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Tommaso d'Aquino: bozza d'una biografia non autorizzata

«Questo è il senso dell'autorità riconosciuta ad Aristotele da Alberto Magno. Oggi noi diciamo che il pensiero del Medioevo, sottoponendosi a quello del filosofo greco si asserviva; bisogna dire, invece, che si liberava. Ammettere che questo pagano era l'autorità suprema in certi campi, pur escludendolo esplicitamente da altri, significava togliere alla rivelazione, nel caso che avesse voluto rivendicarla per sé, l'autorità concessa al filosofo.»
(Etienne Gilson - La filosofia nel Medioevo)


La nostra ricostruzione si apre (e si concluderà) con la testimonianza del segretario (socius) posto a disposizione di Tommaso d'Aquino dall'Ordine dei predicatori, ben prima che le energie cominciassero a scemare. Reginaldo da Piperno, questo il nome del socius, la rese a Bartolomeo da Capua. Sul finire del 1273 Reginaldo incitò Tommaso a scrivere ancora. Quello rispose: «Reynaldo, non possum, quia omnia quae scripsi videntur michi palee.» Le mie opere sembrano paglia. Sofia Vanni Rovighi commentò: «Anche per chi voglia attribuire una parte di questa testimonianza al senso medievale del miracoloso resta, con un sigillo di autenticità. il senso della pochezza e quasi della vanità della propria opera che un uomo profondamente religioso, come era certo Tommaso d'Aquino, doveva provare di fronte al mistero della morte e della speranza di un incontro con Dio.» (1) Questa autodichiarazione di fallimento rese e rende una vera giustizia a Tommaso, forse più che il cumulo impressionante dei suoi scritti. Rispetto al commento di Vanni Rovighi, si potrebbe aggiungere che oltre al senso della morte, è legittimo pensare a ciò che Tommaso rammentava assai bene: come giudicate sarete giudicati. Ed è nell'imminenza del trapasso che l'ombra del timore del giudizio divino comincia a prendere forma e sostanza nell'intimo della coscienza. Bisognerebbe essere ottimisti su ciò che aspetta tutti i mortali nell'al di là. Come lo fu Anselmo d'Aosta. Potrebbe esser vero che ci attende il migliore, il più grande, il più giusto, il più misericordioso? In alternativa all'ottimismo, non ci possono stare mezze misure; c'è il nulla. Ci si spegne come si spengono le macchine. Si diventa materia da rottamare, o bene che vada oggidì, da riciclare con trapianti d'organo. Il pensatore razionale non può non essere passato per questa fase, ed è legittimo supporre che vi sia transitato anche Tommaso d'Aquino, terminando come pessimista circa il valore della propria opera, ma ottimista sull'esistenza dell'al di là, sulla sopravvivenza dell'essenza, nonostante lo spegnimento dell'ente composto di materia e di spirito intellettivo. La ragione naturale può arrivare fin qui nel supporre una soluzione ottimistica al problema, o forse all'incubo, dell'eternità dell'essenza umana individuale. Si è chiamata fede ciò che in realtà è una speranza che può nascere in tutti gli esseri umani. La fede, se rettamente intesa come fedeltà alla parola di Dio, potrebbe e dovrebbe ridurre i confini della speranza indifferenziata ed illusoria. Non tutti vanno in paradiso, come Dante Alighieri tenterà di raccontare in versi volgari. Ma sulle "convergenze" tra la teologia di Tommaso e quella di Dante non conviene investire grandi attese. Il grammatico "pedante" nemico giurato di Giordano Bruno potrebbe scovare un oceano di anomalie e asimmetrie. Il nome di Bruno non è fuori luogo. Si dichiarò ammiratore dell'aquinate e lo affermò come "grande mago". Dichiarazioni che andrebbero prese con molta cautela e che, tuttavia, rischiano di riaprire un supplemento d'indagine ogni qualvolta se ne trova traccia. Si tenga anche conto che quando venne il momento di beatificare Tommaso, fu impossibile trovare testimonianze di guarigioni miracolose. Aveva letto i trattati di Avicenna, probabilmente anche i più vicini a quelle che oggi si potrebbe chiamare capacità telepatica di suggestionare, ma non li aveva condivisi. A dispetto del fantasioso e farraginoso Bruno, qui si è preferito seguire un'altra pista. La faccia nascosta di Tommaso, quella che non trapela distintamente dai suoi scritti, non è quella del mago, ma quella dell'uomo sconcertato dalle vicende "politiche" della Chiesa temporale, stato fra gli stati, con un suo esercito, con i suoi spesso malaccorti strateghi ed una vastissima collezione di scheletri nell'armadio. Negli ultimi anni trascorsi a Napoli, nello studium generale dell'Ordine dei predicatori, egli era finito nel dominio dell'uomo che si era fatto beffe dei Papi e dei cardinali: l'astuto Carlo d'Angiò. E' impossibile credere che le notizie che giungevano quotidianamente dal "mondo là fuori" non abbiano contribuito al maturare di quella autodichiarazione di fallimento.

