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La filosofia di Emanuele Severino
La forza del destino

Dario Smizer

Epistéme e destino

La scienza oggi siede sul trono che fu della filosofia. Essa è la fedeltà estrema al senso greco del divenire in quanto rappresenta la forma più potente della volontà di produrre e distruggere le cose. Ovvero trarle dal niente e e risospingerle nel nulla. «Altro è invece il pensiero che discute l'essenza stessa dell'Occidente. Esso è ciò che la filosofia dell'Occidente sarebbe voluta essere, ma non è riuscita ad essere. Sin dalla sua nascita in Grecia, la filosofia vuol essere epistème. L'epi-stéme intende valere come lo stare che è capace di imporsi su ogni discussione che miri a scuoterlo e ad abbatterlo. Ma insieme, intende valere come lo stare che si impone su ogni divenire e ne prescrive la legge, offrendo così ai mortali la prima grande forma di Rimedio, nella civiltà occidentale, contro l'angoscia provocata dal divenire del mondo.» (1)
C'è tuttavia un pensiero che discute l'essenza dell'Occidente, ed il riferimento non può che andare a Leopardi, come s'è visto, a Kierkegaard, a Nietzsche, a Heidegger e Jaspers, nonché allo stesso Severino. Questo pensiero non è epistéme, tuttavia è "l'unico pensiero che riesce a stare, cioè a mostrare che non può essere in alcun modo smentito". Ciò a cui l'epistéme ha invano mirato, si è realizzato contro l' epistéme stessa, indipendentemente da essa, ma ad essa solidalmente legata. Il pensiero che discute l'essenza dell'Occidente è il destino. di ogni conoscenza e di ogni essere. «Solo per questo pensiero è opportuno serbare la parola de-stino, che è costruita anch'essa, come epi-stéme, sulla radice indoeuropea stha (che indica appunto lo stare), e che assumiamo in modo che la preposizione de non indichi la provenienza da, ma l'intensificazione, la grandezza, il pieno compimento (come peraltro avviene nelle parole latine devincere, deamare, decoquere, defatigare, deflagrare, denegare). Solo il destino può discutere l'essenza dell'Occidente.» (2)
Occorre tuttavia notare che contrapporre destino ad epistème non è affatto la stessa cosa della distruzione dell' epistéme operata dalla filosofia contemporanea. La filosofia distrugge l' epistéme perché esso rende impossibile ed impensabile il divenire. Al contrario, il pensiero del destino "scuote ed abbatte" la fede essenziale dell'Occidente, cioè la fede nel divenire. Anche la filosofia contemporanea, in nome della sua fedeltà all'essenza dell'Occidente, e per questo rifiuta l' epistème. «Il destino che, invece, siede legittimamente sul trono della filosofia, si contrappone all'epistéme, perché quest'ultima, imponendo al divenire la propria legge, riconosce l'esistenza del divenire - così come il padrone può voler dominare il servo, proprio perché ne riconosce l'esistenza. Il divenire è il servo che, nella civiltà moderna, si è liberato dal padrone, cioè dall'epistéme e da tutte le forme culturali e pratiche in cui si rispecchia la struttura di essa. (la storia è fatta dai servi, diceva Hegel.) Il destino che discute l'essenza dell'Occidente mostra invece che quel servo che poi si è liberato dal padrone non esiste, è niente, è solo il contenuto della fede - cioè della follia - in cui consiste la civiltà occidentale.» (3)

C'è poi un'altra differenza tra l'opposizione del destino all'epistéme e il tentativo di distruzione dell'epistéme operato dalla filosofia. I filosofi contemporanei, fedeli all'interpretazione greca del divenire, negano tutte le verità definitive, giudicano ridicole tutte le presunte certezze epistemiche. Il destino, al contrario, è radicale negazione dell' epistéme in quanto essa ha fallito, non è riuscita a diventare padrona del proprio destino. Il pensiero del destino è autentico e nega ogni autenticità allo stare inautentico dell' epistéme. In altre parole: se il divenire esiste, l'epistéme è impossibile in quanto stabilità e certezza. Anzi, è l'alienazione estrema.

