Due vite parallele

 

L'ESSERE E L'APPARIRE

di Enrico Gilardoni

                                  

                                      

Capitolo XXIV

 

 

 

 

Come succede anche negli uffici più riservati, a lungo andare le notizie trapelano. Un accenno un giorno, un’allusione in un’altra occasione e poi, a cascata, più o meno tutti, tranne la persona interessata, diventano partecipi di un segreto che segreto non è più. Capita poi che, dagli atteggiamenti degli altri o da qualche riferimento indiretto, chi è il destinatario del provvedimento da tenere celato percepisca qualche sintomo che gli fa drizzare le orecchie. Accadde  proprio così anche quella volta e Giulio si sentì al centro di una impalpabile atmosfera che non riusciva a decifrare. La circostanza lo impensierì seriamente, temendo che tutto ciò discendesse dalla minacciata reazione di quel diplomatico la cui amica era stata oggetto delle sue pesanti attenzioni. “Le altre volte l’ho fatta franca”,  rimuginava fra sé, “non vorrei che proprio ora che sono single mi si ritorcesse contro l’atteggiamento tenuto nei confronti di una donna che, almeno apparentemente, manifestava di gradire il corteggiamento che le riservavo”. Giulio non immaginava di essere ostaggio della fortuna, ossia non sapeva che nella sua cartella personale c’era traccia anche delle sue precedenti evasioni sentimentali e della sentenza di divorzio pronunciata per sua colpa e che quindi, se la sorte non gli fosse stata contraria, quelle notizie sarebbero rimaste lettera morta. Sta  di fatto che dopo una quindicina di giorni l’ambasciatore lo convocò  per comunicargli che il Ministero aveva disposto il suo ritorno in Italia per “avvicendamento”. Giulio, che aveva già subodorato che si stava concretizzando qualcosa di poco favorevole nei suoi confronti, capì in pieno che il termine “avvicendamento” era una formula ambigua che nascondeva le vere ragioni del suo ritorno in patria. Di fatto, era un provvedimenti punitivo e, come tale, lo penalizzava. Provò a chiedere qualche spiegazione all’ambasciatore, che si sottrasse facilmente alle sue richieste sottolineando che il provvedimento era stato disposto dalla Direzione del personale del Ministero a Roma, che, ovviamente, “avrà avuto le sue buone ragioni”. Aggiunse poi, come se fosse una sua personale supposizione o una sua riflessione interiore,  che “l’immagine del diplomatico, proprio per il particolare ruolo che riveste, deve sempre essere limpida e pertanto il comportamento di ciascuno di noi deve essere irreprensibile sia in servizio che al di fuori dell’ambiente di lavoro”. Quest’ultimo commento gli fece cadere i residui dubbi che aveva in mente. Tradotte in chiaro, le parole dell’ambasciatore gli volevano far intendere che le sue imprese da dongiovanni gli avevano presentato il conto. Alla sua età  e a quel punto della carriera, un trasferimento con quelle motivazioni, supportate da comportamenti ritenuti lesivi del prestigio della diplomazia, equivaleva a una vera e propria stroncatura. Addio sogni di gloria, feluche e cerimoniali fra Capi di Stato, Ministri e personaggi eccellenti. In quel frangente Giulio si sentì distrutto e capì troppo tardi di aver tirato troppo la corda. Lo annientò il pensiero di dover far ritorno a Roma al Ministero, diventare un numero, una insignificante pedina di quello sconfinato stuolo di impiegati, funzionari, dirigenti che manipolano scartoffie e cercano di far funzionare una macchina non sempre efficiente. Sapeva bene, inoltre, che nell’ufficio in cui sarebbe stato inserito tutti, o quasi tutti, sarebbero venuti a conoscenza che il suo rientro era originato dal suo comportamento non consono alla funzione affidatagli, che “deve sempre e comunque tutelare l’immagine del Paese che rappresenta”.

