| Home | Chi siamo | Ce n'est qu'un débat | scientia | antropologie | mandrognan school of economics | dizionario | libri | Toyo tetsugaku (zhexue) | bioetica







Concettualità destinale
I CONFINI DEL SENSO. PERSISTENZA DELLA DOMANDA METAFISICA
di Ezio Saia

Il discorso sulle teorie si potrebbe chiudere con due constatazioni parziali. Da una parte il trionfo dell'uomo informatico e assimilatore e dall'altra, accanto a questo trionfo, 1) l'impossibilità di una tautologia totale e 2) il prezzo in perdita del mondo che il teorizzare ci impone.
Il fallimento ci dice che non esiste un albero del sapere in cui ogni domanda trovi risposta e ogni risposta giustificazione. La teoria totale, onnicomprensiva di ogni informazione, la teoria in cui trovino posto tutte le teorie, non si chiude, ma si frantuma in tante teorie spesso non comunicanti, e neppure compatibili. Se il senso e il significato dei termini sono determinati nelle teorie anche l'univocità e la determinazione del senso scompare e si frantuma in una molteplicità di sensi spesso fra loro in contraddizione. Le stesse domande che riguardano la sensatezza della divisione sensato/insensato si dissolvono, come pure si dissolve la possibilità di percorrere teoricamente un diverso cammino che, dal teoretico, cerchi nel pratico quell'unità e quel fondamento non altrimenti raggiunto.
Su questo sfondo noi constatiamo l'inquieto rinnovarsi della domanda metafisica. Una domanda sempre delusa e che, solo momentaneamente, nell'attività di ricerca di una risposta, sembra poter trovare pace, per poi rinnovarsi dopo la confutazione di tale risposta. Quasi che non fosse in gioco la speranza, ma solo il necessario svolgersi di una routine del vivere stesso; un movimento circolare d'inutile, ma insopprimibile frustrazione.

Noi sappiamo che la forma della domanda è necessariamente quella dell'informazione assimilante: non comunione di verità, ma perdita. Né è pensabile che la domanda possa esprimersi intelligibilmente in una forma che non sia quella del teorizzare, per cui è la stessa forma della domanda a ipotecare il fallimento delle possibili risposte; la forma generale del teorizzare ci dice che non c'è altra forma con cui esprimere una qualsiasi domanda e che quindi la domanda stessa diviene la condizione dell'impossibilità della risposta; un'impossibilità che noi leggiamo come "non senso".
Un fallimento, dunque, che appare tanto più grave perché non si intravede alcun senso da cui iniziare la ricerca o che, in qualche modo, possa essere trovato lungo il percorso per cui è ovvia la conclusione che non da noi e neppure da altri sembra poter giungere alcun mitico e prometeico regalo di senso.

