Riministoria© Antonio Montanari

Fame e rivolte nel 1797

Documenti inediti della Municipalità di Rimini

1. La crisi del 1796, anarchia e miseria

 

Dopo la pace di Tolentino del 19 gennaio 1797, una serie di disordini si manifesta nelle Municipalità di "montagna" tra Romagna e Marche e nei territori del Riminese. L’episodio più celebre è l’incursione armata compiuta da drappelli di malviventi "montanari" fra il 21 ed il 26 marzo a San Mauro ed a Santarcangelo, allo scopo di "prender il grano" [1]. Messi in fuga dalle truppe francesi, i "sediziosi" si ritirano al Castello di Tavoleto che il 29 marzo è saccheggiato ed incendiato dai soldati napoleonici: muoiono diciotto paesani, tutti maschi tra cui un bambino di circa nove anni ed un anziano sacerdote gravemente malato, don Gregorio Giannini.

L’episodio, al pari di molti altri, è solitamente inserito nel vasto quadro dell’"insorgenza in Romagna" (1796-1801) contro l’invasore d’Oltralpe ed a sostegno dello spodestato regime pontificio. Le notizie inedite che possiamo ricavare dai documenti della Municipalità di Rimini (e che riporteremo dettagliatamente in seguito), ce lo mostrano invece come conseguenza di una situazione di profonda crisi economica, le cui origini politiche sono anteriori all’occupazione francese. L’arrivo dei soldati di Bonaparte non fa altro che aggravare la condizione sociale precaria e squilibrata che già esisteva nel giugno 1796, al primo affacciarsi delle armate repubblicane in Romagna, quale risultato di alcuni fenomeni strutturali, come l’inadeguatezza delle istituzioni centrali nell’azione di governo, e la conflittualità permanente tra il potere romano (incapace di dettare norme rispondenti alle necessità reali), e quello locale, costretto a fronteggiare senza mezzi e risorse le emergenze di vario tipo che si manifestano di continuo nell’ordinaria gestione della cosa pubblica.

Da tali emergenze derivano istanze che sono legate ad interessi di singoli gruppi sociali oppure a particolari situazioni di città e paesi, e che si scontrano prima con un sistema burocratico ormai senza più prospettive, e poi con gli effetti dell’invasione francese. All’apparire di Napoleone, anche nella società civile riminese troviamo una divisione che oppone fazioni repubblicane (ma non sempre filo-francesi) a gruppi conservatori o reazionari. La gestione della vita politica diviene sempre più incerta, a tutto vantaggio dei "conquistatori", e con l’aggravamento delle condizioni delle classi poste alla base della piramide sociale. A tali classi, le quali avvertono immediatamente le prepotenze del nuovo potere, subendo i danni delle requisizioni e dei furti commessi dai soldati, non interessa granché difendere il passato governo, dal quale hanno subìto soltanto torti ed angherie, né tanto meno rimpiangerlo in un inutile sogno di restaurazione, ma soltanto preme di sopravvivere con il ricorso a gesti poi variamente interpretati [2].

A parlare di insorgenti sono ufficialmente le autorità francesi il 6 marzo 1797, per bocca del Comandante della Piazza di Rimini Lapisse, riferendosi ai protagonisti di quanto accaduto nell’Urbinate [3]. La Municipalità di Rimini qualifica come insorgenze le imprese dei contrabbandieri [AP 503, 26.3.1797], dopo aver parlato di "Insorgenti ne’ Territori di San Giovanni in Marignano, e di vari Luoghi limitrofi dell’Urbinate" in una notificazione del 2 marzo, che vedremo in seguito; mentre la Chiesa romagnola, costretta a sposare la causa repubblicana e ad ordinare la "sommissione, e ubbidienza agli ordini della Potenza che comanda" [4], può deprecare soltanto che "lo spirito della discordia, coperto col manto della Religione, abbia spinto un numero di forsennati ad impugnare le armi" [5]. Dopo il tramonto definitivo dell’astro napoleonico la Chiesa riprenderà a considerare i francesi come nemici della Religione, e si ricorderà dei giorni del 1792, quando aveva cercato invano di contrastare la bufera rivoluzionaria che, dopo il successo di Valmy, aveva investito l’Europa [6]. Saranno così considerati insorgenti e sostenitori del potere romano anche quei "tumultuarj, e seduttori" che assieme ad "altri simili Briganti" ed ai "torbidi Paesani", secondo il pensiero di Lapisse, avevano agitato "la quiete, e la tranquillità dei Comuni" nel 1797. Gli storici di parte laica considereranno gli insorgenti in maniera molto diversa, ed in relazione unicamente al 1799: secondo Farini, "la solita vanguardia dei nuovi signori" ("Tedeschi e Papa") è costituita da quegli "insorgenti o briganti" che formano le "orde di facinorosi" che terrorizzano la Romagna [7]. Antonio Bianchi, un cattolico sufficientemente conservatore per non apparire reazionario, rammenta che nello stesso 1799 "molti villani sollevati" fanno crescere il disordine, commettendo "molte ladrerie ed insolenze sotto il manto di proteggere la religione; e da quest’epoca quando si dice un "viva Maria" (motto ch’era sempre in bocca di quella canaglia), s’intende un birbante ladro" [8].

Nella valutazione di eventi come quello di San Mauro, Santarcangelo e Tavoleto, spesso prevale un metodo di indagine che privilegia non l’analisi dei singoli episodi, ma la loro classificazione in corrispondenza di categorie storiche predeterminate e finalizzate alla dimostrazione di una specifica tesi. In tal modo, l’antica e complessa questione su che cosa debba intendersi per "insorgenza", perdendo di vista i dati di fatto, si riduce ad una serie di dilemmi, se quegli eventi siano cioè momenti di ribellione ideologica oppure strumenti di conservazione; espressioni di istanze sociali oppure sfruttamento di primari bisogni economici a scopo politico.

Il termine di "rivolta" usato nel nostro titolo, intende richiamare quei "disordini" e quelle "divisioni" [9] che si presentano come rifiuto della legge, proprio in momenti nei quali non si sa che cosa essa sia, e da quale autorità promani. Questo succede non soltanto nei giorni drammatici del 1797 dopo l’occupazione, quando il potere sorge dalla violenza di un governo imposto manu militari, ma anche nel luglio ’96, allorché dalle località di campagna si chiede un intervento contro "Sedizioni, e Prepotenti" alla Municipalità di Rimini, la quale risponde ai Priori di San Giovanni in Marignano di confidare che qualcuno prima o poi si adoperi per punire "chi turba la pubblica quiete, e non si presta all’obbedienza delle Pubbliche Rappresentanze": "siamo al momento di aver già i Francesi, e di vedere stabilito nel Governo l’Eminentissimo Legato [10]; dagli uni o dall’altro dei quali si attendono gli opportuni provvedimenti", in vista dei quali si raccomanda "la più fine prudenza per tenere dolcemente in freno codesti Sedizioni, e Prepotenti" [11].