Domenicano non per accidente, uomo di pensiero e non d'azione
Tommaso nacque in un anno rimasto imprecisato, probabilmente il 1225, a Roccasecca. Era l'ultimo nato dei numerosi rampolli d'una famiglia aristocratica, appartenente alla media nobiltà feudale. Venne avviato dai genitori ad una carriera ecclesiastica: alla sola età di cinque anni entrò nel monastero di Montecassino dove ricevette i primi rudimenti del trivium e del quadrivium. Saggia decisione fu quella del padre di Tommaso di inviare successivamente il figlio a studiare all'università di Napoli, data l'insicurezza nella quale si svolgeva la vita nell'abazia, occupata militarmente dalle truppe di Federico II. Fu a Napoli che Tommaso ebbe chiaro che il suo futuro non sarebbe stato quello del monaco benedettino. Entrò in contatto con insegnanti come Martinus di Dacia, docente in "grammaticalibus et logicalibus", e Pietro d'Irlanda, docente in "naturalibus", mentre rimaneva impressionato dal modo di vivere e di insegnare dei domenicani, l'ordine religioso istituito da Domenico di Guzman, celebrato soprattutto per aver predicato in mezzo agli "eretici" càtari senza timore e senza ricorrere a violenze ed inquisizioni, seppur imbelle spettatore di violenze. Per un temperamento come quello del giovane Tommaso, l'esempio di Domenico costituì un richiamo assai forte. Non c'è bisogno di sfrondare la sua figura dagli elementi apologetici degli autori che scrissero di lui. Già si presentava, da sé, come uomo di fede e di cultura, ed anche di ordine e di regole. Contrariamente a Francesco, predicatore di umiltà e di diffidenza nei confronti della boria dei sapienti, Domenico affermava la necessità del sapere e l'umiltà di diffonderlo con spirito di servizio. Erano (sono) due vie inconciliabili? A lume di naso, la proposta domenicana appariva la più indicata, non solo per la banalità - mai sufficientemente ripetuta - che sapere è potere, ma perché il sapere consente di predicare con maggiore autorità ed efficacia. Il sapere è la conditio sine qua non si arriva a centrare alcun obiettivo. Un individuo ignorante è utile al mondo come oggetto di osservazione antropologica e psicologica per chi sa. Il francescano Ruggero Bacone ricorderà che i dotti troppo spesso disprezzano scioccamante i saperi degli ignoranti, ma anche Bacone era un dotto.
Il punto debole delle convinzioni di Domenico potrebbe essere individuato nella finalizzazione dello studio. Non si studia per amore del sapere in sé, ma per il dovere di sostenere la dottrina cattolica ed il magistero della Chiesa. Se sia corretto farne una causa finale in senso schiettamente aristotelico è ancora da discutere. Per lo stagirita l'acquisizione del sapere aveva diverse finalità - ad esempio, il dotarsi di argomenti per non recitare la parte dello sprovveduto nelle discussioni come nei Topici - diventando poi piacere in sé, amore per lo studio e la contemplazione come nella Metafisica.. Per Domenico, lo studio era finalizzato al potenziamento della predicazione, ad abbattere la non verità delle dottrine eterodosse. Indubbiamente, Tommaso fu colpito da questa impostazione, ma incominciò a considerare anche quelle date da Aristotele perché la ritrovava in se stesso.
Domenico era già stato santificato, nel 1234, con azione molto tempestiva. Purtroppo, ad essa si era accompagnato l'affidamento all'ordine dei predicatori di compiti d'inquisizione. Undici anni dopo toccò ai francescani ricevere il mandato ed essi lo accettarono. Non risulta che Tommaso si sia mai prestato a simile funzione. Tuttavia, nella Summa theologiae egli arrivò a scrivere che gli eretici devono essere separati dalla Chiesa mediante la scomunica, ed esclusi dal mondo con la morte. (Summa Th, IIª-IIae q. 11 a. 3 s. c.) Il passo incriminato è nello specchietto qui a fianco.
Nonostante questo passaggio feroce, sono ancor molti ad essere convinti che al giro di vite egli abbia opposto l'unica arma difensiva di cui poteva disporre, scegliendo di lavorare all'allargamento dei diritti della ragione, pur rimanendo sotto l'ombrello protettivo della "fede". Per stabilire se egli sia riuscito a trasformare anche la "fede", bisognerebbe accordarsi su che potrebbe significare "fede" sotto il profilo dell'eternità e della continuità del concetto. Cosa che abbiamo cercato di evidenziare in sede introduttiva. Con Tommaso, non si va oltre l'orizzonte del magistero ecclesiastico e dell'interpretazione della rivelazione contenuta nella Bibbia da parte di alcuni esegeti privilegiati da Tommaso stesso. Ma lo sforzo di ricucire la rivelazione alla ragione naturale ed al "buon senso" comune è certamente l'apporto più caratteristico del suo instancabile lavoro. Coloro che lo hanno criticato, generalmente hanno puntato il dito contro l'eccessiva moderazione del suo pensiero, quell'aristotelica ricerca del "giusto mezzo" che in definitiva ha rimosso la componente apocalittica del cogito cristiano, ben altrimenti presente in Agostino: l'eterno conflitto tra la "città dell'uomo", il com'è, e la "città di Dio", il come dovrebbe essere. Ma è certamente frutto di un abbaglio considerare il pensiero dei francescani come originario ancoraggio all'eredità agostiniana. Francesco non lesse Agostino, non lo conobbe, non lo meditò. Furono alcuni francescani a riscoprirlo, per quell'istinto innato che spinge gli individui a risalire alle origini, a scoperchiare i pozzi di antiche saggezze.
Tra l'itinerario scelto da Tommaso e le spinte profonde presenti nella società "cristiana" è più agevole rinvenire una specie di alter ego in Raimondo Lullo, nato una decina d'anni dopo Tommaso e di carattere assai diverso. Vero uomo d'azione, fu studioso di logica e di mnemotecnica, coltivò conoscenza e ragione, ma si distinse per l'irruenza e la determinazione tipica dei primi predicatori cristiani. S'era proposto di convertire i tartari. Il suo modello fu sicuramente Paolo, ed è strano che il più "domenicano" tra tutti gli autori noti di questo periodo, abbia preferito agire a lungo da isolato anziché assoggettarsi all'ordine dei predicatori. Finì ugualmente col consegnarsi ad un ordine, ma scelse quello dei terziari francescani.

Prima sequestrato dai fratelli, poi allievo di Alberto Magno, infine subito baccalaureus biblicus a Parigi
Negli anni trascorsi a Napoli, è quasi certo che Tommaso ebbe la possibilità di leggere e meditare le opere di Aristotele tradotte dall'arabo da Michele Scoto. Tra queste, il De coelo, il De anima e dieci libri della Metafisica. Soprattutto gli ultimi due sono ancor oggi testi che possono impressionare la sensibilità degli adolescenti, ma ai tempi di Tommaso, anche il De coelo era molto promettente. Dopo quattro anni di studi, Tommaso cercò di raggiungere Parigi al seguito di Giovanni il Teutonico, maestro dei domenicani, ma i suoi fratelli, guidati da Rinaldo d'Aquino, gli sbarrarono il passo e lo riportarono a Roccasecca. La famiglia - ma il padre era morto - non riusciva a digerire la scelta di Tommaso ed esercitò varie forme di pressioni fisiche e psicologiche per farlo recedere. Solo quattro anni dopo riuscì a riconquistare la libertà e partire per Parigi. O, forse, direttamente per Colonia, dove insegnava Alberto Magno. E' certo che soggiornò a Colonia dal 1248 al 1252. Fu in questo periodo, sotto la guida del maestro Alberto dei conti di Bõllstadt, che Tommaso maturò pienamente. Non si deve cadere nell'errore della clonazione nemmeno nei confronti di Alberto Magno. Questi fu temperamento assai più estroverso e coraggioso, davvero un apripista, un maestro con doti da tribuno. Probabilmente, un po' approssimativo. Gilson riporta una sua affermazione, che vorrebbe presentarsi come un esempio di razionalità, e che invece solleva più di un dubbio: «Quando essi sono in disaccordo, bisogna credere ad Agostino piuttosto che ai filosofi in ciò che concerne la fede e i costumi. Ma se si trattasse di medicina io prenderei piuttosto Ippocrate o Galeno; e se si tratta di fisica io credo ad Aristotele perché egli conosceva la natura nel modo migliore.» (2) O Ippocrate o Galeno? E sulla fisica di Aristotele già circolavano dubbi non strettamente teologici, provenienti dagli scritti di Giovanni Filopono allora disponibili. Lo stesso Tommaso, come si vedrà in articoli d'approfondimento, preferirà seguire la spiegazione formulata da Avicembron e divulgata da Averroè circa il movimento locale dei corpi. Comunque sia, quello di Alberto era autentico entusiasmo per la filosofia, considerata via regia per giungere ad una razionale suddivisione ed organizzazione dei saperi. Era una nuova epistemologia, un rinnovato tentativo per tornare a soggiogare la terra, com'era scritto in Genesi. Questi insegnamenti, secondo Gilson, incontravano resistenze nello stesso ordine domenicano, e quindi anche a Colonia. Lo storico può lavorare d'immaginazione, ma non può permettersi di esagerare, come fanno gli scrittori di best sellers. E' lecito immaginare animate discussioni, ma non inventarsele di sana pianta. Tommaso generalmente taceva ed i confratelli lo soprannominarono il "bue muto". Ma quando parlava, arrivava al nocciolo delle questioni con raro acume.
Alberto ebbe modo di apprezzare le qualità di Tommaso e lo scelse tra un certo numero di allievi per quello che si direbbe oggi un posto da assistente. E lo inviò a Parigi in risposta alla richiesta ricevuta dai domenicani locali. Qui, sotto la tutela del magister, frate Elia di Provenza, Tommaso lesse e commentò pagine della Bibbia, per poi passare nei due anni successivi a spiegare le sentenze di Pier Lombardo in qualità di baccalaureus sententiarius. Finalmente, nel 1256, ebbe la possibilità di diventare magister.
Tommaso si era accorto subito delle tensioni che attraversavano il mondo universitario parigino. In pratica, come sottolinea Anthony Kenny, si era trovato ad esordire come insegnante in veste di "crumiro". (3) Nel 1252, infatti, era in corso una protesta dei maestri delle arti che lo investiva direttamente. Non volevano riconoscergli il diritto di insegnare in quanto designato da un ordine religioso.

