivo l'aveva indotta a prendere contatto con lui. Un'altra ragione non secondaria aveva fatto riflettere Giulio: la necessità di reperire in breve tempo delle disponibilità finanziarie. Il tenore della sua vita brillante, la sua smodata necessità di volere apparire in ogni circostanza, lo costringevano a sostenere delle spese del tutto superflue ma non indifferenti ed incompatibili con il suo stipendio di giovane diplomatico all'inizio della sua carriera. In quegli ultimi mesi, dopo aver dato fondo alle sue risorse personali ricevute dai suoi, aveva superato il fido concessogli dalla banca locale, che ora lo sollecitava a ricoprire in tempi brevi la esposizione debitoria. Anche sotto questo aspetto egli riteneva opportuno trovare un accomodamento con Isabella e cancellare ogni ipotetica velleità di godere di vacanze indipendenti. Rientrando in Italia egli avrebbe potuto chiedere altri fondi alla sua famiglia lasciando che l'ammontare dei suoi stipendi, che gli venivano accreditati presso la stessa banca in cui aveva accumulato il debito, lo riducessero progressivamente fino ad estinguerlo nel giro di qualche mese.

Sulla base di queste considerazioni venali e sapendo di aver fato un grave torto a sua moglie, telefonò a Isabella disposto a subire un'altra dura reprimenda nella speranza che in qualche modo si trovasse una via d'uscita alla situazione. Fin dalle prime battute Isabella prese il sopravvento rimproverandogli di non essersi più interessato di lei né, fatto ancor più grave, della loro Cecilia. Giulio tentava di difendersi cercando di giustificarsi e affermava di essersi sentito mortificato a seguito della sua drastica, repentina ed unilaterale decisione che di fatto lo aveva emarginato. "E' il meno che ti potessi aspettare" ripeteva con tono deciso Isabella "devo ancora riflettere sulle conclusioni a cui approdare a seguito del tuo inqualificabile comportamento. Fin da adesso ti confermo che a Kampala non ci metterò più piede, non voglio diventare lo zimbello di tutto l'ambiente diplomatico dell'Uganda" lo incalzava senza tregua. "Fatti trasferire in un'ambasciata distante mille miglia da lì, che sia un pò meno inospitale e dove siano in giro meno sgualdrine. Quest'ultimo particolare sarebbe del tutto superfluo se tu fossi appena appena corretto". Giulio non riusciva ad inserirsi. Egli voleva trovare una soluzione per l'immediato futuro, tenuto conto che il suo turno di ferie sarebbe cominciato entro quindici giorni. Con molta fatica riuscì ad estorcere a sua moglie l'intesa che durante le sue vacanze egli sarebbe tornato a Roma senza specificare se a casa dei suoi genitori a Frascati o presso i suoceri a Fregene. Il resto, tutto il resto, ossia in sostanza il loro avvenire, rimaneva sub judice. Chiusa la comunicazione, Giulio comprese che lo stato d'animo di sua moglie non era gran che mutato, aver convenuto di incontrarsi era già un passo avanti. A casa sua lui voleva, anzi doveva, comunque tornare per avere altri finanziamenti. Con la banca era riuscito a concordare infatti il rimborso rateale del suo debito, sacrificando i suoi stipendi a venire. Isabella, da parte sua, sentiva di trovarsi in qualche difficoltà. Arrivare alle estreme conseguenze equivaleva a far scoppiare uno scandalo; in quegli anni e nel suo ambiente era piuttosto sconveniente far emergere situazioni familiari poco edificanti, inoltre era sposata da poco, la piccola Cecilia doveva ancora compiere il primo anno di vita ed una rottura definitiva avrebbe potuto significare un vero e proprio salto nel buio. Se sul piano puramente morale ella aveva tutte le ragioni ed era stata effettivamente offesa nella sua dignità, sul piano pratico la sua posizione era molto meno gestibile. In sostanza anche in questa circostanza, l'imputato, di fatto, sfuggiva alla legittima punizione. Non le rimaneva che far cadere dall'alto, molto dall'alto, la riconciliazione, facendone pagare il prezzo non solo simbolico a suo marito. Inoltre Isabella, donna sicuramente non sprovveduta, intendeva lasciare una traccia dell'accaduto. Consapevole dell'incorreggibile debolezza di Giulio, voleva fargli teoricamente sottoscrivere una vincolante diffida a ripetere analoghe evasioni facendo intendere anche ai suoi familiari e a quelli di suo marito quanto era in effetti accaduto, senza peraltro denunciarlo esplicitamente. Tutto ciò equivaleva ad emettere nei confronti di Giulio una specie di condanna con i benefici della condizionale: se lui avesse provato ancora a fare il furbo, la rottura sarebbe stata inconciliabile e definitiva. Isabella cercava di tacitare il suo amor proprio ed il suo spirito di rivalsa convenendo con sé stessa che, anche per tutelare la figlioletta, nell'immediato doveva rinunciare alla giusta soddisfazione ma in avvenire i provvedimenti che intendeva adottare avrebbero constituito in ogni senso una valida salvaguardia.