Geschick e Schicksal, anche in Dilthey
Certo, la filosofia contemporanea si è confrontata con il destino. Severino cita espressamente Max Weber e Martin Heidegger quali autori che hanno ragionato del "destino" nell'ambito dei significati delle due parole tedesche, Geschick e Schicksal, che traducono "destino". Ma entrambi, secondo Severino, hanno solo colto il lato soggettivo dello stare nel destino. Per essi il destino sovrasta il sapere dell'uomo e lo rende instabile ed incerto. Correlando queste pagine de La filosofia futura con le considerazioni più ampie contenute ne La filosofia contemporanea, vediamo però come anche Dilthey sia parte del destino del destino. Nello sforzo di conoscere e comprendere da parte di Dilthey si rivela un "aspetto tragico", costituito dalla contraddizione tra volere e potere, tra il voler sapere e il freno della dissoluzione del sapere insito nello scetticismo e quindi in tutto ciò che è storico. «Tutte le unità di misura - scriveva Dilthey - sono state superate e tutto ciò che era stabile vacilla.» Ciò lascia un "vuoto" nella coscienza che riflette sull'immensità e impenetrabilità dell'universo. L'uomo, «questa creatura del tempo, trova la sicurezza della sua esistenza nel fatto di trarre fuori dal fluire del tempo ciò che egli crea, assumendolo come qualcosa di duraturo; e con queste illusioni crea con maggiore coraggio con maggiore forza.»
Per Dilthey "il coltello del relativismo storico" distrugge tutto ciò che nella metafisica o nella religione sembrava stabile. E' la coscienza storica che fa nascere il dubbio assoluto. Ma propria la coscienza storica è in grado di produrre la guarigione, persino la liberazione. Infatti, se ogni visione del mondo si presume come vera, essa altera e congela la libertà del divenire, e quindi della vita. Il divenire è per questa via riportato a un principio incondizionato e unilaterale. Ma, ogni visione del mondo esprime anche un "lato" del mondo, una faccia con la quale l'universo si presenta alla coscienza interpretante. Allora, ogni visione del mondo è vera, anche se unilaterale. «Ed è per questa unilateralità - osserva Severino - che ognuna è un rimedio - si potrebbe dire con Nietzsche - peggiore del male che vorrebbe guarire (il male costituito dalla minaccia del divenire). Ciò non significa che sia possibile unificare le diverse visioni del mondo in un sistema organico, come riteneva Hegel, ma ci si può assicurare che "la verità è presente in ognuna di esse".» (4) Si può dire allora che la coscienza della finitudine di ogni fenomeno storico è l'ultimo tentativo esperito per la liberazione dell'uomo dalla tirannia delle visioni del mondo, nessuna delle quali riesce a non esercitare il suo potere, ma questa liberazione (se pure avviene realmente) non lascia l'uomo nella disperazione. In ogni visione del mondo la "pura luce della verità giunge ai nostri occhi" (parole di Dilthey) come un "raggio variamente rifratto".
Severino afferma che in tal guisa, tuttavia, «Dilthey sembra regredire a una concezione realistica, preidealistica, della verità, che intende la verità come qualcosa di trascendente lo spirito umano. Se si tralascia questo aspetto consolatorio del pensiero di Dilthey, la liberazione dell'uomo dalla tirannia delle visioni del mondo si traduce nell'angoscia di fronte al vuoto della coscienza e alla finitezza dell'uomo. Una configurazione concettuale, questa, che anticipa l'atteggiamento di fondo dell'esistenzialismo. e che presenta forti analogie col "nichilismo" in cui si trova l'uomo, secondo Nietzsche, quando ancora non riesce a imboccare la strada che porta oltre l'uomo.» (5)