I maestri delle arti in sciopero, la disputa sul diritto alla cattedra e l'eccesso di dispute
Si potrebbe parlare di protesta sindacale, o più propriamente, di protesta corporativa, ma la sostanza non cambia: i maestri secolari delle arti, tra cui anche numerosi sacerdoti, non riuscivano a sopportare che a francescani e domenicani fossero garantite delle cattedre "a prescindere" dai meriti accademici. Il problema era particolarmente spinoso perché non era chiaro, oggettivamente, quale fosse l'autorità a cui rivolgere la protesta. Ricorrere al papa, come in effetti accadde, avrebbe potuto significare la rinuncia a quella autonomia a cui alcuni maestri tenevano maggiormente. D'altra parte, c'è da considerare che le lezioni dei domenicani e dei francescani si tenevano in sedi separate. L'aula di Tommaso era collocata all'interno del convento dei domenicani in rue St Jacques. Tuttavia, come sottolinea Sofia Vanni Rovighi, «il fatto di avere nella corporazione dei professori certi membri legati con voto di obbedienza ad un'altra istituzione - il loro Ordine - non poteva piacere ai maestri del clero secolare, tanto più che, secondo quanto ammetteva lo stesso capo dei secolari, Guglielmo di Saint Amour, le loro lezioni incontravano grande favore tra gli studenti.» Il che sotto un profilo realmente critico, non avrebbe dovuto avere rilevanza decisiva. Risultare popolari e graditi ai tanti goliardi da Carmina burana che frequentavano non dovrebbe esser considerato né merito, nè demerito, ma solo un fatto, un dato statistico su cui riflettere. Le motivazioni per cui un giovane, ed anche un individuo più maturo, decide di seguire un maestro, possono coincidere, ma non necessariamente, con gli obiettivi che si propone il maestro. La primitiva intenzione dell'allievo potrebbe divergere dall'intenzione di chi insegna. Il primo cerca conferme e giustificazioni al proprio comportamento istintivo ed alle esternazioni più baldanzose, il secondo tenta di riportare l'allievo a riconsiderare i propri istinti, a comprenderli, ma non a giustificarli. C'è però da sottolineare un fatto importante: le lezioni di Tommaso in rue St. Jacques richiamavano i giovani perché presentavano contenuti piuttosto arditi in materia "politica". In barba alle raccomandazioni tradizionali della sottomissione dei cristiani, vi si prospettava la possibilità di scacciare i tiranni, come si vedrà più avanti. Cose da "maggio francese".
Ciò non impedisce considerazioni diverse: era lo stesso sistema delle dispute, comune sia ai secolari che ai frati, a potenziare l'atteggiamento competitivo, e perciò presuntuoso, degli allievi. Non si scopre l'acqua calda se si afferma che è vero che la disputa mobilita tutta l'intelligenza e la memoria degli individui coinvolti. Epperò occorre vederne i riflessi negativi. Nelle dispute non è mai certo che chi vince abbia ragione. Anche la contesa filosofica non è un'ordalia. Il vangelo consigliò di non occupare i primi posti nelle sinagoghe, le correnti filosofiche del XIII secolo e i loro metodi pedagogici istigavano a fare gara continua per arrivare primi. Era il maestro a decretare la vittoria di una tesi sull'altra, ma quanti furono i maestri a cadere in piena confusione? Più che ad una partita di scacchi, un gioco nel quale non serve un arbitro, avendo regole rigide, le sentenza dei maestri tendevano a giochi diversi, con regole assai meno certe, e tendenzialmente discutibili.
A noi resta che il secolare Guglielmo di Saint Amour, insoddisfatto delle decisioni prese dal pontefice romano, scese ancora nell'arena con lo scritto De periculis novissorum temporum, nel 1255, a cui replicherà Tommaso, nel 1257, con l'opuscolo Contra impugnantes Dei cultum et religionem. L'attacco di Saint Amour non si limitò a questioni di diritto accademico, andò a colpire lo stile di vita e le regole degli Ordini. A suo parere costituivano un pericolo per la società e per la stessa Chiesa, una degenerazione etica inaccettabile. Questa volta papa Alessandro IV, con la bolla Quasi lignum vitae del 4 aprile 1255, prese inderogabilmente posizione a favore dei frati, ovvero diede ragione a Tommaso ed al diritto acquisito dai domenicani (e dai francesani). Ma Guglielmo di Saint Amour non si diede per vinto. Sicchè, ancora nel 1256, Alessandro IV dovette ordinare alla facoltà di teologia di ricevere «in societatem scolasticam et ad Universitatem Pariseniensem» i frati Predicatori domenicani e Minori, ossia i francescani, ovvero Tommaso d'Aquino e Bonaventura da Bagnoregio. Solo alla fine del 1256, dopo un'ansiosa contesa, a Tommaso fu riconosciuto il diritto al magistero. Di cui usufruì per appena tre anni perché questa era la consuetudine. Non si può escludere, tuttavia, che la decisione di tornare in Italia sia stata dettata dall'Ordine stesso a causa del precipitare degli eventi. La Chiesa in Italia era in gravissime difficoltà ed occorreva mobilitare tutte le risorse per evitare il suo naufragio.

