Due vite parallele
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L'ESSERE E
L'APPARIRE
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di Enrico
Gilardoni
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Capitolo XXII
La promozione ottenuta, l’affidamento di
incarichi di maggior prestigio, il trasferimento ad Ottawa, il diverso clima,
non soltanto meteorologico, trovato in Canada fecero riaffiorare in Giulio la
sua ben nota ed autentica natura. In breve riuscì a dimenticare, o
perlomeno emarginare, le amare vicende familiari che lo avevano coinvolto.
Grazie alla sua estrema facilità nell’ambientarsi, si inserì con la consueta
disinvoltura nell’entourage delle persone e delle circostanze che gravitano
attorno alle Sedi diplomatiche presenti in ogni Capitale. Egli si sentiva come
un pesce nella sua acqua nel recitare la parte del protagonista nei salotti,
durante i meeting, i pranzi e le cene a cui partecipava. Col suo comportamento
estroverso non faticò molto a far cadere su di sé l’attenzione del gentil
sesso. Giulio si rese conto di poter scegliere addirittura fra le sue prede
quella che più lo interessava. Forte del suo stato di single decise di
sfarfalleggiare fra diverse gonnelle, tenendo il piede in più staffe con
spregiudicata abilità.
Proprio al contrario, Isabella conduceva la
sua nuova vita matrimoniale con grande scrupolo per non turbare il sano
equilibrio che sorreggeva l’unione con il suo compagno. Ella, molto severa con
sé stessa e memore di quanto le era accaduto, temeva di non avere tutte le doti
per essere considerata una buona moglie. A ciò si aggiungeva la preoccupazione
di consolidare il rapporto fra la sua bambina ed il nuovo “papà”. Era ovvio che
il suo legittimo desiderio fosse quello di ufficializzare la sua unione con il
dottor Piombi; in quella veste di convivente di un uomo anche lui divorziato non
si sentiva a suo agio, sebbene tutto filasse nel migliore dei modi.
Inconsapevolmente, a distanza di migliaia di chilometri, i comportamenti tenuti
dai due ex coniugi li rendevano interpreti di ruoli totalmente divergenti,
rispecchiando in pieno le loro diversità interiori.
Sotto questo profilo anche Renato non aveva
derogato dalla propria indole. Egli aveva ampliato le sue attività pure nel
campo immobiliare trasformandosi in un vero e proprio businessman. La liquidità
di cui poteva disporre, direttamente o
tramite importanti aperture di credito, gli consentiva di concludere veri e
propri affari nel significato più ampio del termine. Essendo diventato
l’incontrastato leader nel suo ambiente, una sua parola, un suo anche
superficiale interessamento dedicato ad una qualsiasi transazione commerciale
di rilievo trattata nella sua zona d’influenza, riusciva a condizionare in un
senso o in un altro l’entità del prezzo se non addirittura la conclusione della
compravendita. Non era infrequente il caso che imprenditori grandi o piccoli in
difficoltà si rivolgessero a lui per avere un consiglio o chiedere un suo
intervento nei confronti di qualche istituto di credito non molto ben disposto
a dar loro fiducia. Capitava anche che qualchedun’altro si consegnasse armi e bagagli
nelle mani di Renato e lo pregasse di salvare il salvabile, considerandolo
l’ultima ancora di salvezza. Proprio nello svolgere questa attività gli era
capitata, come negli anni della crisi economica, più di una buona occasione. La
sua dirittura morale gli imponeva di non strangolare chi era in difficoltà,
come spesso facevano i cosiddetti
“cravattari”. Alcune volte segnalava la buona opportunità a qualche
imprenditore amico, qualche altra volta si trasformava in puro e semplice
intermediario. In altre circostanze, infine, faceva suo l’affare, intravedendo
possibili sviluppi nell’attività che andava ad acquisire. Seguendo il fiuto che
lo contraddistingueva, qualche tempo prima si sentì invogliato ad intervenire
nell’acquisto di un immobile costruito, alla periferia di Roma, piuttosto vicino al capolinea sud della
Metropolitana. L’impresa costruttrice era in grosse difficoltà finanziarie e
pur di disincagliarsi ed evitare danni peggiori, decise di cedere quasi al
prezzo di costo un fabbricato pressoché ultimato. La destinazione urbanistica
dello stabile era quella di casa-albergo. In quest’ottica Renato ritenne di poter sfruttare al meglio
l’investimento che si accingeva ad eseguire. Il capitale necessario era molto
ingente, a questo si dovevano aggiungere le venti rate del piano di
finanziamento sottoscritto dall’impresa costruttrice e a lui trasferito, che
sarebbero venute a scadere nei dieci anni successivi. Come se non bastasse,
Renato si doveva accollare l’onere di ammobiliare, rendere funzionale e
confortevole l’intero complesso,
formato da cinquanta mini-appartamenti, da una grande sala da pranzo e da due
vasti salotti dove i residenti avrebbero potuto ricevere i loro eventuali
ospiti. Inoltre, ai locali riservati ai clienti, si dovevano aggiungere quelli
adibiti ai servizi e quelli riservati al personale dipendente. Il tutto avrebbe
dovuto essere gestito da persone del mestiere, capaci di ricavare un margine di
guadagno dopo aver riconosciuto al proprietario, ossia a Renato, il canone di
affitto convenuto. La carta vincente era rappresentata dalla constatazione che
in una città come Roma trovare una casa sfitta era pressoché impossibile; chi
riusciva a rintracciarne una era letteralmente spennato dal proprietario.