 

Le sue ambizioni di carriera, poi, la sua presunzione di voler essere o considerarsi il primo della classe, naufragavano miseramente. Chissà come avrebbero commentato il trasferimento tanti colleghi che lo conoscevano personalmente e con i quali si era instaurata una sotterranea competizione? Questo aspetto,  fra gli altri, era quello che  più gli bruciava e lo indisponeva. Egli ben sapeva, infatti, che se un infortunio sul lavoro capita a un funzionario dal comportamento lineare costui di solito riceve  la solidarietà dei colleghi, quando invece la disavventura colpisce qualcuno che si è reso indisponente o che non raccoglie le simpatie dell’ambiente, il malcapitato, oltre a non avere solidarietà, è oggetto di salaci battute pronunciate alle sue spalle.

 

“Se il mondo mi è crollato addosso, sono io che non devo crollare”, concluse Giulio riflettendo a voce alta, “una volta al Ministero, vedrò il da farsi; non è escluso che possa trovare una strada per rilanciarmi”. Contando sulla sua capacità di condurre un approccio accattivante con i colleghi dell’ufficio con cui avrebbe dovuto convivere, Giulio pensava ad inserirsi con una certa facilità  nel nuovo ambiente di lavoro. Ottenuto il tacito gradimento, avrebbe cominciato a manovrare per richiamare l’attenzione dei Capi, rivendicando meriti ed iniziative spettanti ad altri. Contemporaneamente, avrebbe dovuto gestire  sapientemente il suo rapporto con le persone che contano per porsi nella giusta luce e trarre profitto nelle circostanze che avrebbero potuto presentarsi. Cercava di minimizzare la grave scoppola ricevuta e stava realizzando che, tornando a casa, avrebbe accusato la solitudine che improvvisamente gli si stava materializzando intorno.

 

Isabella, da quanto aveva saputo, si era rifatta una vita risposandosi con uno stimato professionista con il quale aveva concepito un altro figlio. La sua figliola Cecilia era ormai diventata una signorinetta diciottenne che lui incontrava fugacemente non più di una o due volte l’anno, anche a causa della sua lontananza dall’Italia. I suoi genitori erano morti entrambi. Con sua sorella i rapporti non erano dei migliori. Negli anni scorsi, al momento di dividere i beni ereditati, era sorta qualche incomprensione. In seguito, la pressoché totale alienazione del patrimonio familiare e la sentenza di divorzio avevano finito di convincere la donna che lui era effettivamente un marito poco raccomandabile, dedito alla bella vita e che sua cognata Isabella non aveva avuto torto a chiedere il divorzio.  Questo era il quadro che si stava prefigurando nella sua mente, una situazione nella quale non aveva mai lontanamente pensato di doversi inserire. A quel punto era del tutto inutile piangere sul latte versato anche perché egli sapeva bene che se si fosse ripresentata l’occasione propizia i suoi freni inibitori non avrebbero funzionato a dovere neppure dopo aver subito le amare conseguenze determinate dalla sua incorreggibile megalomania.

 