Cosa resta del primo periodo (1252-1259) di insegnamento a Parigi?
In pochi anni Tommaso riuscì a produrre un numero notevole di scritti: il De ente et essentia, il commento al De Trinitate di Boezio (sotto veste di quaestiones), le Quaestiones disputatae de veritate, buona parte delle Quaestiones quodlibetales. Probabilmente, cominciò, ma non terminò, la Summa contra Gentiles. Gli studiosi sono generalmente concordi, tuttavia, nel riconoscere opera più significativa il De ente et essentia, forse composto tra il 1254 e il 1256, o addirittura negli anni di Colonia. Le idee qui esposte da Tommaso rimarranno punti fermi del suo insegnamento e molti storici della filosofia lo riterranno come il tratto distintivo di tutta l'opera successiva, la sua base metafisica. Nicola Abbagnano lo paragonò al Discorso sul metodo di Descartes. Ma, motivò la sua importanza per ragioni del tutto diverse. «... Tommaso stabilisce il principio fondamentale, che, riformando la metafisica aristotelica, la rende adatta all'esigenza del dogma cristiano: la distinzione reale dell'essenza e dell'esistenza.» (4) Anthony Kenny sembra ridurne l'importanza, vedendovi solo un punto di avvio per la riflessione successiva. (5) L. Rougier (La scolastique et le thomisme, 1925) «vede nella distinzione reale tra essenza ed esistenza nelle creature il punto fondamentale delle filosofia tomistica e la ritiene insostenibile.» Rougier lo bollò come il più «prodigioso pseudoproblema che abbia mai ossessionato lo spirito umano: quello dell'accordo tra il razionalismo ellenico e i dogmi delle tre grandi religioni mediterranee.» Valutazione nutrita di neopositivismo evidente. I giudizi sul De ente et essentia sono così vari e diversamente motivati che non resta che tentare di capirlo con mente libera da pregiudizi, tenendo presente che tra gli stessi seguaci di Tommaso si verificheranno non poche divergenze.
Gli abbozzi della Summa contra Gentiles, che Tommaso completerà in Italia, hanno grande importanza perché tentavano di tracciare una cintura protettiva nei confronti dei dogmi del cristianesimo esposti alla critica del sapere greco-arabo. Non rifiutarsi al confronto - insegnava Tommaso - ma dotarsi di un programma antivirus. La Summa contra Gentiles impedisce di considerare Tommaso un aristotelico disinvolto e spregiudicato e, soprattutto, un averroista. Maria Teresa Fumagalli Beonio Brocchieri e Massimo Parodi richiamano la tesi generalissima e vagamente grossolana del "confronto (scontro?) tra civiltà" presente nella ricostruzione di P. Chenu. D'altra parte, il titolo stesso (contra gentiles) non è casuale. Per Chenu: «... la cristianità doveva affrontare l'Islam sotto due aspetti: sul piano missionario la stretta degli Arabi in Spagna si era allentata e questo rendeva possibile una crociata dottrinale; [...] intellettualmente poi la civiltà araba che portava con sé il capitale della scienza e della filosofia greca rappresentava insieme una minaccia e un'attrattiva [...] L'opera di Tommaso si presenta [...] come la difesa dell'intero corpo della dottrina cristiana di fronte alla concezione scientifica greco-araba.» (6) Tesi che per chi conosce veramente l'insieme della filosofia araba del Medioevo risulta sostenibile solo alla luce di una parziale, ma decisiva ignoranza. Non era questa un corpo compatto, ma una pluralità di posizioni facilmente equivocabile, al punto da arrivare a confondere le idee di Al Ghazali con quelle di Avicenna. Equivoci dovuti alla mancanza di conoscenza dei trattati scritti da Al Ghazali contro i "filosofi". Testi che potevano semmai essere avvicinati alle idee professate dal cristianissmo Bernardo di Clairveaux.
Diversamente dalla tesi espansionista di Chenu, si può ragionevolmente pensare che Tommaso abbia mirato a contenere i danni inevitabili derivanti da un dialogo troppo spinto con i testi di Averroè. Guardando al maestro - Domenico di Guzman - si potrebbe dar ragione a Chenu: il predicatore della verità cristiana osa spingersi in mezzo agli "infedeli" con la voce della ragione, il logos di Giovanni l'Evangelista. Guardando al Tommaso concreto - quello che risulta dai suoi scritti - non si sfugge alla sensazione di un continuo richiamo alla prudenza, alla distinzione aristotelica tra coraggio e temerarietà. Qualcosa che non può essere il frutto di un calcolo, nemmeno di un friabile calcolo sulle probabilità. Dunque anche un rinvio al Vangelo di Matteo: prudenti come serpi e candidi come colombe. Ma, senza alcuna garanzia che la prudenza serva a salvare la vita in assoluto.
Non meno importante appare la raccolta di commenti alle sentenze, i Sententiarium. In essi si incontrano le prime, e probabilmente immature, convinzioni politiche di Tommaso. D'altra parte esse verranno duramente sfidate dalla conoscenza diretta della realtà italiana. A Parigi, Tommaso era realmente convinto della doppia obbedienza che si deve all'autorità civile ed a quella religiosa, nelle due sfere distinte poste dallo stesso Vangelo: Cesare e Dio. Ma, allo stesso tempo, Tommaso non rinunciava a ragionare in termini di "buon senso" aristotelico. Inoppugnabile era la tesi dell'indipendenza della Chiesa dall'autorità civile, ma si parlava di Chiesa cristiana e non di qualsiasi religione. Discutibile era quale tipo di supremazia potesse esercitare l'autorità religiosa su quella civile. Tommaso difese l'istituzione e prestò scarsa attenzione alla qualità umana di chi svolgeva la funzione istituzionale. E' questo che rende possibile un'accusa di ideologismo alle elaborazioni dell'aquinate. Tommaso, come evidenziato da Etienne Gilson, prese nettamente partito per la supremazia istituzionale del papato sulle autorità civili, pur sforzandosi di mantenere distinte le sfere d'influenza, ma aggiunse la liceità del potere temporale della Chiesa. Infatti: «Poiché sia il potere spirituale che quello secolare derivano dalla potestà divina, il secondo è subordinato al primo nella misura in cui ve lo ha sottoposto Dio, ossia in quelle cose che concernono la salvezza dell'anima. Se dunque in questa sfera si deve obbedire all'autorità spirituale piuttosto che a quella secolare, in ciò che riguarda il bene civile si deve invece anteporre l'autorità secolare a quella spirituale, come è detto in Matteo, 22, 21: "Date a Cesare quello che è di Cesare". A meno che, tuttavia, il potere secolare non sia alleato col potere spirituale, come nel Papa, che occupa il vertice dell'uno e dell'altro potere ("sicut in papa, qui utriusque potestatis apicem tenet"), cioè del secolare e dello spirituale, come ha disposto Colui che è sacerdote e re; sacerdote per l'eternità secondo l'ordine di Melchisedecco (sic!) re dei re e signore dei signori, al quale non sarà tolto il suo potere e il suo regno non avrà sarà distrutto nei secoli dei secoli. Amen.» Questo monumento di retorica guelfa si trova in II Sententiarium, 44. (7) Oltre a tutto non era un pensiero originale. Di fatto ricalcava una lettera di Papa Innocenzo III a Giovanni Senzaterra sicuramente nota negli ambienti degli studiosi in quanto rappresentava l'apogeo della Chiesa temporale e la dottrina di Cristo sacerdote e re. Tommaso tornò in Italia convinto della liceità del potere temporale della Chiesa e dell'esistenza di un papa-re. D'altro canto, sempre in II Sententiarium, troviamo il passaggio che tantò impressionò i giovani parigini che accorrevano alle sue lezioni nel convento dei domenicani. "Scacciare" i tiranni è legittimo. Il popolo è chiamato a rispettare i governanti secolari «nella misura in cui il loro potere viene da Dio e non in quegli aspetti del loro dominio che non hanno origine divina.» (8) Tommaso si era dunque permesso di superare sia le epistole paoline che la prima lettera attribuita a Pietro. Una possibile combinazione di queste due sentenze potrebbe dare che è legittimo rovesciare i tiranni se si gode dell'appoggio papale e dell'ordine di Melchisedek.

Tommaso "conosce " le dinamiche della politica
Tommaso, tornando in Italia, ebbe modo di constatare lo stato di grave crisi in cui versava il potere temporale della Chiesa, con gravissimi riflessi sul piano del magistero spirituale. Più i pontefici si affannavano per tentare di recuperare e restaurare il potere perduto, più la credibilità spirituale scemava. Pensare di rialzarne le sorti solo con insegnamenti, scritti e dispute che non andavano contro la prassi politica seguita dalla curia romana, rinunciando a metterla esplicitamente in discussione, significava consegnarsi alla più classica impotenza della filosofia, quella di Platone nei confonti degli ateniesi, quella di Aristotele nei confronti dell'unità della Grecia, quella di Seneca in rapporto al potere assoluto del dissoluto Nerone. Tommaso, come si è detto, non era uomo d'azione, e nemmeno individuo in grado di suscitare entusiasmi. Riservato e taciturno, il "bue muto", era consapevole dell'insanabile scissione tra "com'è" e "come dovrebbe essere". Man mano che prendeva confidenza con la situazione italiana, questa consapevolezza cresceva ed insieme ad essa si sviluppava il senso d'impotenza dell'insegnante e dello scriba. Parlare di "malessere" in senso psicologico non è inappropriato.
Per circa un decennio l'aquinate continuò prevalentemente ad insegnare in corsi organizzati all'interno dell'Ordine dei predicatori, in centri come Anagni ed Orvieto, poi Roma. L'ipotesi di una università pontificia, lo studium che seguiva il Papa nei suoi spostamenti, non ha trovato d'accordo gli studiosi. Quando Tommaso giunse a Roma, entrò in una città che aveva esiliato il Papa. Si può quindi provvisariamente concludere sul fatto che i corsi tenuti da Tommaso si svolsero all'interno di un "centro studi" al servizio di un "centro decisionale": la curia pontificia. Ma il centro studi non aveva bisogno di lasciapassare, potendo insediarsi anche in territori giuridicamente posti sotto altri domini. Il destino dell'aquinate sembrava confermarsi come condizione di doppia obbedienza, sia all'ordine che all'autorità ecclesiastica. Il rapporto era così stretto, tuttavia, che si fatica a credere alla totale estraneità di Tommaso e dei domenicani alle scelte politiche del Papa e della curia cardinalizia. Ciò si potrebbe configurare come un crescendo di errori in termini di strategia politica (e militare) e da un unico gravissimo errore sul piano del magistero spirituale, il quale non può essere imposto né con le armi nè con la diplomazia. Rospi da ingoiare quotidianamente.

