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L'etica di Aristotele
Ci sono giunti tre diversi trattati di etica riportabili a Aristotele. Il primo, Etica Eudemia, è scritto in forma più concisa e quindi risulta meno chiaro. Il secondo, Etica Nicomachea, è certamente il più letto e studiato; il terzo, Grande Etica, è molto probabilmente un prodotto della scuola e non fu quindi composto da Aristotele. Tra le due Etiche attribuibili sicuramente di Aristotele vi sono anche differenze di approccio e contenuto, ma non si palesano grandi contraddizioni. Il che conferemebbe la giustezza della tesi di coloro che sottolineano la continuità del pensiero dello stagirita rispetto a quelli, come Werner Jaeger, che parlano di un'evoluzione. Possiamo quindi concludere su questo punto: Aristotele scrisse l'Etica Nicomachea perché non era completamente soddisfatto dell'Eudemia e desiderava sviluppare alcuni punti, ma non si tratta di due etiche diverse, bensì della stessa concezione espressa in modo più circostanziato e discorsivo. Esse servirono come base di discussione dei suoi corsi ed è evidente, che nel corso degli anni, egli mise l'accento su tematiche particolari.

Filosofia pratica e "saggezza": una differenza importante
La filosofia di Aristotele si può a grandi linee distinguere in due parti: quella relativa alla conoscenza del mondo esterno, fisico e metafisico, definibile come filosofia teoretica, perché ha come fine esclusivo la conoscenza ed il metodo della conoscenza, quindi la theorìa, lo studio, ed una filosofia pratica avente come fine la riflessione su tutto ciò che riguarda l'uomo: le sue azioni, le sue produzioni, le sue relazioni sociali e politiche.
La filosofia teoretica ha per sua stessa natura la ricerca della verità, di come cioè stanno le cose per necessità e non possono stare diversamente.
Al contrario, ma non del tutto, la filosofia pratica non ha una pretesa scientifica, non è episteme praktike, termine che non impiega mai. Si serve piuttosto dell'espressione he peri ta anthropeia philosophia (la filosofia delle cose umane), la quale tien conto delle differenze specifiche e della imprevidibilità, cioè della libertà che rimane ad ogni singolo che delibera sulla sua condotta, anche quando questo gode di poca libertà, ed è afflitto da molte incertezze.
Ma, a questo riguardo occorre un'ulteriore specificazione, bisogna cioè distinguere tra la filosofia pratica vera e propria, che ha comunque ancora per oggetto la verità, anche se in senso diverso, ovvero è una ricerca di verità pratica, dalla "saggezza" o "prudenza", cioè la phrònesis, che viene considerata come una forma particolare di sapere che in ogni momento ci mette in grado di deliberare su quale sia il mezzo più adatto per raggiungere un determinato fine. In altre parole: la filosofia pratica, pur non essendo scienza a pieno titolo in quanta si basa sul "per lo più è così", ci mette in condizione comunque di individuare il fine, indiscutibilmente buono e retto, e se il fine è tale, si ha una verità pratica che ha un qualche valore universale, ad esempio gli uomini di senno cercano il bene ed evitano il male..
La phrònesis, proseguendo il ragionamento, si muove rispetto alla contingenza, tenendo quindi conto che lo stesso fine "retto e buono" non può essere raggiunto con gli stessi mezzi e gli stessi comportamenti in ogni tempo ed in ogni luogo.
Per capire meglio questo elemento; Aristotele ricorre a due esempi concreti: Pericle e Socrate. Il primo fu un modello di saggezza, non certo un filosofo. Ma perseguendo un fine retto e buono, il bene degli ateniesi, egli si mostrò particolarmente abile nel scegliere i mezzi adatti.
Il secondo fu invece propriamente un filosofo pratico, il quale in qualche modo cercava le verità pratiche, il bene dell'uomo indipendentemente dalle circostanze..

Una seconda differenza importante nell'etica di Aristotele è quella che corre tra azione (pràxis) e produzione (pòiesis). La prassi è fine a se stessa, la produzione ha per scopo, Aristotele dice causa finale, un oggetto prodotto, un'opera d'arte, od una merce, od anche uno scritto.
Questa distinzione porta Aristotele ad affermare che il bene dell'uomo non può essere prodotto, non può dunque rientrare nella sfera della produzione, perché essa ha per fine qualcosa d'altro. Per questo motivo, la filosofia, volendosi occupare del bene dell'uomo, deve occuparsi delle sue azioni e della politica, che è la ricerca del bene e del vivere bene nella dimensione della città e dello stato.
Ma prima ancora di occuparsi di politica, cioè del bene comune, Aristotele intende trattare del bene del singolo uomo, in un senso fondamentale. Ogni uomo dovrebbe conoscere il "suo" bene, indipendentemente dalle circostanze politiche.