Nel giro di quindici giorni rientrò in patria e prese servizio in un ufficio del Ministero, il cui ambiente e le mansioni che gli furono affidate gli si palesarono grigie proprio come lui se le era immaginate. Fra gli altri problemi da affrontare c’era poi anche quello dell’abitazione. A Frascati possedeva ancora un paio di appartamenti che erano ovviamente affittati. A lui necessitavano, oltre l’alloggio, una serie di servizi o accessori indispensabili ad un single. Nel chiedere consiglio ad amici e colleghi, fu del tutto casualmente indirizzato a valutare l’opportunità di trovare una sistemazione logistica presso il “Residence “Tuscolano”, forse più vicino a Frascati che alla “Farnesina”, sede del Ministero degli Esteri, ma facilmente raggiungibile grazie alla ferrovia metropolitana, il cui capolinea era situato nei pressi della casa-albergo. Dopo aver fatto vari sondaggi ed i conseguenti raffronti ragguagliati ai costi da sostenere ed  ai servizi  offerti, Giulio optò per il “Residence Tuscolano”, inconsapevolmente influenzato dalla sua ubicazione vicina a Frascati e quindi alle sue radici. Giorno dopo giorno, nel prendere dimestichezza con i vari locali dell’edificio che l’ospitava e con il personale di servizio, Giulio riconobbe e fu a sua volta riconosciuto da Mauro, che, in qualità di aiuto-portiere, prestava la sua opera alle dipendenze della ditta che aveva preso la gestione del residence. Dopo i primi convenevoli e gli immancabili riferimenti ai tempi passati, Giulio chiese una o due marginali agevolazioni legate alla sua stabile presenza nella casa-albergo, dichiarandosi complessivamente soddisfatto del trattamento ricevuto. Nello scambiare qualche altra parola con Mauro apprese che tutto il complesso era gestito dalla “ditta Pacioni”, specializzata nell’attività alberghiera; la proprietà dell’immobile, dei giardini, delle attrezzature e di tutto il resto era invece, di una società che faceva capo a Renato Morelli. “Renato?”, esclamò Giulio, “alla faccia, ne ha fatta di strada! Se è proprietario o anche soltanto comproprietario di tutta ‘sta roba è multimiliardario. Ha cominciato come un impiegatuccio di un’agenzia di Assicurazioni ed ora possiede addirittura un albergo!”.  “E tante altre cose, aggiunse Mauro. “L’avevo capito già da parecchi anni che si era piazzato bene”, continuò Giulio; “una persona in gamba, molto in gamba. Questo glielo posso assicurare”, lo interruppe Mauro; “in confidenza, le confesso che mi ha aiutato più di una volta”. “Anche a me”, stava per rispondere istintivamente Giulio, che si guardò bene dal far trasparire anche un lontano indizio della sua effettiva attuale situazione economica, ormai del tutto imparagonabile con quella del suo compagno divenuto ricco e potente negli stessi anni in cui lui aveva percorso il tragitto contrario. “Mi farà piacere incontrarlo; qualche volta viene da queste parti?”

 

“Raramente si affaccia, è preso da molti impegni, rispose Mauro; “so che ora ha interessi anche lontano da Frascati”. “Se lo dovesse vedere, me lo saluti tanto”, si congedò Giulio. “Hai capito, Renato”,  tornava a rimuginare Giulio avviandosi verso il restaurant per consumare la cena. “Era un poveraccio, temeva di non trovare un posto di lavoro sicuro e dignitoso; è pur vero che sono passati venticinque/trent’anni, che avrà sempre lavorato tanto, ma ora è effettivamente un capitalista. Sono certo che è tutto vero; poi, il portiere è un frascatano verace che conosce vita morte e miracoli di tutti, non mentirebbe di certo. Io ho proprio fallito tutto…..”, concluse.

 