Il suggerimento della "prudenza" sembra nascere dall’impossibilità di controllare la vita pubblica. Anche ai Consoli di Talamello [AP 502, 3.7.1796], si esprime analogo concetto. È stata sospesa la spedizione della somma relativa alla contribuzione dovuta ai francesi in base all’armistio del 23 giugno, "per non esporla al furore de’ malcontenti" [12]. La decisione è approvata come epressione di zelo e prudenza. Si propone di effettuare l’invio con sicurezza "in un momento di quiete" e con la scorta del Parroco. (Non sempre il clero, come leggiamo a proposito del "tumulto" di San Vito [AP 502, 8.7.1796], ha la necessaria "cura" di calmare gli animi in rivolta, preferendo darsi alla fuga nel momento del pericolo.) Pure ai Consoli di Talamello quelli di Rimini propongono di avvertire i "dissidenti dell’imminente arrivo in questa Città delle Truppe Francesi, e del prossimo ritorno dell’Eminentissimo Legato nella sua Residenza, onde in riguardo di quelle, e di questo, cessino dalla colpevole loro opposizione al comun destino" [AP 502, 3.7.1796, cit.].

Le due forze nemiche (il Legato e l’invasore repubblicano), per la Municipalità riminese avrebbero potuto vicendevolmente surrogarsi sul campo, anziché eliminarsi in base alla più elementare delle regole politiche, secondo cui il comando lo si esercita uno per volta, altrimenti è guerra con un nemico (interno o straniero che sia). La speranza, non diciamo la pretesa, che i francesi od il Legato punissero comunque "dissindenti", "sediziosi" e "prepotenti", maschera la volontà di non giudicare il significato delle singole rivolte. Si finge di ignorarne scopi e caratteri, ponendo involontariamente le premesse per ipotetiche, beffarde situazioni in cui i "papaloni" avrebbero corso il rischio di esser colpiti proprio da chi sostenevano, così come gli spiriti rivoluzionari più o meno accesi avrebbero potuto incontrare la repressione da parte dei loro idoli in armi. Forse l’aspettativa più caldeggiata era quella che i contendenti si neutralizzassero a vicenda, confidando nell’impossibile equipollenza delle forze in campo. Ma anche questo era un modo di schierarsi ideologicamente contro ogni potere, considerato come estraneo e soltanto repressivo, in un sogno municipalistico [13] che lo Stato coincidesse soltanto con le mura della città, e non si estendesse in quel complesso di legami che rimandano a più vasti orizzonti, troppo spesso attraversati dalle guerre e dai loro bagagli di sofferenze, miserie e paure, duramente sperimentate nel corso di tutto il Settecento.

I Consoli di Rimini confermano la loro sensazione di impotenza in un "Pro Memoria" [AP 502, 12.7.1796] inviato al Governatore della città ed in copia al Legato di Romagna, entrambi espressione della stessa autorità centrale. Rimini è percorsa "continuamente da Forastieri appiedi provenienti dalla parte di Roma, i quali ànno l’aspetto di persone o fuggiasche, o vagabonde". A Roma (lo si è appena appreso dal "corrier di Venezia"), era stata minacciata un’insurrezione ed "i timori non erano per anche cessati". "Questi nuovi incidenti esigono che nel Governo vi sia ora unità, fermezza, e fors’anche severità. Disgraziatamente però accade tutto il contrario".

Al Legato si chiede di pronunciarsi se le "disposizioni esecutive per il buon ordine, e per la tranquillità pubblica" debbano esser emanate dai Consoli medesimi oppure dal Governatore, facendolo ritornare "nella piena autorità" di cui disponeva prima dell’invasione francese [14]. Occorre, si aggiunge, uscire da un’"incertezza" da cui "nasce una debolezza, una lentezza, ed un conflitto nelle provvidenze, che si prendono, che si può temere vada a finire in un’Anarchia" rovinosa.

"La Guardia Civica, che à finora servito con buona volontà, con attività e prontezza", osservano i Consoli nello stesso documento, "è caduta per le anzidette ragioni in un languore pericoloso, e che può fors’anche divenire funesto". Quando il Legato dismette la Guardia Civica, con il bando del 18 luglio [15] con il quale notifica pure il suo ritorno in sede [16], il Governatore di Rimini informa i Consoli [AP 502, 19.7.1796] che il suo ufficio "non è provveduto di un numero sufficiente di Birri" a causa della bassa paga, due scudi al mese contro i sei sborsati dalle città di Bologna, Ferrara e Lugo che così si accaparrano sul mercato gli uomini necessari, lasciandone privi la nostra. I Consoli, a loro volta, con un altro "Pro Memoria" [ib.] avvisano il Legato che, non potendo aumentare tale paga di due scudi, sono costretti a far continuare la Guardia Civica per "non compromettere la Pubblica Tranquillità"; e denunciano che, per il servizio del Bargello, la Comunità paga ogni anno alla Reverenda Camera Apostolica la relativa tassa di 451 scudi (quasi 38 al mese), mentre dalla stessa Camera il Bargello riceve soltanto 8:60 scudi al mese, che debbono bastare per lui, per un "conveniente" numero di uomini e per il carceriere [AP 502, 16.11.1796]. Quei 451 scudi versati a Roma, si sottolinea nel "Pro Memoria", basterebbero per soddisfare una compagnia di sei birri pagati sei scudi al mese, per un totale annuo di 432 scudi.

Lo scarso stipendio passato ai birri provoca il fenomeno delle "estorsioni": "Di fatti è loro costume di mettere in contribuzione i Forastieri, e i Cittadini, esigendo da quelli una mancia pel loro passaggio, e riposo, e da questi generalmente una dose di ogni sorta di comestibili che vendono, o in natura, o in danaro, e talvolta ancora l’uno, e l’altro reiterandone l’esazione, se non per ogni Individuo ammeno per ogni squadra. I gravati si dolgono secretamente per non esporsi alle Loro avanie, e si riffanno della perdita sul prezzo, o sul peso delle robbe che vendono" [17].