Disastri su disastri, eppure si insiste
Il primo papa con cui ebbe a che fare Tommaso, giunto in Italia, fu Alessandro IV, lo stesso che lo aveva sostenuto nella disfida per la cattedra parigina. Tommaso gli doveva gratitudine. Ma questo papa, in senso strettamente politico si era rivelato disastroso, al punto di aver perso perfino il controllo di Roma, amministrata dal senatore Brancaleone degli Andalò, originario di Bologna, con l'appoggio dell'aristocrazia economica e senatoriale romana. L'ossessione di Alessandro IV era Manfredi di Svevia, figlio naturale di Federico II, riconosciuto ed incoronato re a Palermo da diversi arcivescovi che se ne erano infischiati delle direttive della curia romana. Dopo la battaglia di Montaperti del 1260, tra senesi sostenuti da un forte contingente di cavalieri inviati da Manfredi e una coalizione di guelfi guidati dai fiorentini, i comuni guelfi passarono in buona parte ai ghibellini, compresa la fedelissima Milano. Le maggioranze si rovesciarono e divennero minoranze. Ampie zone della Romagna, il ducato di Spoleto e la marca di Ancona caddero nella sfera di egemonia di Manfredi. Tommaso giunto alla residenza papale, a Viterbo, alla vigilia di una catostrofe militare, cui seguì in un clima di disfacimento. Il potere temporale della Chiesa era ai minimi termini. In ambienti superstiziosi ciò veniva visto come un segno del giudizio divino sulla Chiesa stessa. Alessandro IV morì a Viterbo nel 1261. Gli successe un francese di umili origini, Jacques Pantaleon, un uomo che s'era davvero fatto largo in mezzo alla concorrenza grazie a particolari abilità ed indubbia fortuna. Aveva studiato a Parigi, era stato nominato vescovo, poi legato in Germania, perfino patriarca di Gerusalemme. La sua elezione a Viterbo, dopo quattro mesi di "fumate nere", coincise con la vittoria del partito francese presente nella curia, e con l'investimento su Carlo D'Angiò, fratello del re di Francia, considerato come la più sicura alternativa a Manfredi. (9). Pantaleon assunse il nome di Urbano IV. Manfredi era contestato come erede legittimo anche dal ramo tedesco della famiglia Hohenstaufen, che sosteneva il diritto di Corradino. Lo scenario era quindi complicato dalla presenza sul campo di almeno quattro soggetti più pesanti degli altri, e dall'attività, relativamente autonoma, di tanti soggetti quali i comuni, le contee, i ducati, le marche e così via, disposti a schierarsi in ragione di convenienze particolari e di come "tirava il vento". Le divisioni attraversavano i singoli comuni e in ognuno di essi vi erano almeno due partiti, quello guelfo e quello ghibellino. Si verificarono diversi episodi di scontri armati tra le fazioni anche nelle città. La scelta filofrancese ebbe conseguenze decisive soprattutto per l'Italia meridionale, ma non riuscì a riportare il papa a Roma, nemmeno Clemente IV, che nel frattempo era succeduto a Urbano. Carlo d'Angiò si stava rivelando alleato infido ed esoso, sicuramente più astuto di tutti gli strateghi pontifici che avevano creduto conveniente l'alleanza con simile individuo. La partita tra Carlo d'Angiò e Manfredi fu decisa dalla battaglia di Benevento del febbraio 1266, il solito ripugnante bagno di sangue, Alla vittoria di Carlo d'Angiò non seguì alcun vantaggio concreto per la Chiesa temporale. Ma Clemente IV non perse l'occasione per macchiarsi di una nefandezza. Ordinò di riesumare la salma di Manfredi per la sua pubblica esposizione in quanto scomunicato e condannato alle fiamme eterne.