La storia del pensiero è anche il ricorrente tentativo di fondare il dominio del senso, ricercando le frontiere di questo dominio. La via per determinare questa fondazione è sempre stata quella suggerita dalla concettualità verticale, per cui un dominio del senso esiste e può essere determinato solo mediante una teoria che fornisca criteri di decisione e che, nel darli, si ponga 1) al di fuori di questo criterio e, quindi, al di là del senso e del non senso, oppure 2) si autofondi, risultando fornita di senso se sottoposta al criterio da essa stessa elaborato.
Delle due ipotesi la prima non risolve, ma rinvia il problema mentre la seconda è contraddittoria.
Kant riuscì, almeno in parte, a sfuggire al paradigma verticale instaurando un particolarissimo rinvio circolare.
La strada attraverso cui Kant pervenne alla sua soluzione, è lunga e profondamente innovativa. Del resto l'atteggiamento con cui guarda al non senso metafisico è decisamente nuovo. Kant non si limita a indagare la domanda, e a liquidarla, dopo averne dimostrato la mancanza di senso ma accetta come strutturale (è questa la prima vera novità) il fatto che la confutazione di una risposta metafisica non acquieti, non fermi né possa fermare la corrispondente domanda.
Questo riproporsi della domanda metafisica non è un riproporsi contingente poiché è proprio questa non contingenza a far sì che essa trovi sempre nuove forme per emergere. Questa è la strutturalità riconosciuta da Kant 1) al riproporsi della domanda, 2) a quella inquietudine che spinge l'uomo a ricercare e organizzare domanda e risposta; un qualcosa che costringe ad ammettere che la domanda è strutturale, connaturata con l'"essere umano" come il vivere e il respirare: Vivere è, anche e inevitabilmente, essere a disagio, interrogarsi e cercare risposte. L'insoddisfazione, e l'ansia accompagnano la ricerca, così come la delusione accompagna i suoi esiti insoddisfacenti, per cui vivere diventa anche la ricerca di un sovraordine in cui la domanda possa trovare, da un punto di vista teorico, una soluzione e, da un punto di vista emotivo, una situazione di sollievo.
Per Kant il riproporsi della domanda trovava una sua giustificazione in un rinvio di senso che consisteva in nell'indirizzarci ad assegnare alle verità, di cui siamo già in possesso, un posto in quella risposta totale che non potrà mai arrivare.

Ma può, a questo punto, essere considerato insensato ciò che, confutato come insensato, si ripropone inesorabilmente sotto forme solo apparentemente diverse? Se questo riproporsi di domanda accompagna la nostra vita come il respirare, è forse sotto questa ottica che va giudicato il senso della domanda metafisica? Il riconoscimento di un qualche senso alla domanda non implica forse uno stesso riconoscimento a una sua possibile risposta?
Appena si tenta di sciogliere questo nodo, ci si accorge che il vero nodo è un altro e che il senso deve porsi in riferimento a tre diverse questioni:
1) se sia sensato in se stesso il porsi della domanda;
2) se sia sensato il contenuto della domanda;
3) se ci siano possibilità di senso nelle risposta.

Kant partiva da un modello "scientifico" che considerava vero e da innumerevoli modelli metafisici, le cui contraddizioni rivelavano la loro intrinseca falsità. Dopo aver accertato l'inconsistenza delle "idee" metafisiche, avrebbe potuto fermarsi, ma non lo fece. Ritenendo di aver dimostrato che le idee metafisiche (dovute a un uso trascendentale della ragione) erano errate, antinominiche o inconcludenti, perché continuare?
Il limite della ricerca di Kant sta nel suo illuminismo eppure, nonostante ciò, nella sua risposta c'è una nuova luce. Riconosce che la domanda metafisica è insopprimibile per l'uomo, non si limita a registrare questa circostanza ma, la sottopone a indagine: perchè la domanda metafisica? Perché si rinnova? Lo spirito con cui Kant si pone le domande è quello tutto moderno di assegnare un senso a questo comportamento.