I Consoli riminesi si trovano costretti dal Legato [18] ad aumentare le paghe ai birri [19], dopo aver proposto di poter "ritenere nel conto dei Pesi Camerali" l’importo delle nuove paghe, "a propria reintegrazione". La decisione della Comunità riminese riassume una condizione di disinteresse e di abbandono da parte dell’autorità centrale, intenta unicamente a raccogliere denaro dai propri territori, e non ad amministrarli secondo le precise esigenze che da essi emergevano. In un secondo tempo, il Legato promette di far compensare "o in tutto, o in parte su quella somma, che da codesta Comunità si paga in Camera a titolo di Bargello" [AP 496, 30.11.1796, c. 42v.].

La temuta "anarchia" in effetti esiste già. Nessuno sembra voler più obbedire alle norme in vigore. Quando all’inizio del luglio ’96 i Consoli di Rimini, "su istanze de Molinaj, e del Popolo", spediscono a Verucchio la Cavalleria civica per impedire la deviazione delle fosse Patara e Viserba verso le coltivazioni di orti e risaie in quel territorio (con danno dei mulini a valle, impossibilitati a funzionare), non c’è soltanto la prevedibile e violenta opposizione di quella popolazione, organizzatasi in drappelli "di gente armata" per garantire "i deviatori delle acque", ma pure quella dello stesso Governatore di Verucchio che avrebbe dovuto conoscere la legittimità dell’intervento riminese al fine di ristabilire il rispetto delle convenzioni stipulate [20].

Le prepotenze dei verucchiesi, come si denuncia in un esposto al Legato [AP 502, 10.8.1796], fanno correre il rischio all’Annona riminese di esser messa in ginocchio: se il furto delle acque fosse continuato, essa si sarebbe trovata costretta ad inviare a macinare il grano nella città di Fano. Le deviazioni compiute oltre che a Verucchio anche (seppur in misura minore) a Scorticata e Santarcangelo, aggravano una situazione di forte siccità e di "evidente pericolo della fame" [AP 502, 12.7.1796]: si è al momento di vedere impedito del tutto l’esercizio dei mulini "ed affamata una numerosa popolazione, senza speranza che le farine altrove proccurate con molta spesa dall’Annona possano supplire al bisogno di tutti quelli che non possono macinare e che sono perciò costretti provvedersi ai pubblici spacci di quel pane che in diverso caso fabbricherebbero le proprie case" [AP 502, 10.8.1796].

Il raccolto del 1796 è di "non molto" superiore a quello del 1795, quando per soddisfare le esigenze della città fu necessario provvedere a "diverse compre e prestanze" di grano: l’Annona romana ne fornì duecento staia, subito "ridotti in farina, e consegnata al fornaro, ed allo spacciatore senza esserne immagazzinata né in natura né in farina"; il Vescovo di Rimini mons. Vincenzo Ferretti ne offrì altre duecento; la parte a carico dei produttori (il 67,33 per cento del raccolto "quotizzabile", dopo aver cioè detratte decime, sementi, parte colonica e "consumo dei Possidenti"), fu di 5.294 su 7.862 staia. Le "compre" assommarono a 3.491 staia, per raggiungere un totale di 9.185 staia. [21]

Quando nell’agosto 1796 il Legato intima di provvedere il grano necessario alla città nella stessa misura minima dell’anno precedente [22], gli Abbondanzieri di Rimini gli fanno presente che, per semplice "conseguenza matematica", da un raccolto prevedibile di poco superiore alle 7.862 staia del ’95 non si sarebbero potute prelevare le 9.185 staia rimediate nell’anno precedente con prestiti a Roma, regali del Vescovo e le ricordate "compre": "È manifesto che l’esecuzione di quest’ordine è intrinsecamente impossibile", non potendosi costringere i proprietari a "dare di più del totale" del loro raccolto [AP 99, 1.9.1796].

Inoltre, se nel 1795 l’Annona è stata in grado di acquistare parte del grano necessario, ora si trova con le casse vuote, né può costringere i proprietari a fornire tutto il raccolto anziché la sola quota del 67 per cento. Circa la mancanza di fondi, gli Abbondanzieri osservano che il danaro necessario non si trova perché la città è "senza credito" fuori dallo Stato, e dentro di esso "siamo senza danaro effettivo, perché la contribuzione, le spese necessarie hanno esaurite tutte le casse". Il crear debiti contro cedole farebbe aumentare il prezzo del grano del 30 per cento ed anche più. Circa l’ipotesi di costringere i proprietari a fornire tutto il grano anziché i due terzi del raccolto "quotizzabile" rinunciando alla vendita della parte restante, gli Abbondanzieri sostengono che, se la misura fosse adottata, si creerebbe "un incaglio generale in tutte le Arti, in tutte le professioni". Ne deriverebbero "incalcolabili" conseguenze: "Toltine pochi Facoltosi, gli altri tutti, se di giorno in giorno non fan danaro in proporzione delle spese che ànno colle vendite della quasi unica derata preziosa, che posseggono, quale si è il grano, non sono più in caso, né di pagar mercedi, né le Tavola, né gli Artisti, e molto meno i pesi del Principe" [ib.].

C’è da tener presente un altro dato: "Una buona parte de migliori Artisti, e di Persone, ch’esercitano professioni liberali, non vivono del Pane dell’Annona. In Rimino poi specialmente tutti i Marinaj, che formano una Classe di circa tre mila Persone [23], non vivono, né viver possono di Pane a minuto". I marinai infatti "e per abitudine, e per necessità si provveggono del grano a minuto nel pubblico Mercato due volte la settimana. Fabbrican essi per mezzo delle loro famiglie una qualità di pane particolare per gusto, e per la forma, che trasportano in Mare: né potrebbero, o saprebbero adattarsi a quello dell’Annona, che non può resistere ai dieci, o dodici giorni di navigazione. Quando l’Annona avrà fatto suoi tutti i grani, dove si provvederanno gli Artisti, dove i Marinaj?" [ib.].

D’altra parte non si può pretendere che, a soddisfare i bisogni della città, intervengano le Comunità del Contado e di altri Territori, perché sarebbe "distrutta ogni circolazione del grano", e quel poco che fosse sottratto alla "Generale inquisizione" salirebbe "a prezzi eccedenti": ecco "un nuovo funestissimo effetto non meno per la pubblica tranquillità che per la Annona medesima" [ib.]. Non essendovi più quel calmiere il quale assicurava tranquillità alle Annone [24] e la giustizia a proprietari e poveri, per evitare che il ritiro del grano a "quasi tutti i venditori" ne provochi l’aumento di prezzo, si suggerisce al Legato di confermare la regola "di assicurare una parte dei grani riscossi per l’Annona, lasciando l’altra a comodo della pubblica circolazione, onde prevenire i mali gravissimi di sopra indicati, che sicuramente nel sistema proposto sarebbero innevitabili, sì pel Povero, che pel Ricco, che per la Pubblica Cassa" [ib.].