Domande indecenti e risposte scandalose
Non esiste documentazione storica in merito al ruolo preciso giocato da Tommaso d'Aquino in questi anni turbolenti. La storiografia filosofica trascura di occuparsi di queste vicende come si trattasse di un'altra storia, di eventi paralleli che non intaccano la purezza della riflessione dello studioso. Qui si suggerisce un approccio diverso. L'ordine domenicano era diventato organico alla chiesa temporale. La politica ecclesiastica favoriva apertamente l'ordine, in cambio riceveva la soluzione ad alcuni problemi dottrinali, ma anche un indirizzo generale destinato a durare. D'altra parte, appare fuori luogo accusare l'ordine dei predicatori di compartecipazione alle ricchezze ed ai benefici della casta cardinalizia. La regola era severa e non ammetteva eccezioni. La questione andrebbe dunque spostata. Perché tale ostinazione nel servire il potere temporale, nonostante tutte le severe lezioni della storia e della cronaca? La risposta può essere una sola. I domenicani erano convinti che senza il potere temporale della Chiesa, l'istituzione spirituale si sarebbe dissolta. E' una spiegazione difficile da accettare per i duri e puri come Jacopone da Todi, che verrà tra non molti anni a scagliare le proprie invettive contro il perfido Bonifacio VIII, ma lo storico deve tenerne conto senza abbandonarsi a facili ironie. Se esistono Vangeli - pur manomessi e conservati come reliquie, anziché "parola viva" - e perché la Chiesa come istituzione seppe conservarsi nella "ignobile" forma che via via si faceva sempre più detestabile. Cose che i domenicani non dicevano apertamente, ma che qualcuno tra loro, in primo luogo lo stesso Tommaso, deve aver pensato. E se lo pensò, fu perché scelse di credere in quel concetto di necessità (non può essere altrimenti) postulato da Aristotele come caratteristica irrinunciabile di ogni autentico sapere, proiettandolo nella sfera della ragion pratica e dell'arte della politica. Seguendo questa pista, ovviamente, si rischia di gettare sullo stesso Tommaso l'ombra di troppi sospetti . Ma, è un rischio che si deve correre, se si vuole evitare di trasformare Tommaso stesso in un burattino, l'utile idiota trinariciuto e manovrato dal potere curiale. In ogni relazione umana, la categoria dell'utile idiota potrebbe essere facilmente rovesciata. Chi, o che cosa, serve a chi, o a che cosa? E' legittimo pensare sia che Tommaso divenne intellettuale organico alla Chiesa temporale, il suo ideologo, tanto quanto pensare, all'opposto, che Tommaso osò credere nella Chiesa temporale come "veicolo" di un fine più nobile ed alto. Se non si eseguisse questa specie di "piroetta mentale", non si capirebbe mai perché lo stesso Aristotele finì con l'essere accusato di intollerabili preferenze per il partito filomacedone. Fu Aristotele ad asservirsi alla causa di Filippo, e poi di Alessandro, o viceversa, il filosofo a credere di poter usare, ed abusare, della potenza politica e militare dei macedoni per conseguire un fine più alto? L'aquinate aristotelico potrebbe spiegarsi con questa analogia. Ciò porta a considerare il background delle più ferme convinzioni di Tommaso con un taglio diverso da quello più consueto nei manuali di storia della filosofia, per i quali la storia concreta è solo un rumore di fondo, un disturbo al procedere della pura ricerca intellettuale. Ma questo disturbo, alla fin dei conti, logora chi il potere non ce l'ha, e lo affida ai più improbabili agenti esterni, come appunto la dinastia dei macedoni nel caso di Aristotele, o la curia romana e gli intrallazzi con Carlo d'Angiò nel caso di Tommaso. Di lì a qualche tempo, verrà una lezione negativa, quella della rinuncia di Celestino V, che Tommaso non vedrà, ma che vien facile rappresentare come l'alternativa. Se si vuole rimanere "puliti", non venire coinvolti nemmeno di striscio nella catena di complotti, delitti, guerre tra le diverse città dell'uomo, non c'è altra via che il passo indietro e la strada, forse illusoria, della deresponsabilizzazione. Purtroppo per lui, Celestino si era spinto troppo avanti nella via ascendente della carriera ecclesiastica e il giudizio degli storici - che spesso si rivelano non meno stolti di chi pretendono di giudicare - rischia di risolversi nella categoria della viltà, o come in Dante Alighieri, in quella di ignavia (non ragioniam di lor, ma guarda e passa). Buon per Tommaso, insomma, se non venne mai fatto cardinale, nonostante i meriti acquisiti. Questo atto mancato da parte di Urbano IV e di Clemente IV, depone a suo favore. Su Clemente IV, tuttavia, si potrebbe esigere un supplemento d'inchiesta. Mentre credeva di sfruttare il lavoro di Tommaso, si aprì, non inspiegabilmente, al pensiero del francescano Ruggero Bacone, grande critico dell'aquinate, arrivando a chiedergli importanti contributi e delucidazioni, gesto da apparente gran sovrano "illuminato" che interroga tutti i punti di vista.
La verità è che i pontefici devono aver avvertito in Tommaso un avvicinamento alla "perfezione" quantomeno inquietante. E se si comprende che è "perfetto" solo chi è "morto", ovvero non è coinvolto in particolari giochi di simpatia-antipatia e passioni per il potere, si accede anche alla consapevolezza dell'altra faccia di Tommaso, quella del "dottore angelico", entrato nella vulgata senza che alle spalle vi fosse una reale comprensione del dramma umano di Tommaso. Destino singolare per chi si era battuto per riaffermare la doppia natura umana e divina di Gesù contro tutte le eresie, da quella di Eutiche a quella di Nestorio, come avvenne nella Summa contra gentiles. Gesù soffrì come uomo, perché io no? E' la domanda che giustamente Tommaso potrebbe porre a tutti i suoi più ferventi ed unilaterali sostenitori, od ai suoi critici più spietati. Rispondendo: altro che angelico!
Senza questo scenario di eventi esterni più o meno emozionanti e deprimenti, la vita di Tommaso si riduce a ben poco. Dopo la reclusione ed i tormenti cui l'assoggetarano i fratelli e la disputa con il terribile Saint Amour, seguì un tran tran tra scuola e chiesa, tra meditazione e preghiera. Un mondo senza televisione. senza divertimenti e diversivi, salvo le passegggiate e le rare cene con allievi ed amici. La soddisfazione della vita era tutta nell'insegnamento e nel riconoscimento degli allievi. Dall'alto, cioè dalle autorità ecclesiastiche, gli giunse ben poco. Tommaso venne direttamente coinvolto dal pontefice quando ad Urbano IV venne in testa di estendere la festività del Corpus Domini, già introdotta a Liegi, a tutta la cristianità. Il papa si rivolse a Tommaso per la sua giustificazione e per la composizione di inni appropriati alla solennità. Per anime religiose potrebbe trattarsi di incarico importante, ma per il filosofo e forse anche il teologo, era una quisquiglia, poco più che un piatto di lenticchie. Probabilmente Tommaso fu realmente amato, come vero amico, dal solo Reginaldo da Piperno, uno dei pochi che avvertì la profonda sincerità dei suoi sforzi.
Urbano IV morì senza poter vedere Roma, ed anche al suo successore Clemente IV , un altro francese, toccò la medesima sorte. Carlo d'Angiò non mantenne gli impegni. Fu solo capace di chiedere continuamente soldi alla santa sede (che ne disponeva grazie alle decime versate dalle diocesi periferiche) e di imporre pesantissmi tributi alle popolazioni che cadevano via via sotto il suo giogo. Si comprende perché buona parte dei comuni, ma non solo, tornasse a dichiararsi ghibellina soprattutto al nord. Occorreva un cambio di rotta ed esso fu propiziato dalla morte di Clemente IV nel 1271. Tommaso, nel frattempo era tornato a Parigi per insegnare un seconda volta all'università. La contrastata elezione del nuovo pontefice Gregorio X si tradusse in una vittoria della fazione antifrancese ed in essa ebbero parte Bonaventura da Bagnoregio e l'ordine dei francescani. Non era ancora un completo rovesciamento dei rapporti di forza tra l'ordine dei predicatori domenicani e quello dei frati minori, ma apriva la via ad una dialettica più equilibrata tra centri studi e, come si direbbe oggi, lobbies culturali. Nel 1277, dopo la morte di Tommaso (1274), il vescovo di Parigi Etienne Tempier porterà un duro colpo all'egemonia domenicana ed alle dottrine di Tommaso.

Tommaso teoretico e i disinvolti consigli sessuali di Pietro Ispano (Papa Giovanni XXI)
Giunti a questo punto, si può comprendere più agevolmente l'immane produzione teoretica dell'aquinate, ed anche il suo senso. Sicuramente questo può essere valutato come superiore agli indegni superiori ai quali aveva messo a disposizione il proprio acume. Qui si è propensi a credere che Tommaso avrebbe preferito alle patacche e ai riconoscimenti formali, che ogni tanto non guastano, e che non gli giunsero quand'era in vita, una svolta nello stile di vita degli ecclesiastici, un diverso atteggiamento di costoro nei confronti di coloro che intendevano guidare spiritualmente.
Quella "paglia", ossia la propria opera, venne dichiarata fallimentare perché in tutti quegli anni non era servita né a convertire gli infedeli, né a correggere gli "eretici", nè a cambiare gli uomini, né a migliorare la Chiesa, e nemmeno a procurare intime soddisfazioni di conquista intellettuale. Le contestazioni che gli arrivavano da ogni parte, e di cui prese sicuramente piena coscienza nel secondo triennio di insegnamento a Parigi, lo costrinsero a prendere atto che anche la conquista intellettuale è soddisfazione effimera. Ciò che appariva logico a Tommaso, non risultava ammissibile da chi lo contestava. Ed anche il continuo ricorso al principio d'autorità - l'ha detto questo... si trova scritto in quello... - non riusciva a convincere i critici più accaniti. Non sappiamo se mai Tommaso giunse a leggere le cose che aveva scritto Pietro Ispano - da medico e da insegnante di medicina - ma esse sembravano mandare a gambe all'aria l'intero edificio tomistico e lo stesso magistero ecclesiastico. Pietro - diventato Papa come s'è detto, col nome di Giovanni XXI - nel Thesaurus pauperum aveva raccomandato di rinnovare l'atto sessuale con persone diverse e numerose onde evitare la «fissazione della passione», spingendosi a prescrizioni a luci rosse. (10) Era una dottrina del libero amore sessuale da praticarsi per la salute del corpo e dell'anima. E' dubbio che tale testo sia mai giunto ai poveri, ma sicuramente cadde nelle mani di vescovi e cardinali, nonché pontefici, e religiosamente conservato e tramandato tra privilegiati, iniziati ai sacri misteri e depositari della massima verità. Tra i quali Bonifacio VIII e Alessandro VI della casata dei Borgia.