Di "senso" si può parlare in varie maniere; lo si può assegnare (rinviare a, riferire) a una finalità o a una serie di cause o più in generale identificarlo con una posizione entro un quadro di connessioni. Kant in questa assegnazione è sì prigioniero della cultura del suo tempo, ma, nello stesso tempo, affronta la ricerca convinto che un "senso" ci deve essere e che questo senso deve connettersi con tutti gli altri nell'ambito dell'attività umana. Il problema che Kant si pone è quello di una "grammatica" del senso anche se, disgraziatamente, la totalità entro cui cerca di individuare questa grammatica è esclusivamente la sfera intellettuale.
La risposta è, dunque, intellettuale: la domanda metafisica è un'esigenza che si pone per unificare quelle regole dell'intelletto sotto le quali si attua la conoscenza. L'intelletto, venuto a conoscenza mediante quelle sue regole, in virtù delle quali l'"io penso" ordina sotto categorie le intuizioni sensibili, viene a trovarsi con conoscenze, che, per quanto generali, sono pur sempre limitate e come sospese nel vuoto. In questa situazione non può non nascere un senso di disagio intellettuale che spinge verso assoluti.
La ricerca di Kant assume ora la forma di una ricerca sulla patologia delle domande e delle risposte metafisiche. L'esito di questa indagine ci dice che tutte queste tipologie sono riconducibili a degli assoluti che si presentano come idee che compendiano ideali: un assoluto oggettivo (il mondo) e un assoluto soggettivo (l'anima) un assoluto (Dio) che li ricomprende e a cui sono entrambi subordinati. Questa tipologia di risposte, unificate sotto un assoluto, sono a loro volta provocate da una tipologia di domande anch'esse riconducibili a quell'unica "malattia" che fa si che non ci si possa fermare e trovare pace se non quando si sia raggiunta una risposta definitiva e totale.
E' la stessa necessità di assoluti che ci spinge per ogni legge fenomenica a chiederci quale sia il posto di quella legge nella totalità delle conoscenze, la stessa che ci spinge a cercare le cause, le cause delle cause ecc. fino alla causa che è causa di se stessa. La domanda non si placa fino a che la risposta non si ricomprende, fino a che non viene raggiunta una fondazione che, essendo autofondante, non necessita a sua volta di fondazione e chiuda la catena.
In riferimento alle tre domande di senso poste in precedenza, Kant non dà una risposta diretta, ma, dagli esiti raggiunti dalla sua ricerca, si può dire che avrebbe dato risposta negativa alla terza e positiva, almeno condizionatamente, alle prime due.
La prima domanda può essere intesa in due maniere: secondo la prima il senso va riferito al fine, secondo la seconda al causa (alla sopravvenienza, al sorgere, al perché di questo sorgere). La prima, che può essere riformulata circa il fine per cui noi ci domandiamo, è il quesito a cui risponde Kant. Un Kant che neppure si pone, neppure prende in considerazione, l'origine, alla genesi della domanda. I due sensi si inseriscono in due grammatiche differenti e divergenti.
In sostanza Kant indaga non sul perché del generarsi di questa domanda, ma sulla sua funzione, funzione che individua nell'attività unificante della ragione. Ma qual è la funzione di queste idee che, ricapitolando questa attività unificante, vengono sostanzializzate erroneamente nelle idee del mondo, dell'anima e di Dio? Queste grandi illusioni vengono ad assumere, secondo Kant, uno scopo positivo perché, esercitando una spinta verso l'unità della ragione, indirizzano e stimolano la ricerca. Questa funzione positiva si verifica, non in opposizione all'errato uso trascendentale della ragione, ma in virtù di questo uso.

Questa conclusione ci dice che solo perseguendo l'insensato possiamo ottenere il sensato e che senza questa problematica (non importa se solo ricercata e illusoria) unità della ragione noi non otteniamo quell'unità dell'intelletto fonte della scienza, della verità e del senso.
Questa concezione, questo circolo virtuoso che dà una fondazione alla verità "sensata", ma la dà fondando il "sensato" sul "non sensato", anche se su "un non sensato" problematico, è l'idea rivoluzionaria di Kant,. Non si ottiene l'uno senza l'altro. Non si ha senso senza attività di non senso, non si ottiene scienza senza attività di domanda metafisica e di tentata risposta metafisica.
Qui sta l'eccezionale modernità di Kant. La filosofia tradizionale non trovava altra strada di fondazione che la declinazione del paradigma della causa incausata, del motore immoto ossia in quelle arbitrarie interruzioni delle catene di fondazioni per mezzo di vere e proprie entità contraddittorie a cui veniva data una realtà ontologica, Kant rifiuta tale fondazione e non solo riconosce la non eliminabilità dell'insensato, ma individuando in esso il principio problematico del senso, fonda il sapere esprimibile ed espresso, depositabile e depositato come terminale statico di un'attività che nulla deposita che non sia insensato e di cui nulla si può dire che non sia problematico.