Il prezzo del grano lievita da 5,40 a 6,25 scudi al sacco, con un aumento del 15,74 per cento [25]. Sale anche il compenso per i molinai [26], da essi sollecitato con un’istanza [27] provocata dall’"aumento generale delle spese" e dal mancato adeguamento della tariffa al costo del grano: il compenso in vigore di dodici baiocchi per staio, è lo stesso di quando il grano si vendeva a tre scudi il sacco, mentre i privati per macinare danno "quindici scodelle di grano" al sacco, equivalenti a trenta baiocchi. I molinai espongono anche i costi del servizio, che così elencano: quattro baiocchi per il "trasporto del grano, e della farina", uno per nolo dei sacchi, uno "pel trasporto della farina al magazzeno supperiore", ed un altro infine "per l’aiuto necessario in portar la farina dalla pesa al magazzeno", per un totale di sette baiocchi sui dodici riscossi. Con quei cinque baiocchi che restano, dichiarano i molinai, "non possono vivere".

Gli Abbondanzieri si adoperano per tutelare gli acquirenti di granaglie a misura (e non a peso) dal "furto mal accettato, impunito", commesso da "Possidenti, Affittuarj, e Mercanti, Venditori" che ottengono un frutto illecito del tre, quattro o più per cento, usando in maniera scorretta la "cassella" ("recipiente di legno formato a bigoncio", capace di un quarto di sacco), e la "rasina", "che serve a radere quel di più di grano, che sopravanza in colmo sopra l’orlo della misura". Quanti comperano a misura, cioè in piccola quantità, appartengono alla fascia economicamente più debole della società: la loro capacità di acquisto è già diminuita dall’aumento del costo del grano ed è condizionata dalle loro scarse disponibilità: il "furto" compiuto ai loro danni sul peso, li impoverisce ulteriormente [28].

Nella suplica inviata l’11 agosto 1796 [AP 502] dai Consoli di Rimini alla Sacra Congregazione del Buon Governo, si dichiara che il sistema prescritto nel 1795 "di dare sette oncie fisse di pan commune a bajocco" [29] non è più sostenibile "senza l’eccidio della communità", la quale a tutto agosto 1795 ha perduto scudi 5.350:27:9, "e nel cadente anno annonario andrà a perdere in fine dell’anno circa scudi 7.000" [30]. L’Annona riminese "ha dovuto caricarsi di un debito di circa scudi diecimila al cinque per cento" [31], che si è aggiunto ai "debiti di Peste, Fame, Guerra", per soddisfare i quali si pensa ad "un nuovo aggravio che s’imponga sull’estimo". Il quale aggravio andrà ad opprimere "il nervo sostanziale della popolazione cioè i coloni in modo che saranno costretti cessare dalla necessaria agricoltura sebbene siano quegli che meno profittano del pan commune cibandosi ordinariamente di legumi". Al proposito va ricordato che si è registrata la "mancanza de Marzatelli, e Fagioli nella presente stagione" [32].

I Consoli sono consapevoli di "quanto sia necessario mantenere la quiete e la tranquillità nel popolo fondata principalmente sul buon peso del pane: ma non per questo" essi dimenticano i rischi del "sistema annonario sull’articolo del peso fisso del pan commune", che chiedono di modificare "onde conciliare un metodo annonario che sia utile sì alla popolazione ma che non porti alla ruina della Comunità, presso alla quale necessariamente viene quella della stessa popolazione".

Alla "misera utilissima Classe di Coloni" ed ai "Poveri Contadini" si fa riferimento in un altro documento consolare del 31 agosto 1796 [AP 502], in cui si denuncia l’amministrazione iniqua della giustizia ai loro danni, con "il giro del Cancelliere in campagna per l’abbolizione delle Querele" e con il "procedere in ciò senza il Decreto del Giudice con inumanità, ed estorsione": in tal modo non sono osservati gli ordini legatizi "per l’apposizione ad ogni querela del Decreto del Signor Governatore, ingiungendo l’obbligo al Cancelliere di farlo ostensibile a Persone senza eccezione destinate a garantire i Poveri contadini dalle avanie". Al Legato, in occasione del suo passaggio a Rimini il 7 luglio [33], durante il suo viaggio di ritorno da Fossombrone a Ravenna, è già stato fatto presente il problema: il Cardinal Dugnani ha assicurato "che per quest’anno il Cancellier Criminale non avrebbe fatto il giro della Campagna per l’abbolizione delle querele affine di non inquietare per questa Causa i contadini, che sono per tante altre angustiati": ma da venti giorni, denunciano i Consoli al Legato il 3 ottobre [AP 502] "il Cancelliere medesimo si aggira per la campagna, e n’escute gli Abbitanti per le rispettive querele, in modo, che se ne sentono non poche doglianze". Alla Municipalità, scrivono i Consoli, spetta "sempre ma specialmente in questi tempi di procurare la quiete ed il sollievo della Popolazione, ed in particolare dei Rustici, che ne formano la Parte più essenziale, ma la più povera, e la più esposta alle avanie" [34].

Nel documento consolare del 31 agosto, a proposito del "riparto delle contribuzioni" raccolte per i francesi, si sottolinea che la "maggior parte di detti pesi" piomba "sui Laici, soggetti di più a tutti i Dazj, ed alla restituzione del debito pel Tremuoto [35], compresavi la misera utilissima Classe dei Coloni". A guadagnarci, come avremo modo di vedere più in dettaglio, sono stati gli Ecclesiastici che non hanno pagato in proporzione delle loro proprietà, secondo quanto risulta dai calcoli degli estimi.