Considerato che su Roma gravitano molteplici attività e sono moltissimi i
dirigenti ed i funzionari costretti a trasferirvisi per motivi di lavoro senza
volere o poter lasciare la loro residenza abituale, Renato stimò che la
richiesta del mercato sarebbe stata abbondante. La possibilità di utilizzare il
Métro per raggiungere od avvicinarsi al posto di lavoro in tempi relativamente
brevi avrebbe costituito un ulteriore incentivo a scegliere quell’alloggio ai
cui ospiti venivano forniti alcuni optionals accessori molto graditi da persone
di quel livello. Ovviamente il canone di affitto sarebbe stato direttamente
proporzionale al servizio prestato e alla domanda che, per le ragioni
descritte, avrebbe dovuto essere consistente. Complessivamente il capitale che
Renato dovette approntare superò i cinque miliardi. A questa somma si dovevano
aggiungere le scadenze differite nel tempo, ciascuna delle quali era di importo
pari a circa duecento milioni. Questo vorticoso giro di danaro non era che una
parte delle ormai molteplici attività che Renato aveva via via intrapreso e che
riusciva a gestire tramite una struttura burocratica diventata progressivamente
molto più ampia di quella originaria. Egli aveva nominato alcuni suoi
collaboratori responsabili di ciascun settore, rendendoli partecipi agli utili
che l’intera azienda realizzava. Lui si era riservato la sovraintendenza di
tutto il complesso ed ovviamente trattava direttamente gli affari di maggior
valore. Ciononostante, grazie alla fama che si era guadagnato, non mancava
giorno che imprenditori, commercianti, uomini d’affari richiedessero di avere
un colloquio con lui. Quasi fosse un rito, all’ora del caffè nel bar
prospiciente il suo ufficio, Renato veniva avvicinato anche da sconosciuti per
sentire dalla sua viva voce un commento sulla situazione. “E’ diventato il
guru, l’oracolo della zona”, scherzavano i suoi collaboratori; “un giorno o
l’altro sarà capace di far piovere o far splendere il sole!”
Consapevole del ruolo che con il passare del
tempo gli era stato di fatto attribuito, egli si schermiva e minimizzava la
lungimiranza dei pareri che gli venivano richiesti. “Non sono il Papa che dà
udienza, sono un self-made man che, sulla sua pelle, ha accumulato una certa
esperienza, che, se richiesto, tento di trasmettere ad altri nel loro esclusivo
interesse”. Quanto a me, per ora mi è complessivamente andata bene, oltre le
più rosee previsioni. E’ tutto merito mio? Non ne sono convinto. La sorte in
ogni circostanza partecipa, spesso all’insaputa di tutti, e può determinare il successo o la sconfitta schiacciando
ogni buona intenzione”. In altri momenti, qualche volta si voltava indietro e
meditava a voce alta. Benedetta ne approfittava per dare una sua personale
interpretazione alle vicende che aveva in qualche misura vissuto anche lei
attraverso suo marito. Si era messa in pensione anticipatamente. Senza impegni
di lavoro, si godeva la sua posizione di moglie di un agiato uomo d’affari; il
suo stile di vita non era comunque mutato: era rimasta semplice e riservata.
Grazie alla posizione raggiunta da suo marito, si permetteva alcune
soddisfazioni che la gratificavano. “Pensa se al tuo posto ci fosse quel tuo
vecchio amico, quello che è in diplomazia!”.
“Chi, Giulio?”, le rispose Renato. “Già, proprio lui: con la sua
prosopopea e la sua megalomania si sentirebbe il padrone della città”. “Mah,
chissà dove sarà ora. Non vedo più neanche sua madre: sarà morta anche lei. Ho
saputo che ha venduto, anzi svenduto, quasi tutte le sue proprietà e ne aveva
parecchie fra quelle lasciategli dal padre e dal nonno. Peccato, era riuscito a
entrare nel corpo diplomatico: un’ambiziosa carriera da percorrere e invece, da
quello che risulta, .... donne e champagne, in una parola. Beh! lasciamo che
ognuno abbia quello che si merita. Io vado in ufficio, Benedetta”, concluse Renato. “Ah! già, oggi sei in
ritardo, non vorrei che il principale ti affibbiasse una multa”, rispose
ironica sua moglie. Dopo tanti anni di più o meno affettuosi rimbrotti, Renato
sorrideva e lasciava correre. La posizione raggiunta e la solidità della sua
azienda gli avevano fatto acquisire una serenità tale per cui non erano certo
le battute di sua moglie o gli immancabili imprevisti ad infastidirlo.