Il fine dell'etica
C'è un passo dell'Etica Nicomachea che esprime molto bene quali siano gli intenti fondamentali di Aristotele, quando scriveva di etica: «...la presente trattazione non si propone la pura conoscenza, come le altre, infatti non stiamo indagando per sapere cos'è la virtù, ma per diventare buoni, perché altrimenti non vi sarebbe nulla di utile in essa.» (E.N. - II) Questo è certamente lo scopo della filosofia pratica, lo è diventato da Socrate in poi, ma se Aristotele ritiene di dover dar vita ad un altro tipo di trattazione, è perché i Dialoghi platonici e l'insegnamento socratico hanno lasciato non pochi motivi di insoddisfazione. In particolare, potremmo definire quelle carenze sotto il titolo della mancanza di praticità.
Discorsi di carattere generale con pretese universalistiche, infatti, raramente colgono la specificità del qui ed ora, del cosa dobbiamo fare noi.
Dato tale scopo pratico, i discorsi universali rischiano di risultare vuoti. «Si devono dire queste cose - scrive Aristotele - non solo in generale, ma le si deve applicare anche ai casi particolari, infatti nei discorsi che riguardano il campo della prassi, quelli universali sono più vuoti, quelli particolari più veritieri. Infatti le azioni riguardano i casi particolari, ed è necessario adeguarsi ad esse.» (E.N. - II,7)

Felicità e virtù
Le singole azioni umane, secondo Aristotele, sono sempre volte a realizzare un bene, che rappresenta il loro fine. Solo alcuni beni, tuttavia, rappresentano un valore in sé, possono dirsi fine in senso proprio. Molti altri sono solo un fine mediato e diverso: sono strumenti e mezzi per raggiungere il fine primario. Il quale è rappresentato dalla felicità, eudaimonìa. Su che significhi felicità in Aristotele sono sorte controversie non da poco.
Alcuni studiosi di area anglosassone hanno recentemente cominciato a tradurre eudaimonìa con flourishing, ovvero "crescita vigorosa, fioritura", ma questo non sembra molto corretto. Del resto, non sembra corretto nemmeno l'intento di chi vorrebbe limitare il significato della parola ad una condizione di appagamento e contentezza fondata sul raggiungimento del completo controllo della mente (dell'anima, della psiche) sul corpo. Si tratta di una interpretazione socratico-platonica, che certamente non fu estranea ad Aristotele per lungo tempo, ma che non soddisfa la realtà del suo pensiero più maturo. Chi scrive queste note è persuaso che egli intendesse per felicità la più completa realizzazione di sé. Ovviamente, parte fondamentale di questa realizzazione, è il perfetto funzionamento delle proprie facoltà psichiche ed intellettuali, le quali portano naturalmente alla virtù ed all'eccellenza. Ma non è tutto. Proprio secondo Aristotele, buon conoscitore dell'arte medica, alla base di un corretto funzionamento della psiche ci sta la salute ed il vigore fisico. Si passeggia in vista della salute, usava dire, al punto che molti dei suoi insegnamenti venivano dati non dal pulpito, ma passeggiando con gli allievi nel Peripato. Passeggiare è quindi un mezzo per raggiungere un fine, la salute, la quale è a sua volta, sia un fine particolare e desiderabile in sé, sia un mezzo per il bene supremo che è la felicità.
Altri mezzi, che comunque costituiscono anche un fine secondario desiderabile, sono l'avere un bell'aspetto, una buona famiglia, ottimi amici, vivere in una città ben governata ed infine, last but not the least, essere dotati di una certa ricchezza. Tutto questo non da la felicità, sembra dire Aristotele, ma come in un piatto buon cucinato arricchisce di gran lunga il sapore della vita. Sono tutti ingredienti di una ricetta ben congegnata.
Pertanto, è certamente legittimo procedere ad una problematizzazione di cosa sia la condizione felice, essendo questo l'intento dello stesso Aristotele, perché in nessun caso si potrebbe leggere Aristotele e la sua etica in senso normativo o puramente normativo, in chiave esclusivamente universalistica.
Di veramente prescrittivo, nel senso che è posto come fine ultimo in un certo senso indiscutibile, vi è solo il conseguimento della felicità. Ma questo fine non è posto in discussione nemmeno dai sofisti o dalle scuole socratiche più eccentriche e materialistiche. Si da insomma per scontato che solo un altissimo grado di stoltezza o di demenza possa rendere desiderabile l'infelicità.
Per Aristotele, ovviamente, la felicità ha comunque un significato diverso rispetto alle scuole anteriori e posteriori. Non è quello degli stoici e nemmeno quello di Epicuro, non è l'ascetismo di Platone, non è lo squallido edonismo dei cirenaici. E' l'indicazione di un'arte di vivere, applicabile solo a chi gode di una condizione di partenza fortunata, che amministra saggiamente il rapporto tra anima e corpo.
Non avendo caratteri estremistici, è stato osservato che l'etica di Aristotele è sostanzialmente l'etica di un "uomo normale", "integrato nella società, " e quindi di un "filosofo anormale", quantomeno rispetto ai modelli precedenti: Empedocle o Socrate, tanto per fare esempi di vite sicuramente al di là della norma. Un'altra definizione ricorrente è quella di filosofo del "buon senso". Probabilmente è la più appropriata.

