Riministoria© Antonio Montanari

Aurelio Bertòla politico, presunto rivoluzionario. Documenti inediti (1796-98)

di Antonio Montanari

[da "Studi Romagnoli" XLVIII (1997), Cesena 2000, pp. 549-585]

 

8. Il "cittadino" Bertòla a Rimini (26 aprile 1797)

Al ritorno in patria, Bertòla non è più un "nobil uomo" come tutti lo avevano chiamato sino ad allora nelle lettere, bensì un comune "cittadino", secondo i costumi importati ed imposti dai napoleonici. Anche per lui viene l’ora di infranciosarsi. Quanta cum voluntate possiamo intuirlo dalle lettere e dai diari, da noi citati con un’abbondanza rivolta a dimostrare che non risponde al vero quanto autorevolmente affermato (44) circa la scarsità di documenti sugli ultimi anni della sua vita.

L’accettazione dell’ideologia imposta dal potere delle armi, è in Bertòla frutto non di libera scelta ma di avverse circostanze, determinate dai gravi motivi economici da lui stesso descritti. Troppo acuto nelle sue analisi è il poeta riminese, per non sapere che lo "spirito illuminato del secolo" (45) di cui Amaduzzi gli aveva parlato dalle proprie lettere ed opere, era altra cosa rispetto agli umori rivoluzionari diffusi attraverso la conquista militare. Per questo motivo, l’iniziale riformismo bertoliano non va considerato quale fase di partenza di un lineare processo di sviluppo politico approdato all’inevitabile adesione giacobina. Né dobbiamo considerare attività ed impegni politici di Bertòla tra ’96 e ’98 come segno di una partecipazione convinta alla causa dei francesi. Anche per lui valgono le parole usate da Piero Bargellini (46) a proposito dell’"infame carnefice di Apollo" (47) Vincenzo Monti il quale il 3 marzo 1797, con sicurezza ed intenzioni diverse da quelle di Bertòla, s’era allontanato da Roma per correre verso l’abbraccio della Milano napoleonica: "I tempi erano così duri, che poteva essere, se non scusato, compatito" per le sue ambiguità e contraddizioni: "Brutta consigliera la paura!".

Il Bertòla che lavorerà per la rivoluzione non è né un capopopolo né un ideologo di professione, come invece talora lo raccontano (48). È soltanto un poeta costretto a bussare a soldi. Vorrebbe vivere inosservato nel suo buen retiro collinare, invece il bisogno lo trascina sulla scena politica. Per la fama del suo nome, deve recitare un ruolo da protagonista. La sua voce è stanca, e la mente preoccupata da mille cose: i ricordi della "persecuzione" papalina, i conti che non tornano, i soliti debiti da saldare, i denari da riscuotere, e soprattutto la necessità di costituire un piccolo capitale con cui garantirsi per quella vecchiaia che non verrà.

L’entusiasmo che traspare da certe sue carte, è fatto unicamente di cortesie e di obblighi convenzionali per grazie ricevute. Amaduzzi gli aveva scritto nel 1780 [FPS, 8.342]: "Voi avete comune con Orazio l’eccellenza della lirica poesia e l’eccezione del levior cortice ["uomo leggero e vano"], che gli dava la stessa sua bella". Potremmo aggiungere che un altro tratto accomuna Bertòla al grande autore latino: anche Bertòla cercava una "chiusura protettiva dello spazio", quell’angulus che lo salvasse dal "trauma del mutamento e dell’ignoto" (49). E proprio nel momento in cui instabilità politica ed economica sembrano travolgerlo, Bertòla avverte con maggiore intensità questo desiderio di un rifugio tranquillo.

A Ridolfi in marzo Bertòla aveva scritto da Siena [FPS 63.50]: "Il Gen. Bonaparte sa le mie vicende". Ad informarlo è stato forse Mascheroni, intimo di Bertòla e "consigliere" di Napoleone, secondo una definizione di Strocchi [FPS, 471.62]. Gli aiuti che Bertòla riceverà dall’autorità politica sono frutto, oltre che dell’interessamento di amici riminesi e romagnoli, di una protezione che premiava meriti passati e contingenze presenti, ma non subordinazioni ideologiche. Tutti i potenti vogliono essere magnanimi. Così i francesi lo furono con Bertòla.

 

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NOTE

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9. Il "Piano dell’educazione letteraria" (maggio 1797)

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