Nel corso dell’ultima "messe del Grano", proprietari, affittuari dei terreni ed artieri hanno rinnovato i reclami contro il divieto assoluto "di ricever grano dai Contadini in isconto de loro crediti", introdotto nel 1793 e rinnovato l’anno successivo [36]; divieto che si chiede di cancellare "per il bene, per la quiete di questa Popolazione": esso, spiegano i Consoli di Rimini al Legato, nuoce a tutti. I proprietari sono costretti a "corrispondere i pesi Camerali, ed altre gravezze, anche per la parte Colonica", senza poter utilizzare l’"unico mezzo, che loro rimane di esser rimborsati" dai coloni stessi, ovvero il "Grano raccolto sui loro fondi di parte rusticale". Gli artieri, "quelli cioè, che sogliono lavorare pei contadini, e per gli attrezzi Rusticali", si vedono privati del "solo fondamento di esserne soddisfatti in tanto grano sulla riccolta". I contadini, infine, senza più "la speranza di ripetere i Loro crediti in Grano" ai padroni ed agli affittuari, "non trovano sovvenzione dai primi ne’ loro maggiori bisogni, né credito dagl’altri pei necessarj lavorieri: dal che nasce un altro danno ai Possidenti, ed all’istessa Università [Comunità] di vedersi cioè abbandonata la coltura de’ Terreni, e per l’impotenza de’ contadini mancanti di sostentamento, e per la deficienza degli attrezzi rusticali". Inoltre i contadini sono costretti a "vendere i loro Grani sulla riccolta in quel tempo cioè, che n’è più vile il prezzo per essere eglino soddisfatti in contante", impoverendosi in tal modo ancor più. Il Legato accetta la richiesta riminese e sospende "il divieto di ricevere Grano, e Marzatelli dai Contadini sulla riccolta a sconto di debito" [AP 496, 20.7.1796].

Proprio dal contado giungono ai Consoli di Rimini molte lettere di Parroci e Giusdicenti che invocano la restituzione delle armi da fuoco, necessarie ai loro "dipendenti" per difendersi "dai Forusciti, e Assassini, che infestano la Campagna" [37]. "Fervorose istanze" al proposito sono state presentate al Legato il 7 luglio nel già ricordato suo passaggio per Rimini, e rinnovate all’Uditore di Camera dai Deputati al Congresso provinciale: tutta la popolazione "e particolarmente la numerosa e poco docile Marineria, ardentemente desiderano quella restituzione"; "il differirla più a lungo potrebbe cagionare del malcontento purtroppo pericoloso in queste circostanze, tanto più in vista che molti Comuni di questa Provincia non si sono fatte depositare dette armi" [38]. La Municipalità di Rimini si dice favorevole alla restituzione delle armi, ma "con quelle cautele, che ne assicurino il buon uso" [39]: il momento è critico, ed esse potrebbero esser usate a sproposito. Ad esempio, è stato un bene che nel citato "tumulto" di San Vito "non abbiano potuto armarsi i Contadini" [40]. Il Legato autorizza la restituzione delle armi il 15 luglio [AP 496], precisando il 20 [ib.] che va rispettata l’eccezione di "quelle proibite in primo grado, se ve ne sono".

I problemi maggiori per il mantenimento dell’ordine pubblico riguardano i contadini ("esposti ai derubbamenti, e crassazioni di fuorusciti, e vagabondi") ed i marinai ("intimoriti da funesti incontri per mare"); mentre la città di Rimini è "esente la Dio mercé da complotti, congiure, ed altre pericolose turbolenze" [41]. Ma che anche il capoluogo, in particolari circostanze, non vada ovviamente esente dai rischi di torbidi e tensioni, lo testimonia l’episodio accaduto alla fine di giugno, durante la raccolta della contribuzione per i francesi, alla quale sono stati sottoposti pure gli Ebrei: "Dovemmo a un tempo procedere al loro arresto onde sottrarli da quegli insulti che una certa malafede del Popolo, avrebbe potuto accagionargli" [AP 502, 22.7.1796].

Da parte loro quegli "Ebrei dimoranti con negozio da lungo tempo in Rimini" [42] avevano temuto che nel "passaggio delle Truppe Francesi" potessero esser "molestati per raggion d’avere per Comando Pontefficio il solito segno nel Capello", che fu loro concesso di togliere dopo il versamento alla Comunità riminese di un "dono gratuito" di cinquecento scudi: in realtà, il "dono" fu fatto, come scrivono i Consoli di Rimini [43], "in luogo di darci conto del loro peculio, e del valore de rispettivi negozj, come da noi esigevasi". La Municipalità, soddisfatta della generosa offerta, versata oltretutto in moneta e non in oggetti preziosi, tralascia di sottolineare che essa andava contro le leggi: l’importante era riempire le casse pubbliche il cui stato diviene sempre più "lagrimevole" [44].

In simili circostanze, non è più "possibile continuare i pagamenti ordinarj", mentre non ci si può lusingare di prendere denari ad interesse "perché la Città, la Provincia ne sono sprovviste, e non si ha credito presso gli Esteri": "In un vuoto così terribile nel presente e più ancora nell’avvenire non abbiamo noi risorsa" [45]. Non resta altra strada che invocare un intervento superiore. I cittadini di Rimini, "oppressi dalle correnti miserie", si vedono ordinare da Roma di rispettare con la massima puntualità i debiti con la Tesoreria "per adempiere i Comandi del Principe, e il dovere di sudditi": dopo di che, scrivono i Consoli al Legato [AP 502, 3.12.1796], ai riminesi "mancherà il mezzo per continuare" le spese ordinarie e straordinarie, non restando alla fine "che il partito di crear nuovi debiti". Anche al Tesoriere di Romagna Bottoni si fa sapere che "il sopracarico dattoci dal Principe" e le "nuove, copiosissime spese" militari hanno "esaurita la Pubblica Cassa" [AP 502, 17.12.1796].

Intanto non si trova chi voglia prendere in appalto la Depositeria Generale [46], come già accaduto nel triennio 1791-93: "In oggi l’attuale moltiplicazione dell’esigenze, la difficoltà somma di eseguirle, la straordinaria incombenza che si dispone al Depositario pel riparto della Contribuzione, e molto più per le diversità della moneta e delle Cedole che obbliga tenere due casse distinte, e più ministri, hanno indotta ne’ Cittadini tanta avversione" alla carica "che difficilmente riuscirà l’esecuzione" dell’appalto, "malgrado i pubblici incanti continuati per più di tre mesi" [AP 502, 3.12.1796, cit.].