Kant non va oltre. Non si chiede perché l'uomo dovrebbe perseguire questo sapere, perché lo persegue, chi gli ha insegnato o come è giunto a perseguirlo.

Il vizio, il peccato originale di Kant riguarda l'attività stessa dell'uomo in quanto teorizzante. L'attività teorizzante dell'uomo nella filosofia trascendentale non trova motivazione né giustificazione, ma cade dal cielo. Questa considerazione vale sia per la domanda che Kant giudica metafisica e "insensata" sia per quella giudicata fisica e sensata.
Ciò che Kant non coglie è che l'indagine sulla domanda metafisica va rinviata al senso della domanda in se stessa indipendentemente dalla distinzione tra il metafisico e il non metafisico e, più in generale, al senso del teorizzare.
Diamo per scontato che sia l'uomo a interrogarsi, ma di certo sappiamo solo che la domanda si pone e si ripropone, che sicuramente risuona dentro di noi singoli individui, che noi sentiamo questa domanda e ne comprendiamo il senso. Diamo per scontato che coercitivamente dobbiamo ascoltarla e affaticarci per dare una risposta e non ci spingiamo oltre. Il fatto che questo comportamento sia "utile" appare contingente e il fatto che l'uomo l'abbia adottato appare un regalo del cielo. Non sappiamo chi è il soggetto che s'interroga, non sappiamo chi pone la domanda. Non sappiamo se è essa stessa a porsi, se siamo noi a porcela o qualcuno esterno a noi. Ma, soprattutto, non conosciamo il "senso" della domanda. Crediamo di capirla e questo lo chiamiamo "senso", ma questo "senso" lo è solo per noi, legato al paradigma stesso secondo cui noi interroghiamo noi stessi sul nostro senso d'interrogarsi. Non lo capiamo anche perché abbiamo isolato la sfera intellettuale della domanda e adottato un comportamento strabico verso il vivere che accompagna la domanda.
L'uomo di Kant, il luogo in cui si pone la domanda, è pur sempre l'uomo intellettuale dell'illuminismo. E' quell'uomo illuminista e discendente dall'umanesimo che ha convogliato nella ragione come valore supremo, come ultimo tribunale la rinata fiducia in se stesso. Eppure questo nuovo principio, non potendo che poggiare su un se stesso che fluttua, dovrà obbedire a precedenti e ben più potenti costrizioni di verità e risulterà formidabile paradigma demolitore di ogni fede, anche della propria.
Ma in Kant la "Ragione" non ha ancora percorso il lungo cammino autodistruttivo. Il suo uomo è quello che ha imparato a vincere, che ne ha tratto fiducia e che sa di poter tutto aggredire e ricondurre a informazione, anche le condizioni del conoscere, anche le leggi del senso. L'uomo di Kant si riduce all'uomo trascendentale, che, per un verso, è stirpe, ma lo è solo in quanto omologata dalla ragione in quanto ragione. Ciò che non convince è il clima asettico dell'attività unificatrice, ma non assimilatrice, conoscitiva, ma non violenta. Non convince lo schema funzionale di categorie e forme pure concepite come rigide, eterne, immodificabili, ma, soprattutto, non convince il suoi "io penso". L'incompletezza dell'analisi del significato del "non-senso" non sta nella soluzione, ma ha le sue radici nell'inumanità dell'uomo di Kant.
L'uomo di Kant non è l'uomo con cui veniamo a contatto tutti i giorni, ma una sua parodia intellettuale; è un uomo violentato e visto sotto la funzione dell'uomo pensante: non solo un uomo a una dimensione, ma un uomo rigidamente ed eternamente a una dimensione, un uomo sezionato, assimilato e poi congelato.
L'uomo di Kant è certamente l'uomo storico, ma la sua storia è quella dei documenti scritti dell'uomo civilizzato, quella delle ultime migliaia di anni. Solo questa cultura, ancora ignara di ogni concetto di evoluzione, gli permette di inferire, vedendo in essa una costante uniformità, un'immutabile ed eterna uniformità. Kant scambia il simulacro dell'uomo con l'uomo stesso e l'eternizza. Gli manca, né poteva essere altrimenti, quella dimensione storica dell'evoluzione biologica che si perde nella storia dell'uomo mammifero, rettitele e cellulare.
Così una dimensione dell'uomo, quella conoscitiva, diviene l'unica. "Un" modello diventa "il" modello totale, l'informazione diviene verità: verità parziale, ma pur sempre verità. Non viene colta la dimensione verità-informazione in connessione con la dimensione assimilatrice. Kant non riconosce, accanto alla conquista, la perdita, non vede che la funzione informatica non è spirituale, ma di sopravvivenza, come la respirazione. L'uomo kantiano non è un uomo che vive e respira.