Simmel e Weber
Per Simmel, la tragedia del pensiero occidentale, ed in particolare della civiltà moderna, è la lotta contro ogni forma dell'immutabile. La volontà di salvare dalla critica roditrice dei topi di biblioteca ciò che l'umanità ha creato è l'essenza della civiltà. Ma è anche l'essenza della forma umana stessa. La vita produce successive forme spirituali: ognuna vuole catturare l'immutabile, vuole rendersi immortale ed inquestionabile. Vuole elevarsi al di sopra del processo del divenire del pensiero e della realtà. Ma la verità è che il processo stesso del divenire distrugge le forme che ha prodotto. Insomma, anche questo è "destino". E questo destino è, probabilmente, l'unico vero senso della storia. La vita esige la forma in quanto vita, anzi, esige più della forma. «La vita è affetta dalla contraddizione di potersi realizzare solamente in forme e di non potersi realizzare in queste forme, dovendo superare e rompere ogni forma che ha creato. » (Simmel)
Anche in Weber, come in Simmel e in Dilthey, si ritrova l'idea che risale a Nietzsche, ovvero che la vita è "l'immensa e caotica corrente degli avvenimenti che fluisce nel tempo". Ciò vuol dire che la vita è una realtà irrazionale, ovvero una realtà priva di senso, e che lo stesso divenire del mondo è privo di senso. Ma questa mancanza di senso non è mancanza di contenuto. Dunque, la vita è priva di senso perché in essa non si dà alcun ordine, alcuna unità che sappia raccogliere in una data e privilegiata relazione, piuttosto che in un altra, un significato vero ed autentico, piuttosto che un altro. Per questo è irrazionale. Ma, allo stesso tempo, ogni sapere ed ogni cultura, cioè ogni sezione "finita" della conoscenza e del sapere danno al divenire senza senso un senso particolare. «L'attribuzione di senso, che è presente tanto nelle scienze della natura quanto in quelle storico-sociali (ma è su quest'ultime che si concentra l'attenzione di Weber), è espressione di un 'interesse' dell'uomo, e l'interesse consiste nel dare valore a un certo aspetto piuttosto che a un altro dell'infinità priva di senso, e quindi di valore, del divenire della vita. Il dare valore non è il riconoscimento dell'esistenza di un valore, ma è la fede, assolutamente sprovvista di garanzie, che qualcosa abbia valore.» (6)
Si verifica così un "isolamento" di una particolare realtà che è parte dell'intero divenire che rendono possibili vari tipi di scienze. Contrariamente ad Hegel, che intepreta tale sapere frantumato come "astratto", e quindi falso, per Weber il frutto dell'isolamento è la condizione del sapere stesso. Superare l'isolamento non può voler dire, come accade in Hegel, giungere al sapere assoluto, perché ciò equivarrebbe a ricadere nell'infinità priva di senso.
Ovviamente, le scienze storico-sociali riescono a spiegare il divenire dei fenomeni nella loro individualità. Isolando una sezione dal tutto, causa ed effetto sono delimitabili con precisione. Ma ciò è possibile se si dà un "punto di vista", che Severino definisce sia come 'fede' che come 'presupposto'. E' il dante valore. E' ciò che orienta la ricerca.
«La fede e l'interesse che danno valore e senso all'insensato stanno dunque alla base della razionalità scientifica. Il quadro grandioso della scienza, per Weber, viene sviluppato continuamente dagli uomini, perché si presuppone che esso sia degno di essere conosciuto, cioè fornito di un valore conoscitivo. Ma questo presupposto non può essere a sua volta dimostrato con i mezzi di cui la scienza dispone. E con questi mezzi non si può nemmeno dimostrare che il mondo descritto dalla scienza sia degno di esistere e se abbia un senso esistere in esso.»
E' qui che appare il senso dell'epistéme in Weber. «Tutte le scienze naturali - scriveva - danno danno una risposta alla domanda che vuol sapere quel che dobbiamo fare se vogliamo dominare tecnicamente la vita. Ma se vogliamo e dobbiamo dominarla tecnicamente, e se ciò, in definitiva, abbia veramente un significato, esse lo lasciano del tutto in sospeso, oppure lo presuppongono per i loro fini.» Fin qui le scienze. Ma al di sopra delle scienze c'è forse qualcosa capace di dire cosa devo fare per sentirmi un po' meglio, cioè orientato ad un senso della vita appagante? «Solo "un profeta o un redentore" - annota Severino - può proporsi sensatamente di dire agli uomini quali valori scegliere. Ma il "destino" della nostra epoca ci impone di vivere in un mondo senza Dio e senza profeti, dove i valori sublimi sono diventati estranei alle masse. Il puro fatto della volontà di dominio e di salvezza - ossia della volontà che dominio e salvezza abbiano valore - sta alla radice del sapere.» (7)
Siamo così nel paradosso che le scienze, in particolare quelle della storia e della società, possono aiutare a trovare una spiegazione del significato ultimo del proprio operare, del proprio esserci (per dirla con Heidegger) evidenziando che dalla scelta di alcuni valori si derivano alcune conseguenze, ma nessuna scienza può dimostrare la necessità di alcuni valori rispetto alla non-necessità di altri. Il sapere scientifico è a-valutativo.