Il 27 dicembre [AP 502] i Consoli presentano al Legato una vera e propria dichiarazione di fallimento della città, "affine di riparare alle angustie cagionateci per la provvista alle Truppe" [47] che il Papa prepara per riprender la guerra con i francesi [48]: "lo stato passivo della città" risulta da una "scopertura" di 3.475 scudi e da 158.644 scudi di debiti. I Consoli impetrano "un Commissario che riveda la nostra Economia e che ne comini a’ Signori Superiori l’impossibilità di reggere ad altre spese": "Quelle che ci sovrastano per servizio del Principe sono tali che onninamente la Comunità non può subirle per se stessa". Non è possibile l’"acquisto di tanta copia di generi" ordinati dalle autorità militari (cioè, dal cap. Mazzagalli "subbispettore delle Truppe in Romagna"): il territorio riminese manca "di quell’abbondanza di Foraggi che occorerebbe a tanta provvista massime in quest’anno", e non è possibile procurarli altrove perché lo "stato corrente delle nostre casse non ammette verun ulteriore pagamento", stante anche il fatto che "abbiamo finora cercato inutilmente denaro ad interesse". La presenza delle truppe comporta "uno spaccio straordinario di pane comune, che l’Annona è forzata dare ad once sette alla sua Popolazione, e con danno sempre maggiore".

La questione della spesa per il pane comune è affrontata anche nella duplice istanza inviata dai Consoli riminesi alla Segreteria di Stato ed alla Congregazione del Buon Governo sulla "Situazione ruinosa della Pubblica Cassa" [AP 502, 29.12.1796], ribadendo come essa, "senza un pronto riparo" provocherà l’"eccidio della classe dei Coloni, che senza goderne il vantaggio soccombono alla metà del riparto sull’estimo". L’istanza illustra l’"impossibilità fisica, e morale di soffrire nuovi aggravj", segnalando le spese finora sostenute dalla città, e che riguardano: a) l’estinzione delle rate del sussidio di 80.000 scudi oltre al pagamento dei frutti per il ricordato terremoto [49] del 1786; b) il "sopracarico" di circa 4.000 scudi occorsi per lavori al Ponte ed all’Arco di Augusto; c) la spesa straordinaria di 3.000 scudi "per l’amplificazione, e rettificazione della strada consolare, e dei suoi Ponti"; d) la nuova costruzione delle carceri (altri 2.500 scudi); e) "la vistosa perdita" di 11.000 scudi per il pane comune. "Gravissima è stata dippoi la perdita sulle Cedole che innondano la Città Nostra, fattale il dispendio avutosi di più di scudi 1.500 per le prime Truppe Pontificie, Brittaniche, e Napolitane", a cui si deve aggiungere l’altro di scudi 900 "pel mantenimento della Guardia Civica [50]: ma tutti assieme da non paragonarsi alla Contribuzione di 67, e più mila scudi data all’Armata Francese".

Il Legato, risponde in tono paternamente seccato: "niuna delle altre Città di questa Provincia" ha presentato istanza per aver riduzioni nelle spese relative al mantenimento della truppa pontificia [51]. Il Cardinal Dugnani si dimostra sicuro che lo zelo dei Consoli riminesi "per il ben pubblico" li avrebbe spinti ad avere la "compiacenza nel fare un sagrifizio" a favore di quella truppa "quì venuta per la sicurezza, e tranquillità" di tutta la Provincia. Rimini si sente abbandonata dalla Legazione, da cui non è mai giunta alcuna "provvidenza", confidano i Consoli al loro "Procuratore" a Roma, abate Giuseppe Quaglia [52] nella missiva [AP 502, 29.12.1796] di trasmissione "a sigillo alzato" delle due istanze appena ricordate, dirette alla Segreteria di Stato ed al Buon Governo. I Consoli si riferiscono a tre lettere inviate in precedenza al Cardinal Dugnani. Il 4 ottobre [AP 502], circa le istruzioni inoltrate il 28 settembre dalla Segreteria di Stato "per la difesa dello Stato" [53], si è fatto presente che a Rimini mancava la "polvere" per i soldati, e che non c’era il "danaro per acquistarla, e per supplire alle altre spese correlative". L’11 ottobre [ib.] si è scritto che "per le spese straordinarie non [h]avvi assegnamento alcuno", ed 13 ottobre [ib.], circa il pericolo di un’invasione immediata dei francesi e sull’impreparazione alla guerra, si è ammesso: "Noi manchiamo di danaro, di polvere, di fucili".

Le risposte del Legato sono state rigidamente burocratiche. Per Rimini non si poteva fare nessuna eccezione, sospendendo il pagamento dei Pesi Camerali, perché le altre Comunità avrebbero preteso lo stesso esonero [AP 496, 6.10.1796, cc. 38v-39r]. Circa i fucili, il Legato non ne forniva alcuno, ma anzi ne chiedeva cento da destinare alla difesa provinciale, tra quelli che "sono stati passati dal Castellano di questa Fortezza per uso della Guardia Civica". [AP 496, 18.10.1796, c. 40]. Per la paglia ed il fieno necessari alle truppe pontificie e napoletane che stavano per giungere, si ordinava un censimento "della quantità che Ciascun Contadino, o Proprietario crederà supeflua al bisogno proprio", al fine di calcolare su di essa le provviste militari [AP 496, 25.10.1796, c. 40v-41].

Il Cardinal Carandini, segretario della Congregazione del Buon Governo [AP 496, 7.1.1797], osserva che "la rispettabile somma di discapito" denunciata da Rimini è stata rimediata vendendo i grani "a minor prezzo del costo". Ci si deve comportare invece secondo le istruzioni "sempre" impartite, e regolare "il peso del pane in proporzione del prezzo dei Grani": "fissando per li Poveri il peso di sette once a bajocco, al pane di tutta farina non può esservi remissione, ed in caso che questa vi fosse può indenizzarsi col minor peso del pane fino". Alla rigida lezione, il Buon Governo non fa seguire nessun aiuto concreto.

Allo stato "lagrimevole" dei pubblici bilanci corrisponde quello altrettanto depresso delle casse private, prosciugate dal pagamento della contribuzione ai francesi. In una lettera della Municipalità di Rimini al Tesoriere dell’Armata repubblicana [AP 502, 2.7.1796], si legge che si è potuto "estorcere" dai concittadini e dai territoriali delle Comunità di Rimini soltanto la somma di 60.470 scudi [54] in "ori, argenti e moneta di Banco" [55], contro una cifra richiesta di 114 mila scudi. La Municipalità adduce come scusanti le "tante angustie di tempo" e la "comune miseria". Soprattutto i piccoli paesi si sono trovati in difficoltà nel reperire la somma imposta. A Petrella non c’era nemmeno il "numerario con cui soddisfare i pubblici operaj, e le altre minute spese", e si possedevevano soltanto quelle "cedole bancali venute in oggi a tanto scredito, che nemmeno colla perdita della metà si trova di cambiarle" [AP 502, 8.7.1796]. Ad Albereto si è usata "l’inumanità di levare alla povere Donne il poco oro di loro ornamento", ed "ai poveri contadini" le fibbie. Ai Priori di Albereto la Municipalità di Rimini precisa: "L’oggetto primario, che si deve avere in città nell’esigere la Contribuzione, è quello di non turbare i poveri ne’ loro tuguri per costringer solo colla forza, quando il bisogno lo richiede, le persone più facoltose della Comunità" [AP 502, 2.7.1796]. Anche su direttiva francese, si ordina la restituzione di quegli ori e di "altre cose che fossero state levate ai Poveri", ricordando che soltanto ai "Possidenti" toccava di provvedere alla contribuzione.