Mauro non aveva mentito e neanche esagerato nel riferire che Renato aveva esteso le sue attività fuori dal circondario. Infatti il signor De Rito di Campobasso, con il quale aveva avuto  parecchi anni prima rapporti d’affari, poi consensualmente interrotti negli anni della crisi, si era nuovamente fatto avanti per ottenere nuovi finanziamenti. Renato non aveva dimenticato la sua correttezza e quindi, messo al corrente dei progetti di ampliamento del pastificio per la cui realizzazione il De Rito chiedeva di essere finanziato, gli propose di entrare come partner nell’operazione acquistando una compartecipazione nella sua impresa alimentare. Per curare questo e altri interessi Renato era costretto ad allontanarsi di tanto in tanto da Frascati pernottando fuori casa. Benedetta non gradiva molto queste sue assenze, pur comprendendo che il suo uomo aveva raggiunto una posizione che gli imponeva di affrontare viaggi e trasferte, qualche volta non molto gradite anche a  lui che aveva un vero e proprio culto per il lavoro. Una sera, di ritorno da un viaggio, conversando dopo cena dei più disparati argomenti, Benedetta gli fece presente una particolare situazione di indigenza che riguardava una famiglia effettivamente sfortunata che ambedue conoscevano. Soggiunse che avrebbe voluto intervenire personalmente ma era esitante, temendo di ferire l’amor proprio di quelle persone. Chiedeva consiglio ed anche un aiuto finanziario per favorire chi stava passando un brutto momento. Renato convenne e firmò un assegno di importo più che triplo rispetto a quello richiesto, pregando però Benedetta di conservare l’anonimato. “Io ti ho chiesto una cifra molto minore”, gli rispose sua moglie nel ricevere l’assegno. “Va bene così, va bene così”,  replicò Renato; “cosa vuoi che sia, adesso sono abituato a vedere e maneggiare somme con tanti zeri. Questo è in proporzione niente in confronto a quanto facemmo tanti anni fa in un’altra occasione analoga, te lo ricordi, Benedetta?  Allora i nostri mezzi erano molto, molto diversi e quello fu effettivamente un sacrificio fatto in favore del prossimo. Quel gesto è stato beneaugurante per noi e mille volte ricompensato dalla Provvidenza. Far del bene quando se ne hanno i mezzi costa ben poco”. “Ti ringrazio molto, Renato. Con quest’assegno farò contenta più di una persona!”. “Fà quello che vuoi,  Benedetta; io però non voglio apparire in questo tuo apostolato!”.

 

In quegli anni, grazie ai finanziamenti dei cosiddetti “sponsor” la televisione era diventato il più diffuso veicolo informativo, sia a livello nazionale che in ambito locale. La combinazione di due diversi interessi, quello pubblicitario e quello proposto dallo spettacolo di intrattenimento sovvenzionato dallo sponsor,  costituivano un ottimo carburante per far marciare l’industria televisiva. Anche in questo campo Renato veniva molto spesso contattato dagli esponenti delle TV locali affinché partecipasse ad incontri, dibattiti, tavole rotonde ecc. La sua presenza, negli intenti dei promotori, avrebbe dato lustro alla trasmissione e fatto conoscere ad un vasto numero di ascoltatori un autentico esemplare di self-made-man. In un certo qual modo assediato, Renato, pur di sfuggire a pubbliche apparizioni totalmente contrarie alla sua indole, frapponeva resistenze ed impegni veri o presunti. Alla fine, per superare le insistenze, si vedeva costretto a sottoscrivere contratti per pubblicizzare le attività da lui partecipate. L’obbligo più assoluto, comunque, doveva essere quello di non far apparire il suo nome sui teleschermi. Così facendo, soltanto chi sapeva che dietro quelle Società e quei marchi commerciali c’erano  i suoi capitali, avrebbe potuto collegare al suo nome lo spettacolo a cui assisteva. Fu proprio in occasione di una visita presso la sede dell’emittente locale “Tele Frascati” per definire alcuni aspetti di un contratto pubblicitario che aveva sottoscritto, che incontrò Giulio. I convenevoli furono quelli rituali ma particolarmente esaltanti da parte di Giulio, che esordì con un “eccellentissimo Renato, sono felice di incontrarti. Sei sempre più bello ed importante, un VIP, come diciamo noi”. “Anch’io sono contento di incontrarti”, rispose Renato; “ti vedo in gran forma. In quale emisfero ti trovi adesso?”, soggiunse; “sei fra i bianchi, i neri, gli indiani o gli orientali?”. “Niente di tutto questo”, rispose Giulio lasciando trasparire solo per un attimo il suo disappunto; “ora sono in servizio alla “Farnesina”, qui a Roma. Anzi ti voglio annunciare, se non ti hanno ancora informato, che alloggio presso il tuo residence, sono quindi un tuo ospite”. “Spero che ti abbiano accolto bene”, lo interruppe Renato. “Sai”,  continuò Giulio, “dopo tanti anni di lavoro all’estero è previsto un periodo di ritorno in patria. Nella mia posizione mi è sembrato opportuno trovare una sistemazione che mi offrisse qualche comodità. Qui a Frascati non ho più nessuno, tranne mia sorella che ha una sua famiglia. La mia unione matrimoniale si è da tempo interrotta”. “Mi dispiace proprio”, rispose Renato; “la famiglia, al di là di inevitabili incomprensioni, amarezze e preoccupazioni, è sempre un sicuro punto di riferimento. Tu avevi avuto, ossia hai, una figliola, mi sembra? Sarà una signorina, ormai”. “Si, è vero, ma è come se non l’avessi. Vive con la madre e con il patrigno. Stando tanto lontano per anni e anni, tutti i legami, pure quelli di sangue, si affievoliscono. Ma non parliamo di questi crucci, è di te che voglio parlare. Sei diventato un big. Non ti schermire. Ho notizie di prima mano, di fonte sicura, da persona ben introdotta. Mauro, tanto per non fare nomi! Parla di te in toni entusiastici e ti è anche molto riconoscente. Da quello che ho potuto constatare con i miei occhi, non posso che sottoscrivere. Sei uno dei più noti imprenditori dei Castelli Romani, con interessi che si estendono dal campo immobiliare a quello finanziario ed industriale. Mi rallegro vivamente. Quel residence poi è veramente accogliente e funzionale, te lo assicuro come parte in causa”. “Almeno questo riconoscimento va fatto al gestore”, provò ad interferire Renato, anche per frenare quel diluvio di complimenti pronunciati con toni magniloquenti. “Se io in questi ultimi cinque o sei anni, a proposito a quando risale il nostro ultimo incontro? ho fatto qualche passo in avanti, chissà tu dove sarai arrivato! La carriera nella diplomazia riserva posizioni veramente gratificanti”.