Di fatto noi viviamo non in un solo mondo dei fenomeni, ma in innumerevoli modelli stratificati, di modelli di questi modelli ecc. Noi assimiliamo il mondo secondo le teorie e contemporaneamente ci affacciamo su un mondo che non è altro che la sedimentazione più o meno organizzata di tutte quelle assimilazioni che sono accadute vincenti nell'opera di orientare l'azione degli uomini. Uomini che in questo coacervo di teorie chiamate "il mondo" hanno vissuto e sono sopravvissuti, assimilandolo in teorie.
Non prendendo in esame l'attività del modellizzare, Kant irrigidisce la struttura della conoscenza, non cogliendone l'attività che lavora, seziona e assimila, cade nel tranello che esista un mondo, (che diviene problematico), che esista un modello di mondo dei fenomeni (che diventa il tutto conoscibile). In Kant è presente ambiguamente una preconoscenza che, secondo lui, è la forma, la possibilità, la condizione logica della conoscenza, ma questa forma non è la sedimentazione di quell'agire teorico, di quell'agire che crea le vie di accesso al mondo, di quell'agire vivo perché è rivelato vitale.

I limiti sono in quello schema Io Trascendentale -Teoria vera - mondo che diviene paradigma concettuale da declinare verticalmente. Kant prende in considerazione solo la patologia della domanda metafisica e non della domanda in generale. Proprio questo esame parziale impedisce a Kant di vedere che una domanda di questo genere che, confutata nel suo essere domanda, continua a porsi non può essere posta da noi. In realtà noi possiamo solo registrare che la domanda risuona, agisce, s'impone dentro di noi come soggetto autonomo e attivo.
Rispetto al nostro essere di abitatori del mondo la domanda è un soggetto autonomo. Un soggetto che s'impone, un soggetto che ci costringe a comunque a udire il suo domandare e a comprendere ciò che domanda. La domanda prevale come soggetto che supera la nostra ostilità, come altro da noi, come alieno..
Ma, allora, chi pone questa domanda dentro di noi? Chiamiamolo dio, chiamiamolo stirpe, chiamiamolo Essere, la sostanza non cambia: quella domanda è aliena a quel "noi" che la confuta e la riconosce insensata.

Eppure la tradizione filosofica ci dice che siamo noi a interrogarci. Ma interrogare se stessi non è forse schizofrenico? Sembra quasi che qualcosa ci imponga questa conclusione e che questo qualcosa sia la forma linguistica della domanda. Sembra che sia il linguaggio a imporci un paradigma da cui non possiamo uscire e ci conduca come soggetto autonomo lungo un solco già tracciato. Il contesto semantico esige che, essendoci una domanda, ci sia, oltre il contenuto della domanda, un essere che domanda e un essere a cui la domanda è posta. Ma è proprio questo paradigma a portarci nel circolo vizioso; noi domandiamo nella forma della nostra domanda, noi rispondiamo in quella stessa forma di cui solo siamo capaci e l'oggetto della domanda è proprio quell'essere inscindibile e unitario che non può essere né domandato né afferrato dalla risposta. E' più semplice pensare che non siamo noi a riproporre la domanda, e che questa si ripropone da sola con incredibile autorità. Constatiamo che non siamo liberi di rinunciare e cacciarla, che la domanda risuona in noi e c'interroga con prepotenza; che si pone con determinazione, INDIFFERENTE all'inquieto disagio che essa stessa ci infligge. Ma - e questo è fondamentale - se la domanda è soggetto, se il linguaggio ci conduce a un soggetto schizofrenico, non possiamo attribuire quella schizofrenia a quel singolo mortale che è ognuno di noi, quando sia la domanda, sia il linguaggio lo precedono. Domanda e linguaggio agivano prima che ogni "noi" singolo mortale venisse vissuto dal linguaggio e dalla domanda.