La condizione di povertà dei paesi dell’entroterra è documentata fra l’altro pure dal fatto che Rimini ha dovuto sborsare per essi ventimila scudi di contribuzione, cioè tremila in più di quelli versati per la città ed il proprio bargellato [ib.]: i francesi non avevano sentito ragioni, ogni località doveva versare la propria parte, e se non era in grado di farlo doveva pensarci la Municipalità resa responsabile della raccolta.

Non tutti i possidenti versano il dovuto. A Giuseppe De Carli, "uno dei migliori Proprietarj" di Rimini, le autorità inviano doppia sollecitazione con la minaccia di una "escussione militare" [56]. Nel frattempo c’è chi non sa come investire al meglio il proprio denaro: è il caso del Ministro del Signor Marchese di Bagno che "si trova avere una somma ragguardevole di Moneta fina" da prestare a "qualche Comunità" [AP 561, 29.6.1796]. "Molte famiglie assai ricche non hanno contribuito per niente", è la denuncia degli amministratori riminesi nel gennaio 1797, i quali accusano pure i "Signori Ecclesiastici" di essersi sottratti ai loro obblighi e di aver pagato quasi la metà delle quote calcolate in base ai loro estimi [AP 502, 31.1.1797].

Il pagamento della contribuzione ha eccitato gli animi: "Sediziosi, e Prepotenti" agitano la pubblica quiete, soprattutto nella campagna, tra fine giugno ed inizio luglio 1796. Sono quelli che Carlo Tonini [57] chiama "i principi di una deplorevole insurrezione trattenuta soltanto dallo spettro orribile e minaccioso delle sopravvenienti schiere di Francia", mentre la campagna si trova "esposta a grande pericolo per la moltitudine dei soldati dispersi, dei Birri fuori posto, e di vagabondi" [AP 502, 28.6.1796]. Dopo l’armistizio del 23 giugno, la Municipalità riminese ha faticosamente impedito "l’emigrazione di molti abitanti del Porto" [AP 502, 24.6.1796]. In quelle critiche circostanze, i Consoli, privi di "istruzioni per parte dei Signori Supperiori" e pertanto impossibilitati a "fissar verun piano che riguardi la pubblica salvezza e tranquillità" [AP 502, 21.6.1796], hanno preso i due unici provvedimenti che ritenevano possibili: "l’espulsione dalla Città nostra de’ vagabondi esteri" e la provvista della farina in gran quantità. Da parte sua il Vescovo il 24 giugno ha ordinato ai Parroci di esortare i fedeli alla quiete ed alla rassegnazione. Sulla stessa lunghezza d’onda, due giorni dopo [AP 999], la Municipalità raccomanda "al Popolo di rimanere quieto, e di conservare tutto il buon’ordine per non esser egli stesso responsabile di quanto potrebbe avvenire, e per di lui colpa, di cui si esigerebbe la più rigorosa ragione".

Il 29 giugno al Monte di Pietà di Rimini "riscuotono in tanta folla che non si è mai più veduta per pavura che li Francesi portano via tutto", scrive il cronista Giangi. È già accaduto nelle altre città romagnole che gli invasori facessero man bassa dei pegni. Il popolo può riscattare soltanto quelli leggeri: per i più consistenti, non giungendo le sue forze alle somme necessarie per riaverli, chiede un aiuto pubblico. I Consoli di Rimini li incorporano nella contribuzione francese, al solito frutto del cinque per cento. A Forlì, invece, i responsabili del Sacro Monte concedono la riscossione dei pegni "appena per la metà del debito contratto". A Faenza e a Ravenna i francesi restituiscono gratuitamente gli effetti "che non servono al lusso" e che appartengono ai poveri.

Precisa la nostra Municipalità nella "Risposta ai dubbi" dei Priori di Monte Scudolo: "Ora non è tempo di sorpresa, ma di azione. Si minaccia da un’Armata vittoriosa il Sacco generale se immediatamente non si contribuisce quanto essa dimanda" [AP 502, 30.6.1796]. L’8 luglio un "falso allarme" induce "i Contadini delle vicine Campagne, e gli Abitanti de’ Luoghi limitrofi" nel nostro territorio "ad abbandonare le rispettive Case, ed incombenze" [AP 999, 9.7.1796]. La Pubblica Rappresentanza cerca "di ricondurre i fuggitivi alla quiete, ed ai proprj esercizi con assicurarli" che si trattava soltanto di un equivoco. Giangi spiega che cos’è accaduto: quel pomeriggio giungono a Rimini da Cesena "molte persone, e poi da tutte le parti fugitivi per una voce falsa che li Francesi reclutavano a forza. Un bisbiglio, una premura in tutti tanto grande non si è avuta giammai, e da qui sono fugiti moltissimi". Una conferma del racconto del diario di Giangi, si trova in una lettera della Municipalità di Rimini che l’8 luglio [AP 502] scrive ai Priori di Verucchio: "Per una falsa voce che le Truppe Francesi si sieno introdotte nelle vicinanze, e vi abbiano fatte delle reclute, molti Contadini hanno abbandonate le loro case ed i loro lavori per mettersi in sicuro dalla temuta violenza sulla Montagna". Alcuni di quei contadini si sono diretti proprio a Verucchio. Per rassicurare gli animi ed assicurare l’ordine, la Municipalità di Rimini garantisce: "da Imola in giù non vi sono Francesi".