Il valore del Tommaso teoretico
Il valore del lavoro svolto da Tommaso ovviamente trascende le considerazioni - un po' meschine? - che abbiamo fin qui svolto. I fallimenti servono più dei successi e, su alcuni punti dell'opera dell'aquinate non è ancora stata pronunciata una parola definitiva. A nostro avviso, non lo sarà mai perché è nella natura di filosofi e teologi rimettere tutto in discussione. Tommaso andrebbe dichiarato patrimonio culturale dell'umanità e comunque studiato più a fondo. Con gli stuzzichini che proponiamo, può essere che a qualcuno venga il desiderio di consumare il pasto completo e più di una volta. Non bisognerebbe fermarsi ai dati che hanno reso celebre l'aquinate come le cinque prove dell'esistenza di Dio, ma indagare i processi di formazione di una coscienza che temporaneamente si appaga di un approdo tranquillo ed un saldo ancoraggio al lume della ragione naturale. Salvo scoprire, poi, che anche il concetto di lume naturale è una costruzione ideologica di non lieve entità. Aristotele può costituire un modello, un metodo, forse il metodo per eccellenza, ma le sue affermazioni di "contenuto", ossia le conseguenze che trae, non sono vangelo. La coscienza non si forma solo aggiungendo informazioni o negando valore a qualche opinione troppo spinta. Se manca un fondamento alla dignità dell'uomo e della donna non c'è dimostrazione che tenga. Sicché anche la domanda se sia vero che la coscienza irrompe sempre dall'esterno assume luce diversa a seconda delle angolazioni. Tra un Agostino che afferma il valore dell'interiorità, il vero Dio va cercato ed in-segnato nella coscienza dell'uomo, ed un Tommaso che cerca prove di ordine esteriore, perfino estetiche, non si tratta di trovare un momento di conciliazione e sintesi, ma solo di riconoscere che ci sono individui portati a riconoscere la parola di Dio in se stessi ed individui che necessitano di una conversione, ovverossia: abbassare la cresta. Indagare l'ordine ed il disordine della natura non è affatto sbagliato, ma che l'ordine estetico riconosciuto da Tommaso non possa venire contestato da chi trova nel mondo solo sofferenza e morte è ultraammissibile. La vita è bella! Hai ragione. La vita è una merda! Hai ragione. La segreteria generale delle dichiarazioni umane sulla vita registra sia le lamentele che le soddisfazioni, ma rinvia il giudizio finale a tempi meno viziati dal particolarismo. Costringere qualcuno a riconoscere che la vita è bella perché è Dio ad averla creata e donata è una forma di violenza psicologica che ormai dovrebbe ripugnare alle coscienze più evolute. Forse, non è sbagliato considerare Tommaso un esteta. Lo fece Umberto Eco all'inizio della carriera (11), in un certo senso lo ribadì P. Tito Sante Centi nella sua introduzione alla Summa contra gentiles. «S.Tommaso non è un naturalista, o un "filosofo" come il francescano Ruggero Bacone, e neppure come come il suo maestro S. Alberto Magno. Per le scienze naturali egli si affida ad Aristotele, Avicenna, Averroè e Tolomeo. Quando nei suoi ragionamenti egli ha bisogno di appellarsi alle nozioni delle scienze naturali, si limita a riferire il pensiero dei "filosofi":ut philosophi dicunt..."
Bisogna però riconoscere che la concezione del cosmo affiora spesso nelle sue espressioni, ripercuotendosi non sempre in maniera positiva sulla sua sintesi teologica e filosofica. Volendo perciò interpretare con esattezza il suo pensiero, non si può ignorare questo sottofondo concettuale. Ecco perché abbiamo pensato di presentare in forma schematica la cosmologia di S. Tommaso, che in qualche capitolo della Contra gentiles è piuttosto "invadente".» (11)
La cosmologia prediletta da Tommaso era di natura estetica, la sua visione dei cieli era armoniosa. Ma scendendo dalla perfezione dei cieli alla situazione degli umani, e delle cose biologiche in generale, egli dovette assumere una posizione problematica e tentare di risolverla. Considerando l'origine del male, egli si appellò ad Agostino, e dunque a Platone. Il male non è un principio assoluto, ma una privazione di bene. Ne verrebbe che ogni entità concretamente esisitente ha in sé tanto di bene quanto di male in diversa misura, e che perfino dal male ciascuno può trarre un bene. Ciò presuppone, ovviamente, che il principio da cui viene il mondo sia il bene assoluto, e non una sua emanazione, come in Avicenna.che individuò l'autore del mondo nella decima intelligenza. Anche per evitare un'inutile disputa tra filosofi di pari dignità, Tommaso si richiamò alla Bibbia. affermando che Dio vuole e conosce ogni realtà fino al'ultimo individuo. (Summa theologiae, I e Contra gentiles, I, 63-73, 78). Vanni Rovighi spiega. «Se si concepisce la creazione come un atto volontario e libero, non si ha difficoltà ad ammettere ciò che la rivelazion cristiana dice dell'inizio del mondo. Se, infatti, la creazione è un processo necessario, certo essa sarà ab aeterno, come è eterno Dio, ma se è un atto di volontà libera, Dio potrà volere le creature come vuole: come esistenti ab aeterno o con inizio. E sebbene la volontà di Dio sia eterna non è necessario che essa produca un effetto eterno. Dio può infatti volere eternamente che qualcosa sorga a un determinato momento.» Sono osservazioni tratte da Summa theologiae, I q. 46, art. 1 ad sextum e da altri scritti come la Contra gentiles e il De potentia. L'aggancio al principio estetico si attua sulla considerazione che non v'è alcuna necessità che il bene ed il bello coincidano come nella dottrina che Socrate apprese da Diotima. Con ciòTommaso rientrò in una dimensione empirica, tornando a seguire davvero Aristotele. Il bene è ciò a cui le esistenze biologiche tendono, il bello è ciò che attrae nelle cose che si sono viste. (Summa theologiae, I q. 3, art. 4) Si attuò così una mescolanza di principi tratti da due ordini logici differenti. Il bene, cioè Dio, è agognato da ogni creatura vivente; il bello è il risultato di esperienze concrete del tipo "in base a ciò che ho visto finora dico che...". Va da sé che questa distinzione lascia il tempo che trova. Sia in ordine al bene che in ragione della bellezza. Tutte le creature tendono a beni vitali, ma particolari. E l'aspirazione a Dio è spesso dettata da convenienza. Il senso del bello, cioé la sua percezione, nonostante tutte le variazioni possibili in ogni entità umana - non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che ptace - è, in definitiva, una vacuità, qualcosa che è destinato a degenerare ed a corrompersi man mano che l'ente bello invecchia, a meno che non si tratti d'un prodotto artistico come i romanzi di Dostoevskji, o come la biblica storia di Ruth. Se c'è qualcosa di sconvolgente nella dottrina aristotelica, o nella sua interpretazione, è che lo sfiorire di una bellezza corrisponda ad una corruzione. Corruzione in che senso? Solo nel senso biologico del destino di un ente vivo. Su questo c'è scienza perché gli immortali e gli eternamente giovani non esistono. L'equivoco è possibile quando si confonda la corruzione fisica con la corruzione morale. Non è improbabile che il vecchio sia migliore di ciò che fu da giovane, ed è questo che probabilmente si disse Tommaso guardandosi finalmente allo specchio. Bello non lo era mai stato. Tarchiato e pingue più che muscolosco, ma non privo di forza, tutt'altro. Poteva solo rimproverarsi di non averla applicata a sufficienza, anche nel solo esercizio fisico e nel lavoro manuale. E quando ci si fissa nel solo esercizio intellettuale, si può dimenticare perfino Aristotele: "si passeggia per la salute".

