Riministoria© antonio montanari

La leggenda del beato Galeotto

Era fratello di Sigismondo Pandolfo Malatesti

Il 14 settembre 1429 muore a Longiano Carlo Malatesti, marito di Elisabetta Gonzaga. Suo fratello Pandolfo III Malatesti se n’è andato due anni prima, lasciando tre figli naturali, Galeotto Roberto, Sigismondo Pandolfo e Domenico Malatesta ("Novello"). A questi nipoti passa il potere sopra un vasto territorio proprio per merito di Carlo che ne ha ottenuto la legittimazione dal papa, dopo due mesi di difficili e complesse trattative nel corso del 1428.

Carlo ha avuto contro anche il cugino Pandolfo, arcivescovo di Patrasso, figlio del signore di Pesaro, Malatesta Malatesti: quest’ultimo non voleva che quei tre bastardi fossero innalzati alla dignità di eredi del governo di Rimini, Fano e Cesena, che eserciteranno in forma collegiale con Elisabetta Gonzaga sino alla morte di Galeotto (avvenuta il 10 ottobre 1432 nel castello di Santarcangelo). L’arcivescovo ed i suoi fratelli Carlo e Galeazzo promuovono poi un’azione legale in Curia, ma non trovano ascolto.

Da Roma il papa Martino V Colonna (sul trono dal 1417), il 23 gennaio 1430 intima a Galeotto di "devolvere" la sua signoria alla Chiesa. Galeotto resiste, però perde comunque alcuni territori, tra cui quello di Cervia. In cambio (a quanto pare logico dedurre) il papa gli rinnova il vicariato e conferma la signoria. Nel ’31 è eletto pontefice un agostiniano, Eugenio IV che non appoggia i pesaresi come il predecessore, e non dà soddisfazione alle proteste di Malatesta Malatesti contro i tre eredi di Pandolfo.

La signoria ‘consortile’ di Elisabetta, Galeotto, Sigismondo e Novello eredita una situazione instabile: guerre e pestilenze fanno diminuire la popolazione e peggiorano le condizioni di vita della gente. Aumenta soltanto il numero dei poveri.

Galeotto, il più anziano dei tre fratelli, è un principe mite ed amante della cultura, poco adatto all’attività politica. Queste sue caratteristiche vengono esaltate dopo la sua morte: alcuni fedeli chiedono a Sigismondo ed a Malatesta Novello che venga realizzato un affresco nella chiesa annessa al convento di San Francesco in Rovereto di Saltara (tra Fano e Fossombrone), raffigurante il ‘beato’ Galeotto tra i santi Francesco e Sebastiano: in quel convento il giovane ha soggiornato poco prima di morire, tra maggio e giugno ’32. La devozione verso di lui continua negli anni successivi, senza che mai si giunga ad una pronuncia della Chiesa.

A questo ‘beato’ proclamato dalla fama presso i suoi sudditi, è dedicato un intero volume (il quarto) della "Storia delle Signorie dei Malatesti" (Ghigi editore, Rimini), a cura di Antonio G. Luciani e di Anna Falcioni.

Come documenta la glorificazione popolare di Galeotto mai sancita ufficialmente, occorre distinguere le leggende dalla verità dei fatti. Tutto il libro è impostato su documenti inediti, allo scopo di ricostruire le vicende biografiche ed il contesto sociale in cui il giovane Galeotto operò.

Nato nel 1411, egli muore ad appena 21 anni, dopo aver provato anche un’insurrezione dei sudditi nel ’31, lui che per le armi non aveva nessun particolare interesse al contrario di Sigismondo al quale le cronache attribuiscono il merito di esser riuscito, ad appena 14 anni, a sedare coraggiosamente i tumulti. Ma, come osserva la Falcioni, più che ad una notizia relativa ad episodi realmente accaduti, sembra di trovarsi di fronte ad un atto di adulazione nei confronti del signore.

Attorno alla vita del ‘beato’ si sviluppa subito una leggenda che è nota in più codici, studiati fino all’inizio del 1900. Mentre Luciani scava nella psicologia e nella spiritualità del nostro, Anna Falcioni riferisce delle ricerche di carattere economico e politico, concludendo che in base ad esse "la figura di Galeotto Roberto, che le cronache quattrocentesche fanno apparire così timida […], riacquista una dimensione più reale ed equilibrata" se inserita nel contesto della realtà contingente dello Stato malatestiano.


Antonio Montanari

 

Al sommario

All'indice

© Antonio Montanari/Riministoria

Per riprodurre, citare la fonte