Gli umori di rivolta ed i disordini registrati fra giugno e luglio non sono dimenticati dagli amministratori riminesi i quali, appena giungono le istruzioni pontificie del 28 settembre "per la difesa dello Stato", criticano quella parte riguardante il "riscaldamento che si commette ai Parochi di eccitare nel Popolo della Città, e della Campagna": "dovendo pur troppo cadere sui buoni, che sui cattivi si corre gran pericolo, che abbusando i Secondi delle providenze dal Principato a pubblica Difesa lo ritorcano con dei falsi allarmi, come altre volte è accaduto in danno delle oneste persone e delle Case le quali nel momento, che una parte del Popolo chiamato dalla Campana si preparava alla pubblica Difesa, l’altra parte si abusava derubando, ed assassinando impunenete le abbitazioni". Secondo i Consoli, "a scanso de’ pericoli sovracennati" si dovevano avvisare il Vescovo, i Religiosi ed i Parroci di città e campagna che era "indispensabile una diligente continua custodia di tutte le campane" [AP 502, 4.10.1796].

"Dopo i proclami spediti a tutti i Parrochi, e dopo alcuni altri alterati, e promulgati con esagerazione, e fanatismo in alcune Terre, qualche parte del nostro Popolo, senza esser divenuta né più valorosa, né più armata, è divenuta totalmente indocile alla voce del consiglio, della prudenza, e della ragione". I Consoli lanciano un nuovo allarme al Legato [58], passando dal piano dell’ordine pubblico al discorso politico: "Senza acquistar forza per difenderci abbiamo diviso il Popolo in fazioni [59], le quali quanto sono impotenti a difendersi, altrettanto sono terribili per produrre mali gravissimi nell’interno, e per concitare il Nimico ad estendere il diritto di Guerra sopra le Case, sopra le Donne, e sopra tutti gli Abitanti innocenti, e disarmati, e per autorizzarlo al dilapidamento delle sostanze di ogniuno. Non possiamo mai credere, che la volontà del nostro pio, ed amoroso Sovrano sia quella di vedere inutilmente incendiate le case, violate le Donne, e innondate di sangue la Città, e la Campagna, con una resistenza, che non può essere, che dannosa".

Il Legato, che in quei giorni si trova a Rimini, non risponde alla provocazione di chi, anziché aderire alle iniziative militari del Pontefice, si dissocia pronunciandosi a favore di un accordo diplomatico con il nemico, per evitare i danni dello scontro armato. I Consoli in quest’ultima lettera, in base ad informazioni e documenti ricevuti da Bologna ed in riferimento alla notizia della "secreta partenza da Imola dell’Eminentissimo Signor Cardinal Chiaramonte", si dichiarano sicuri che "le Truppe di linea Francesi istigate, e secondate dalle Masse Bolognesi, e Ferraresi", sono in procinto di "invadere di nuovo questa infelice Provincia".

Merita una sottolineatura il passaggio in cui si accenna alle masse che secondano i francesi: nella realtà politica romagnola anche i cosiddetti giacobini più accesi sembrano in linea di massima non aver alcuna simpatia per la rivoluzione militare [60], e propendere invece verso una politica di riforme, la prima delle quali doveva essere la più traumatica (e quindi rivoluzionaria), cioè l’abolizione del dominio temporale, per arrivare alla quale si aspettano tempi più maturi e meno confusi. Questa interpretazione trova conferma in quanto accaduto dopo l’armistizio del 23 giugno, quando il generale divisionale Pierre-François-Charles Augerau ha cercato di conquistare la Romagna non con le armi, ma con una specie di referendum: preferite vivere con la Francia o con il Papa? È stato un viaggio inutile: "Il generale francese propose ai deputati la libertà di sottrarsi dal regime pontificio sotto la protezione della Francia; i deputati riposero che giacché gli veniva accordata la libertà di eleggere, amavano di continuare a vivere sotto il governo pontificio a scanso degl’indispensabili inconvenienti a cui si sarebbe andato incontro con un cambiamento di governo" [61]. L’atteggiamento dei delegati romagnoli (i due riminesi sono Marco Bonzetti, un "buon cattolico, schietto, ed amato da tutti", ed il "soverchiamente politico, mondano, e generalmente malveduto" conte Nicola Martinelli [62]), rivela una linea precisa: restare "sotto il governo pontificio" è la scelta del male minore, non l’adesione ad una politica, mentre contemporaneamente si rifiuta "un cambiamento di governo" traumatico. Anche per la nostra città vale un’osservazione dello storico pesarese conte Camillo Marcolini: "quantunque il governo degli ecclesiastici non fosse per sé stesso molto buono, ogni ordine di persone, ad eccezione forse di pochissimi, non desiderava né desiderar poteva quella libertà che i francesi ci recavano sulla punta delle spade" [63].

La lettera dei Consoli in cui si ritiene dannosa ogni resistenza ai soldati napoleonici, conferma la sfiducia che la classe dirigente riminese nutre verso il potere romano. D’altra parte, tale sfiducia non era però sufficiente per farla correre incontro ai francesi come a dei liberatori. I Consoli si rivolgono "all’equità, ed alla giustizia" del Sovrano per "un nuov’ordine ai Vescovi, ed ai Parrochi, col quale in di Lui Nome raffrenino un inutile ardore nei Popoli, e li renda nuovamente docili alla voce della prudenza, e della ragione" [64]. Gli amministratori della città, espressione di umori aristocratici fortemente radicati [65] e di spiriti innovatori legati al ceto borghese emergente [66], ritengono che la massa popolare debba esser tenuta a freno perché ogni sua mossa potrebbe sconvolgere quell’ordine che garantisce il loro prestigio sociale, indipendentemente da chi comanda. Tutto ciò che si può fare perché quella massa riesca a sopravvivere e resti pacifica (soprattutto in un momento così drammatico), è pure nell’interesse di chi esercita il potere politico, espressione di quello economico delle due caste, concorrenti fra loro, ma unite nella difesa dei privilegi posseduti da tempo o conquistati di recente.

Parlando del pericolo che l’ardore del Popolo scateni altri drammi e danni, i Consoli vogliono infine insinuare che quella massa potrebbe, con estrema facilità, allearsi al nemico francese piuttosto che coalizzarsi nella difesa del governo "romano", il quale finisce per costituire un paravento al fine di salvaguardare il potere che essi rappresentano in città. La scelta della massa non sarebbe politica, a giudizio della Municipalità riminese, ma semplicemente dettata da un istinto perverso che non ascolta la "voce della prudenza, e della ragione". La quale voce avrebbe dovuto suggerire ai reggitori della cosa pubblica di Rimini che, se le masse bolognesi e ferraresi, avevano istigato e secondato le truppe della Francia, qualcosa di diverso dalla semplice malvagità naturale cara ad alcuni filosofi ci dovesse pur essere nel suggerire adesione allo spirito guerriero. Ma, come spesso accade, soltanto gli altri debbono ascoltare la voce della ragione, perché si pretende di avere tutte le ragioni dalla propria parte.

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