LA DOMANDA TOTALE
La domanda che risuona non è solo quella metafisica che giudichiamo insensata, ma il tessuto in crescita delle domande. Una domanda rivolta verso sempre nuovi territori di conquista; un autovalore, strutturale con il vivere, che si pone vincente come realizzazione del destino dell'impossibilità di permanere in vita se non come conquistatori.
E' il successo della risposta, la sopravvivenza della risposta e dell'essere in cui s'è posta, a legittimare la sensatezza della domanda, del suo paradigma e del suo metodo. Anzi, è il successo della risposta a riconfigurare la forma della domanda che viene così assimilata ai precedenti successi e fornita di quel 'senso'; è questo paradigma vincente a proporsi come norma del sensato e come orizzonte del senso.
La strategia dell'Essere informatico è la domanda a tutto campo spinta con quella determinazione e volontà pari alla volontà di vita. Si potrebbe dire: è sopravvissuta la propensione della domanda in maniera tanto forte da non poterla confinare nel sensato, ma sarebbe un errore: il cosiddetto domandare "insensato" non è un sopravanzare del sensato.
La domanda a tutto campo precede ogni distinzione fra senso e non senso, perché questo è il tipo domanda che si è dimostrata vincente e sopravvivente. Una domanda multipla che precede tutte le determinazioni di senso perché ignara di tutte le determinazioni di senso.
E' un sentimento di domanda che risuona, che si agita, che spinge, come se l'essere interrogante, che si è selezionato, non avesse di per sé un oggetto, ma fosse un programma affamato di un oggetto. Un essere senza domandare non sarebbe un essere vivente come uomo.
La domanda a tutto campo con l'ansia che l'accompagna quando non riesce a porsi in maniera articolata o quando vaga alla ricerca di un oggetto, è la domanda vittoriosa, quella di cui il dire: "E' non senso" oppure il dire "E' senso" è di per sè insensato.

La domanda si pone e si fa udire e comprendere. La comprendiamo anche quando l'oggetto è lo stesso domandarsi e il senso dello stesso interrogarsi. Il bisogno di domandarsi trova il suo estremo di senso nelle forme i cui prototipi sono proprio: "Perché l'essere è?", "Qual è il suo senso?".
Le domande sul senso e sui suoi confini fanno parte della domanda totale e esprimono un'esigenza normalizzatrice e d'ordine. Esprimono un accadere di sopravvivenza nel conosciuto della casa simbolica. Un tentativo di costruire il futuro su regole sperimentate nel passato, affinché il ricercare e il domandare non siano un inutile e vano agitarsi. Esprimono un disagio verso un domandare percepito come un disordinato, inutile, rumoroso disorientamento e chiedono una disciplina al tipo di domande.
La domanda sul senso è sempre conservatrice, normalizzatrice, repressiva. Questo non vuol dire che sia "negativa" perché anch'essa è parte della vincente domanda a tutto campo. E' un'attività di retroguardia, ma fondamentale per costruire una casa simbolica rassicurante. La domanda fa parte del nostro uso del mondo e la richiesta d'ordine e di quiete è parte di quella casa protettrice simbolica che con le domande e le teorie opponiamo a un mondo sentito come indifferente, ostile o minaccioso, perché sconosciuto.
Da una parte la domanda si espande come varietà, come innovazione, come conquista mentre dall'altra chiede di organizzare il già noto, di normalizzare quest'organizzazione e di estendere l'organizzazione così normalizzata alla domanda che ancora si propone. La domanda di senso è una richiesta d'anestesia verso ogni nuova inquietudine la cui identificazione non sia già in forme rese canoniche dal loro successo.
In questa accezione normalizzatrice, la domanda si interroga sul senso e sul non senso, sui confini e sulle procedure. Ma ponendosi in questo modo anche la domanda normalizzatrice fa, di per sè, parte della domanda generale a tutto campo e non si presenta come opposizione conservatrice. Semplicemente si registra che nelle forma del linguaggio d'informazione accade con successo di assegnare un senso a una distinzione innovazione-normalizzazione che di per sè è posteriore alla domanda circa la classificazione della domanda.