Destino, ancora destino... tale è la filosofia futura
Quindi anche in Weber il momento della decisione irrazionale che decide la nostra preferenza per alcuni valori rispetto ad altri è destino. Esattamente come in Jung, ci accade quello che ci è proprio, che è 'nostro'. Somiglianze di famiglia, analogie, vicinanze e parentele non possono che avvicinare, accostare l'una all'altra, le esperienze di ciascuno di noi, ma non sono l'essenziale del destino. Ognuno muore sul 'suo' campo di battaglia, colpito dalla 'sua' freccia. Ogni freccia è la risposta del destino alla sua decisione. Lungo tale percorso, Severino non parla di karma e non cita espressamente Anassimandro. Ma a commento di Weber e di Heidegger, di questa individuazione del destino come forza filosofica superiore, il fato e la necessità degli antichi, egli può dire che il destino è la negazione dell'essenza che è comune sia all'evocazione sia alla distruzione dell'epistéme.
«Come negazione assoluta e non smentibile dell'essenza dell'Occidente - dell'essenza portata alla luce e custodita da ciò che la filosofia è stata finora e che ancora a lungo continuerà ad essere -, il destino non solo è la filosofia, ossia è legittimato a sedere sul trono di essa, ma è anche la filosofia futura, la filosofia che ha un futuro e non è costretta a mantenersi all'interno del passato originario dell'Occidente, cioè sotto il dominio del senso greco del divenire.
E tuttavia, - prosegue Severino - in quanto il senso del futuro, del passato e del presente - il senso del tempo - è legato, nella cultura occidentale, al senso greco del divenire, la filosofia futura è "futura" in un senso completamente sconosciuto alla cultura occidentale. Per il destino che discute l'essenza dell'Occidente, il futuro non può essere il niente da cui, nel divenire, gli essenti provengono e che ha appunto la possibilità di trasformarsi in essente. Ma proprio questo modo di intendere il futuro sta alla base di ogni comprensione specifica del futuro da parte della cultura occidentale.
La filosofia futura non è quindi in alcun senso un ritorno al passato e non è dunque un'ennesima forma di epistéme. E tuttavia solo la filosofia futura può testimoniare il destino, lo stare che non può essere in alcun modo e in alcun tempo negato, eterno occhio infallibile che vede il senso immutabile ed eterno della totalità dell'essere. Nessuno degli uomini e nessuno degli dei può essere quest'occhio. Eppure, al di sotto della nostra fede di essere uomini - una fede questa, che è essenzialmente legata alla fede nell'esistenza del divenire -, noi siamo l'occhio eterno che eternamente vede la verità assolutamente innegabile del Tutto.» (8)

(1) E. Severino - La filosofia futura -
(2) idem
(3) idem
(4) E. Severino - La filosofia contemporanea -
(5) idem
(6) idem
(7) idem
(8) idem
DS - ottobre 2006