Muovendo dal concetto di entelècheia, raggiungimento di una perfezione, possiamo dire che essa consiste nel raggiungimento della piena forma umana, che è ciò che contraddistingue l'uomo dai vegetali e dagli animali, manifestatamente inferiori, e che questa forma umana particolare è la razionalità.
Esercitando la razionalità, sua prerogativa specifica, l'uomo scopre, anche autonomamente, che una vera felicità non può prescindere dal raggiungimento di una perfezione dell'anima razionale.
Quest'ultima comprende due parti: la diànoia, che è la ragione vera e propria, ed un'altra parte, che pur non essendo ragione, si lascia comunque guidare da essa. Si tratta dell'èthos, cioè del temperamento, del carattere, che ha dunque una componente istintiva e quindi irrazionale. In base a questa distinzione, Aristotele afferma l'esistenza di due tipi di virtù: quelle etiche e quelle dianoetiche.

Le virtù etiche
A proposito delle virtù etiche, Aristotele, anzitutto nota che esse nascono dall'abitudine. Egli quindi parla di virtù come una disposizione permanente maturata, una tendenza a ripetere gli stessi comportamenti.
In questo quadro, afferma la nota dottrina del giusto mezzo tra due vizi opposti. « La virtù è uno stato abituale che produce scelte, consistente in una medietà rispetto a noi, determinato razionalmente, e come verrebbe a determinarlo l'uomo saggio, medierà tra due mali, l'uno secondo l'eccesso e l'altro secondo il difetto.» (E.N. - II,6)
Come riguardo alla conduzione del corpo, si ottiene e si conserva la salute se si evitano gli eccessi, analogamente anche nella vita dell'anima, che sarebbe sempre meglio tradurre come vita psichica, occorre avere presente che, ad esempio, nel caso della viltà e della temerarietà, si danno due comportamenti sconsiderati, l'uno per difetto di coraggio, e l'altro per eccesso. Il giusto mezzo è il coraggio, che è quindi una virtù. Non solo, anche l'avarizia e la prodigalità sono due eccessi: il giusto mezzo, in questo caso, è rappresentato dalla generosità, che è dunque una virtù.
Aristotele è ben consapevole che una dottrina del comportamento non può realizzarsi secondo una misura assoluta e quindi valevole per tutti gli uomini indistintamente. Pertanto spetta alla ragione di ciascuno adattarsi ad ogni situazione in modo mediano ed equilibrato, non seguendo principi matematici ed un'impossibile esattezza, ma un modello di giusto dosaggio, ricavabile piuttosto dalla medicina. Se l'atleta Milone ha bisogno di nutrirsi con molta energia, dovrà mangiare molto più che un vecchio od un ragazzo poco attivo.
In altre parole: anche se il carattere ed il temperamento di un individuo non si possono cambiare,come appunto si cambia d'abito, la ragione ha comunque un suo spazio di governo anche rispetto al comportamento.
Tra le virtù etiche ritenute fondamentali, vi è quella della giustizia. Aristotele ne parla in particolare nel V libro della Nicomachea, e ne aveva parlato nel IV della Eudemea. Aristotele distingue la giustizia in senso generale, una sintesi di tutte le virtù, dalla giustizia in senso particolare, da intendersi come una specifica virtù. Questa virtù particolare interviene nel rapporto con gli altri e da luogo a due differenti tipi di giustizia: la giustizia distributiva a la giustizia commutativa. La prima regola in particolare la distribuzione degli onori in base ai meriti; la seconda è una regola dello scambio tra uguali di parti uguale valore, ad esempio nella compra-vendita. In questo tipo di rapporti è evidente l'importanza del concetto di "equità" che deve regolare sia ciò che è giusto per legge, sia ciò che viene ritenuto giusto per natura.