Certe volte si sorprendeva ad osservare come
tanti altri imprenditori che un tempo andavano per la maggiore, ora fossero
declassati, altri si trovavano invece sempre costretti a barcamenarsi per non
soccombere. Si potevano contare sulle dita di una mano le imprese che erano
nate e si erano affermate nel giro degli ultimi venti-trenta anni. Molte,
senz’altro troppe, si erano affacciate sul mercato e in breve si erano
dissolte; altre, sorte con grandi ambizioni, erano state presto ridimensionate
e, al di là delle apparenze esteriori, restavano gracili organismi esposti alle
insidie sempre presenti nel mondo degli affari. Quanto a lui, nonostante non
dimenticasse i sacrifici, le preoccupazioni e l’impegno profuso in tanti anni,
si considerava in ultima analisi un fortunato. La soddisfazione che ora
assaporava non discendeva tanto dall’essersi così brillantemente affermato,
quanto dall’essere riuscito a conquistarsi quell’ambita posizione senza
scendere a compromessi con la propria coscienza. Immerso in queste sue
riflessioni, sentì bussare rumorosamente alla porta del suo ufficio. Era Mauro,
il figlio del signor Pisani, suo primo datore di lavoro, che, proprio per la
dimestichezza che un tempo aveva con lui, si arrogava il diritto di scavalcare
la sua segretaria. “Buonasera, Renà; ti so’ venuto a trovare, sei contento?”
“Si, mi fa piacere; che mi devi dire d’altro?”, lo precedette Renato ben conoscendo che tipo fosse.... “E’ che mi
trovo un’altra volta in mezzo agli impicci. Il negozio non va più come qualche anno fa e le scadenze non ti danno
tregua. L’impegno lavorativo è pesante e quindi, a conti fatti, il gioco non
vale la candela....”. “Insomma”, lo
interruppe Renato, “vuoi cambiare mestiere?” “Beh... quasi quasi, se mi
capitasse qualche buona occasione...”. “Senti un po', Mauro, ti piacerebbe fare
il portiere di una casa-albergo?”. Renato, con quella capacità di sintesi che
lo contraddistingueva, aveva già realizzato il quadro della situazione.
Per diretta esperienza e per averlo più
volte tratto d’impaccio, sapeva che Mauro Pisani non possedeva nemmeno in parte
quei requisiti di grinta, intraprendenza, dedizione al lavoro, che sono
l’indispensabile patrimonio di chi vuole svolgere una propria attività.
Nonostante l’entità dei beni ereditati ed il buon reddito che un negozio di
generi alimentari può produrre, se ben gestito, Mauro era di nuovo in
difficoltà. L’unica cosa da fare era pertanto quella di trasformare il piccolo
imprenditore in lavoratore dipendente e Renato, in quel momento, era in grado
di aiutarlo direttamente.
“Se sei d’accordo, ho la soluzione giusta
per te. Ti faccio venire a lavorare con me in una nuova iniziativa che sto per
intraprendere. Se ti sta bene, smetterai con il commercio e con le conseguenti
preoccupazioni. A fine mese avrai la busta paga, ma, a mio parere, avrai fatto
un passo indietro. Contento te, contenti tutti, come si dice.” “Si, si, so’
d’accordo, Renà, te lo giuro: non ne posso più. Bisognerebbe pure sistemà le
pendenze coi creditori. Poi, una volta venduto il negozio, vedremo quello che
ci resta”. “Ho capito”, lo interruppe Renato,
“prenderò di nuovo in mano io la situazione come già feci tanti anni
fa!!. Chiamò la segretaria per fissare un appuntamento al quale avrebbe dovuto
partecipare anche il ragionier Vinci, che già la volta scorsa aveva seguito la
pratica. Per stringere i tempi, Renato invitò il suo collaboratore a fare una
prima ricognizione e a predisporre una bozza del piano di liquidazione che
avrebbe dovuto approdare alla vendita dell’esercizio commerciale e della merce
immagazzinata. Si salutarono. Mauro ringraziò ancora Renato, che non poté fare
a meno di biasimare in cuor suo l’ignavia di quell’uomo. “Sembra quasi la
brutta copia di Giulio”, esclamò a voce alta. “Lo stile è completamente
diverso. Il risultato, però, è lo stesso”.
La giornata lavorativa riprese con i ritmi di sempre ed altri impegni cancellarono dalla mente di
Renato le amare constatazioni formulate. Tornato a casa, raccontò a Benedetta
l’incontro avuto con Mauro. “A distanza di oltre venticinque anni si sono
sovvertite le parti: da dipendente della ditta Pisani sono diventato datore di
lavoro di quello che all’epoca poteva essere considerato il mio principale”.
“Già”, gli rispose sua moglie, “pure questo Mauro sembra uno sciagurato come il
famoso diplomatico. Il primo è uno sfaticato scialacquatore ruspante, il
secondo è un sofisticato megalomane. Si potrebbe applicare la proprietà
permutativa che insegnavo agli scolari: invertendo l’ordine dei fattori il
prodotto non cambia”.
Le riflessioni dei coniugi Morelli collimavano perfettamente!