In definitiva potremmo dire con Popper che ciò che ieri era metafisica oggi è fisica, che la fisica è nata, si è evoluta, sulle basi della domanda metafisica e che il senso è nato dal "non senso"; potremmo dire con Kant che il non senso problematico fonda il senso certo, ma non è questo il punto. Tutto questo non ha a che fare con il risuonare della domanda. Ha senso come riflessione informativa per l'utilizzo della domanda.
La domanda a tutto campo:
1)rinvia al di là del senso e del non senso e in questo senso risuona in noi come soggetto primario indifferente a ogni nostra inquietudine e a ogni nostro rifiuto;
2) rinvia al di là della codifica delle teorie scritte, al di là della trasmissione per simboli, al di là dell'uomo pietra, dell'uomo rettile e mammifero;
3) rinvia alle teorie che non abbiamo mai conosciuto, ma abbiamo adottato lungo la lenta e difficile trasmissione genetica;
4) rinvia alla lotta e alla selezione delle teorie e delle domande; rinvia ad un accadere che s'impone a tutti i nostri tentativi di estinguerla, imponendo le nostre determinazioni di senso.
6) rinvia a quella schizofrenia fra quell'essere singolo e mortale che siamo noi e l'Alieno, vincente, indifferente, cieco immortale che la fa risuonare in noi.

LA DOMANDA COME SOGGETTO
L'oggetto del problema non è dunque la domanda metafisica, ma la domanda a tutto campo o meglio il domandare in se stesso, quel sentimento che si pone in noi e crea i presupposti perché il domandare si espliciti in forme informative, si faccia udire e comprendere.
Noi colonizziamo il mondo, rispondiamo alla domanda, respiriamo con essa, perseguiamo il nostro destino di perdita e di dominio, c'interroghiamo su questo risuonare e moriamo. Ma la domanda non muore con noi, si ripropone in altri-noi-singoli-mortali specializzandosi e tuttavia rimanendo integra. Il nostro destino di informatici, di perdita, di tirannia, di domanda si prefigura al di là del nostro vivere e del nostro morire di essere singoli, al di sopra del nostro essere viventi mortali. La domanda, come la vita, come l'umanità, ci vive, imponendo il suo destino di eterno domandare sull'essere, che è in tutti i sensi un essere immortale di cui noi siamo le specializzazioni mortali sulla cui selezione si attua quel destino di sopravvivenza e di dominio.