Le virtù dianoetiche
Le virtù dianoetiche (da diànoia, ragione) consistono nell'esercitare la ragione stessa nel modo migliore. Possono definirisi dianoetiche, l'arte, la saggezza, l'intelletto, la scienza e la sapienza. L'arte non è altro che la capacità di ben produrre. Tuttavia, essa, secondo Aristotele, non ha molto a che fare con il fine della felicità, trattandosi di attività strumentali che non hanno un fine in sé stesse.
Molto più importante è la phrònesis, la saggezza, senza la quale non è possibile individuare il giusto mezzo. Senza saggezza, in generale, non sono possibili le virtù etiche, anche se Aristotele riconosce che la fortuna dei non saggi, porta a volte molto più in là della saggezza stessa.
Certo la saggezza non può essere una scienza, è quindi le sue affermazioni sono opinabili. Tuttavia, il saggio sa cosa è bene per l'uomo e lo mette in pratica.
Nell'Etica Nicomachea, Aristotele distingue varie forme di saggezza, tra cui la politike (VI, 8) e la phronesis propriamente detta, che si interessa della vita del singolo, mentre ancora diversa dalla phronesis è l'oikonomia, la saggezza di chi amministra la casa.
L'intelletto, che rappresenta la capacità di cogliere i principi delle scienze e sia una virtù che una perfezione. La scienza consiste nella capacità di dimostrare a partire dai principi, mostrando e dimostrando le conseguenza che ne derivano.
La sapienza è, per Aristotele, l'unione di scienza ed intelletto. Avere sapienza significa conoscere le realtà più importanti, la natura, il cielo, le cause prime. La sapienza viene così ad essere la filosofia stessa, il massimo esercizio della ragione e quindi, anche la fonte della vera felicità dell'uomo.
Mentre la sola saggezza si occupa, anche nella sua dimensione più alta, del bene dell'uomo e niente più, la sapienza ha per oggetto il bene dell'intero universo, ed è quindi superiore.
Se saggi furono Pericle ed altri governanti, citati da Aristotele, sapienti furono Talete ed Anassagora, i quali si occuparono di studiare cose del tutto inutili al bene dell'uomo, ma tutte meravigliose, difficili e sovraumane.
Sapienza e saggezza sono entrambe desiderabili, ma è solo la sapienza che rende felici in quanto corona il lato più nobile dei desideri umani. Questa complessa relazione tra saggezza e sapienza è paragonata da Aristotele a quella tra salute e medicina. La medicina, secondo Aristotele, non si serve della salute, ma la serve, cercando di procurarla. Quindi è evidente che la saggezza non procura la conoscenza, ma può solo cercare di mostrare per quali vie si può ottenere di saperne di più.
La sapienza è il fine delle nostre azioni più alte. Nell'Etica Eudemia, Aristotele pone la felicità del sapere nel servire e contemplare Dio, pur non essendo Dio colui che ci da gli ordini, bensì ma solo il nostro fine, ciò di cui abbiamo bisogno. Chi ci da gli ordini, infatti, è solo la ragione, in modo da conseguire il nostro fine.
Fatte queste considerazioni, è evidente che la vita migliore, la più appagante in assoluto, sia la vita teoretica. E' la stessa esistenza che Aristotele ha cercato di condurre in modo coerente, e sono qui lapalissianamente evidenti come le scelte personali di tipo etico incidano anche per esperienza sulla visione etica più generale.
Ha dunque ragione chi sostiene che l'etica di Aristotele non sia di tipo deontologico, da dèon che significa dovere, ma teleologica, quindi finalistica, composta di soli imperativi ipotetici del tipo se vuoi, devi. Ma, in tale impostazione, in cui il soggetto è libero di deliberare, è comunque evidente che i soggetti veramente razionali sceglieranno la vita migliore e l'eccellenza.
Alcuni, come Pier Luigi Donini (1), hanno anzi scritto che "la teoria della felicità perfetta è nettamente prescrittiva, perché da il privilegio ad un'attività virtuosa, la 'contemplazione' su tutte le altre. Infatti, secondo Aristotele, nella scelta tra le varie possibili forme di vita felice, la scelta migliore, è quella che privilegia l'attività migliore."