 

“Sì anch’io ho percorso un buon tratto di strada. Come in ogni organizzazione piramidale, più ci si approssima al vertice, più si assottigliano le posizioni di maggior prestigio, che sono poi quelle che danno lustro e rinomanza a chi le occupa. E’ quindi molto più incisiva la selezione. Ultimato l’attuale periodo di permanenza al Ministero, ritengo di poter tornare fra i candidati a salire ed occupare posizioni più rappresentative.” “Bravo, bravo, sono certo che riuscirai, ne hai i numeri”, rispose Renato. “Senti”, riprese Giulio, “ora che sono tornato a casa vediamoci, incontriamoci, dobbiamo riprendere i contatti che abbiamo interrotto da tanti anni, ne abbiamo di cose da raccontarci!”. “Con piacere, volentieri. Tra l’altro devo venire lì al residence, per definire alcune cose con il gestore”, rispose Renato, “sarebbe l’occasione buona per conciliare i due impegni”. “Bene, buona idea, se mi fai avvisare ci sarò. A cena, di solito, sono lì. Sarai mio ospite”, aggiunse Giulio. “Questo poi…”, ribattè Renato sorridendo, “sarebbe il colmo che a casa  mia fossi tu a offrirmi la cena!”. Si salutarono lasciandosi con questo reciproco impegno da realizzare in tempi brevi.  A margine dell’incontro, Renato non potè fare a meno di constatare come l’atteggiamento di Giulio fosse mutato. A prescindere dalla pioggia dei complimenti che andavano molto al di là di quelli che, per vezzo o distorsione professionale, era abitudine indirizzare al proprio interlocutore, Giulio aveva dismesso quell’ostentazione che era parte integrante del suo modo di fare. Forse, influenzato  da quelle informazioni che aveva appreso mesi prima durante la cena con gli amici, ricollegò i due fatti traendone la conclusione che il suo trasferimento a  Roma fosse diretta conseguenza di quell’avvenimento a lui noto e che, quindi,  questa o altre vicende lo avessero finalmente ricondotto ad assumere un atteggiamento meno altezzoso.