Chiamiamolo umanità, chiamiamolo specie, chiamiamolo stirpe, chiamiamolo mondo, linguaggio o Essere, l'Essere immortale è Soggetto. Una volta riconosciuto questo primato, questa alienità, questa sfasatura di senso, è riconosciuto il nostro destino schizofrenico di senso.
Il parlare di Essere immortale e di essere mortale, come il parlare di mondo, di essere, di soggetto, può apparire una mostruosità ontologica viziata di metafisico "non senso", ma a parte l'insensatezza stessa di esprimere un giudizio in tal forma, noi capiamo questo "parlare". Lo capiamo come tutto il resto del nostro parlare: è un camminare su un binario consolidato ed è pure un messaggio: noi ci troviamo in un accadere in cui noi figuriamo come soggetti in un mondo che si contrappone come oggetto di conoscenza. Questa è la strategia vincente dell'accadere dell'essere informatico. Questo è il paradigma ontologico (vincente) del vivere dell'Essere che si prefigura come immortale sulle generazioni del nostro morire come singoli. Il nostro vedere così il mondo è il testimone vivente della conquista come specie e della perdita come singoli. Il nostro dolore dell'esistere è il vivere un destino di non senso che si afferma come destino d'interrogarsi informatico.
L'essere immortale ci vive anche nella libertà della morte, anche nel superamento del nostro dolore e della nostra disperazione. Disperazione e dolore che non sono suoi, ma nostri. Su questi lui ci vuole ciecamente vivere. La struttura dell'Essere immortale che è noi, ognuno di noi, ma è anche l'alieno che abita in noi, una cieca organizzazione che ha il suo senso che non è il nostro senso. Un senso il cui paradigma noi singoli stiamo imparando a decifrare in tutto il suo cieco e ottuso procedere.

IL DESTINO DI SCHIZOFRENIA.
Il nostro interrogarsi è un serpente di senso che si morde la coda. L'essere che è in noi si è costituito come immortale come essere informatico di conquista. Il destino che ci impone è la domanda a tutto campo nella forma vincente dell'informazione. E questa domanda, dolorosamente e a disagio, si ripiega su se stessa, interrogandosi, sempre nella forma assimilatrice dell'informazione, sul proprio senso e quindi sul "senso" del vivere del singolo. E' l'essere immortale a porre la domanda, ma questa domanda non può che risuonare dentro il singolo perché l'essere immortale non ha altra cassa di risonanza che l'essere mortale.
La domanda sul senso e la sfasatura del senso sono il vivere questa schizofrenia.
La domanda sul senso del nostro vivere è, di per se stessa, un risuonare doloroso per noi singoli mortali. Essa è, in se stessa, folle perché si pone un problema di senso, che è il problema del senso del nostro vivere, in una forma e secondo certe norme, che sono il risultato stesso del suo sopravvivere come immortalità. Questa domanda risuona nel singolo come un tipo di agire che è malattia per l'essere immortale. Una malattia riconosciuta dai due esseri, necessaria per l'essere immortale, dolorosa e tragica per il singolo che riconosce il suo essere vivente insensato.
Questo fatto è generale. Il singolo è vissuto come destino dell'essere immortale e lo è nel suo essere vissuto come perpetuarsi di questo destino di malattia dell'essere.

L'Essere non può non interrogarsi perché la sua domanda è a tutto campo e il suo destino di dominatore sopravvivente è proprio in quel domandare a tutto campo, senza limiti. Così la domanda sul senso del proprio vivere non può essere evitata. Il domandare totale e cieco è il programma di sopravvivenza, la fonte del vivere come dominanti e questo destino di sopravviventi dominanti ci dice che se la domanda non ci fosse e non fosse in quella forma che si disgrega fra le mani, non ci sarebbe neppure l'uomo in quel suo Essere immortale. Se l'accadimento fosse stato limitato, semplicemente la domanda non ci sarebbe stata e l'uomo non sarebbe: la domanda è di per sè totale e non può che essere tale.
L'essere non può che continuare a perseguire il suo destino di interrogare informatico e il luogo di questo accadere e risuonare non può che essere il singolo. Questo accadere è, in questa concatenazione destinale, l'essere singolo mortale come luogo della malattia dell'essere.
ES - 17 maggio 2013

moses - marzo 2013

CONCETTUALITA' DESTINALE
Pensatori citati
Kant, Popper
Concetti citati
Domanda metafisica, confini di senso, possessione, domanda a tutto campo, domanda come soggetto