L'amicizia ed il piacere
Secondo Aristotele, si devono distinguere piaceri e piaceri. Pare che nelle discussioni interne all'Accademia platonica vi fossero due linee principali, quella di Speusippo, nettamente antiedonistico, e quella di Eudosso, il grande matematico, assertore della posizione che il piacere è un sommo bene.
In tutti gli scritti etici, Aristotele si fa scrupolo di elencare e descrivere le tesi a favore delle due posizioni, ma presta particolare attenzione alla tesi antiedonistica. Secondo Speusippo, il piacere è un movimento, come tale non può essere un bene od un fine.
La risposta di Aristotele è interessante. Secondo lo stagirita, i piaceri tipicamente umani non sono "movimento" ma attività (VII, 13) e anche che "il piacere perfeziona l'attività", "come un fine che viene ad aggiungersi , al pari dello splendore di chi è nel fiore dell'età".
Il piacere è in generale sempre effetto di un'attività: è quindi conseguente che il piacere più alto sia una conseguenza dell'attività più elevata. E' dunque conveniente, rinunciare, in diversi casi, ad a piaceri ritenuti inferiori che potrebbero ostacolare l'esercizio delle virtù dianoetiche. Ma anche qui, la scelta non è dettata da prescrizioni di tipo universalistico: si tratta di una conduzione consapevole della propria esistenza.
Secondo Aristotele, è indispensabile ad una vera felicità l'avere amicizie, soprattutto nella forma più elevata della philia, che non guarda né all'utilità Nè al piacere, ma solo alla virtù. L'amicizia tra persone virtuose, che soprattutto condividano l'ideale della vita teoretica, le comuni passioni per lo studio e la verità è dunque il meglio che può offrire la vita stessa.

L'uomo akrasico (l'incontinente che agisce contro ragione)
Di regola, osserva Aristotele, chi ha chiari i suoi obiettivi, agisce di conseguenza.
Ma c'è, chi, dominato dalle passioni, non agisce di conseguenza nemmeno rispetto al logico conseguimento dei suoi obiettivi. Prende la via più facile, e più "diretta". "Devia". Occorre una spiegazione. Innanzitutto chiariamo: akrasia significa non fare ciò che si sa di dover fare, e fare ciò che non si deve. E' certamente la questione che imbarazzò non poco sia Socrate che Platone, convinti com'erano che l'uomo fa il male per ignoranza, e che se solo conoscesse il bene, non lo farebbe.
Occorre certamente distinguere tra chi compie un'azione moralmente cattiva e chi segue una strada danneggiando sé stesso.
Potrebbe sembrare problematico convincere qualcuno a non fare il male degli altri perché egli sta inseguendo un suo scopo particolare, costi quel che costi. Tuttavia, Aristotele, seguendo Socrate e Platone, risponde decisamente che ciò che è moralmente buono coincide con ciò che è conveniente anche per il singolo. Dunque, la soluzione ad entrambe le situazioni è razionalmente sempre una sola. Ed è per questo che si ripropone ancora la domanda: perché uno sapendo di farsi del male, se lo fa? E' forse pazzo?
Non è così: la condizione dell'uomo akrasico era diffusa ai tempi di Aristotele come lo è oggidì. Di fronte a ciò, i casi sono due: o la ragione dell'incontinente è parzialmente obnubilata e la sua capacità di giudizio ha perso di efficacia,oppure la passione è talmente forte da spingerlo ad agire in senso contrario alla ragione, nonostante l'individuo si renda conto che ciò è male.
La spiegazione di Aristotele è acuta. Secondo lo stagirita, non è soprendente se un individuo agisce in opposizione ad un sapere ch'egli possiede, ma non a cui non sta pensando. Infatti: «Ma invece, perché noi parliamo di aver scienza in due maniere differenti (si dice infatti che ha scienza sia colui che la possiede ma non se ne serve, sia invece se ne serve), vi sarà differenza tra chi, avendo scienza, bada anche a ciò. n quest'ultimo caso l'essere [acratici] sembra cosa sorprendente, non lo è invece se uno non bada a ciò che deve fare.» (E.N. VII, 3)
Certo è che l'uomo addormentato, ubriaco o pazzo è il più lontano dal suo sapere, mentre la persona sobria può facilmente richiamarlo alla mente. Infatti: «... gli uomini possono avere la scienza in un altro modo da quelli suddetti: vediamo infatti che è una disposizione differente l'aver la scienza e non servirsene; sì che averla in certo modo senza averla, come chi dorme o è impazzito o è ubriaco. E in questo stato appunto sono quelli che si trovano nelle passioni: infatti le impetuosità, i desideri erotici e alcune siffatte cose evidentemente mutano anche il corpo e talune producono anche follie. E' chiaro dunque che si deve dire che gli [acratici] sono nella stessa situazione di costoro.» (E.N. VII)
In sostanza, aver scienza e buona educazione serve a poco, secondo Aristotele, se non sappiamo usarla ed applicarla nella conduzione di noi stessi. Come pappagalli possiamo ripetere a memoria le supreme massime, o i versi di Empedocle, ma nemmeno ci rendiamo conto del loro significato. Occorre tempo, soprattutto per i giovani, affinché la nozione appresa si trasformi in una luce costante capace di orientare il pensiero e le scelte pratiche.