Conclusioni provvisorie
S'erano promessi solo stuzzichini e non si può far altro che rinviare ad ulteriori articoli il pasto completo, o meglio, il suo riassunto con la sottolineatura di alcuni punti nevralgici. In Tommaso tutte le questioni assumono una tale complessità che diventa difficile riassumerle in poche battute sintetiche. Una per tutte. L'allargamento degli orizzonti della ragione naturale portò Tommaso a sviluppare considerazioni sul tema dei miracoli di estremo interesse, come si vedrà. Ma, c'è un punto - sovente trascurato - rispetto al quale la curiosità non può che raddoppiarsi. Quando nella Summa theologiae (III, q. 43 art. 1) fece osservare che l'insistere sui miracoli non portava a rinforzare necessariamente la "fede", anzi rischiava di indebolirla (13), si pose decisamente in contro tendenza rispetto ai luoghi comuni della prassi sacerdotale, che sarebbe più opportuno definire propaganda religiosa indiscriminata. Fu dunque pronto a percepire la possibile scissione tra fede e ragione, intendendo quest'ultima anche come scetticismo, non solo tra i dotti, ma anche tra gli ignoranti capaci di pensare, di esigere prove e testimonianze veritiere e giudiziose. Con Tommaso si è così spesso spinti a ragionare in alternativa alla via apologetica nuda e cruda, all'esaltazione della fede cieca ed incondizionata nei confronti di chiunque predichi "in nome di Dio". Va solo rammentato che, sempre nella Summa theologiae, Tommaso dichiarò esser meglio il venir convertiti dalla credenza in un miracolo che rimanere non credenti.


Note
1) Il testo di riferimento utilzzato è: Sofia Vanni Rovighi - Tommaso d'Aquino - Laterza 1973 / Ove non altrimenti indicato in queste note tutte le informazioni e le citazioni sono tratte da questa fondamentale monografia.
2) Etienne Gilson - La filosofia nel Medioevo - La Nuova Italia Editrice - prima edizione 1983
3) Anthony Kenny - Nuova storia del pensiero filosofico / Medioevo - Einaudi 2012
4) Nicola Abbagnano - Storia della filosofia / La filosofia medioevale - volume secondo dell'edizione TEA su licenza UTET 1999
5) Kenny, cit.

6) Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri e Massimo Parodi - Storia della filosofia medioevale - Laterza 2002
7) Gilson, cit.
8) Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri - Il pensiero politico medievale - Laterza 2000
9) per le notizie storiche si possono agevolmente consultare: Giancarlo Zizola - Il Conclave. Storia e segreti - Newton Compton 2005 e Claudio Rendina - I Papi - Newton Compton, consigliabile l'ultima edizione aggiornata all'elezione di Papa Francesco.
10) Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri e Massimo Parodi, cit.
11) Umberto Eco - Il problema estetico in Tommaso d'Aquino - Bompiani 1996, riedizione di un testo del '76
12) Tommaso d'Aquino - Summa contra gentiles - ESD 2000
!3) l'espressione esatta è «i miracoli diminuiscono il merito della fede» La segnalazione, molto opportuna, in Carlo Augusto Viano - Le imposture degli antichi e i miracoli dei moderni - Einaudi 2005


moses - 19 settembre 2013

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Domenico di Guzman

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Manfredi di Svevia su wikipedia

La battaglia di Montaperti su wikipedia

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Il passo cruciale nella Summa Theologiae
3. Il Signore ha comandato ai servi della parabola di permettere alla zizzania di crescere fino alla mietitura, cioè fino alla fine del mondo, stando alla spiegazione del testo. Ma i Santi Padri ci dicono nelle loro esposizioni che la zizzania sono gli eretici. Dunque gli eretici vanno tollerati.
IIª-IIae q. 11 a. 3 s. c.
IN CONTRARIO: L'Apostolo insegna: "L'uomo eretico, dopo una o due ammonizioni, evitalo, sapendo che un uomo siffatto è perduto".
RISPONDO: A proposito degli eretici si devono considerare due cose: una che proviene da essi; l'altra che è presente alla Chiesa. Da essi proviene un peccato, per il quale hanno meritato non solo di essere separati dalla Chiesa con la scomunica, ma di essere tolti dal mondo con la morte. Infatti è ben più grave corrompere la fede, in cui risiede la vita delle anime, che falsare il danaro, con cui si provvede alla vita temporale. Perciò, se i falsari e altri malfattori sono subito messi a morte giustamente dai principi; a maggior ragione e con giustizia potrebbero essere non solo scomunicati, ma uccisi gli eretici, appena riconosciuti colpevoli di eresia.
Alla Chiesa invece è presente la misericordia, che tende a convertire gli erranti. Essa perciò non condanna subito, ma "dopo la prima e la seconda ammonizione", come insegna l'Apostolo. Dopo di che, se l'eretico rimane ostinato, la Chiesa, disperando della sua conversione, provvede alla salvezza degli altri, separandolo da sé con la sentenza di scomunica; e finalmente lo abbandona al giudizio civile, o secolare, per toglierlo dal mondo con la morte. Scrive infatti S. Girolamo: "La carne marcita deve essere tagliata, e la pecora rognosa va allontanata dal gregge, affinché non arda, non si corrompa, non imputridisca, e non muoia tutto: casa, pasta, corpo e gregge. Ario in Alessandria era una scintilla: ma poiché non fu subito soffocato, le sue fiamme hanno devastato tutto il mondo".

Il termine "conclave" per significare la riunione per l'elezione del papa entrò in uso proprio in occasione dell'elezione viterbese di Urbano IV, con riferimento all'espressione latina clausi cum clave. Infatti i cardinali furono rinchiusi nel palazzo ove erano riuniti da parte delle autorità comunali di Viterbo, esasperate dalla lentezza della procedura elettorale. (fonte wikipedia)

Corpus Domini (wikipedia)

Corpus Domini (cathopedia)

L'opera omnia di Tommaso d'Aquino in latino

La Summa Theologiae di Tommaso in italiano

Domanda che non ha mai ricevuto risposta adeguata: perché Pietro Ispano decise di chiamarsi Papa Giovanni XXI, saltando l'ordine logico della successione ordinale? Prima di lui non ci fu un Giovanni XX, ma un Giovanni IXX.

Tommaso si riconosce "uomo di potere" in un'intervista impossiile ad Umberto Eco. Sembrerebbe che noi si dica le stesse cose, ma non è vero. Un filosofo raramente diventa un uomo di potere effettivo. Affida ai più improbabili agenti esterni dei compiti grandiosi e viene regolarmente deluso, a volte gravemente. Noi crediamo che Tommaso d'Aquino, negli ultimi mesi della propria vita si sia reso conto degli errori commessi.