Responsabilità e giustificazione
Un territorio di confine tra la sfera etica e quella giudiziaria è quello rappresentato dalla volontarietà e dalla non-volontarietà delle azioni che abbiano procurato un danno agli altri.
Un buon esempio del pensiero di Aristotele è costituito dall'esame del caso di Edipo, che uccise suo padre, pur non volendo ucciderlo, e pur non volendo nemmeno uccidere qualcuno. Semplicemente, egli reagì in modo eccessivo ad un'offesa ricevuta. Così colpì l'uomo che lo aveva offeso, non per ucciderlo e ignorando che fosse suo padre.
Accadde che: colpì l'uomo intenzionalmente; lo uccise non-intenzionalmente; ed infine uccise suo padre, ignorando che fosse suo padre.
Tutto ciò non richiede nemmeno un grande sforzo di analisi, perché conosciamo i fatti così come sono avvenuti ed essi non sono stati deformati da qualche racconto parziale e frutto di un qualsiasi pregiudizio.
Certo è che se a noi fosse stata raccontata una storia nella quale si ometteva il racconto completo della situazione e nella quale si affermava solo che: "Edipo ha ucciso suo padre", avremmo provato un moto di condanna morale immediato, senza se e senza ma. Il che serve da monito ad appurare sempre le circostanze prima di emettere un giudizio.

L'analisi che Aristotele condusse circa la responsabilità delle azioni è sia molto raffinata e persuasiva che molto insoddisfacente per alcuni aspetti.
Da un lato, egli reclama l'ammissibilità del principio di ignoranza della situazione particolare, come ad esempio Edipo ignorava che il suo colpo avrebbe potuto uccidere. Ma, dall'altro, Aristotele non ammette un diverso tipo di ignoranza del tipo "non sapevo che bisogna sempre essere onesti."
Il che, ovviamente va benissimo, in quanto principio universale (per quanto impreciso), ma non risulta congruo con un tipo di etica che non sembra orientato alla ricerca di un principio deontologico e obbligatorio di tipo universalistico. Preoccupato di salvare il particolare da giudizi universalistici ciechi, Aristotele non vide, a sua volta, l'esigenza di trovare dei principi universali accettabili.
Nel caso particolare di Edipo, potremmo dire che se, dunque, da un lato questi potrebbe essere assolto dall'accusa di parricidio, dall'altro non potrebbe essere assolto dall'accusa di aver commesso un omicidio non-intenzionale, in quanto reagì con violenza, trascurando un principio universale, ormai largamente accettato oggidì, secondo il quale bisogna evitare il ricorso alla violenza. Nei limiti del buon senso. Fatichiamo a trovare ulteriori specificazioni a questa norma che non siano dettate proprio dal buon senso.
In altre parole: potremmo anche accettare di porgere l'altra guancia (con tutti i dubbi possibili) di fronte a provocazioni che concernono solo noi stessi , ma rispetto ad aggressioni che colpiscono altri, in particolare donne, vecchi, bambini, innocenti ed indifesi, porgere l'altra guancia sarebbe da vili, o da irresponsabili, o anche solo da deboli.
note:
(1) Pier Luigi Donini - Etica - in Aristotele - cura di Enrico Berti - Laterza 1997

moses - 1 gennaio 2005