LA RINUNCIA AD ARISTOTELE IN PETRARCA

"La felicità propria dell’uomo, sta nel suo realizzarsi quale creatura ragionevole, e cioè nel massimo sviluppo delle sue capacità intellettuali". Questo punto, che è stato sviluppato da Aristotele nellEtica Nicomachea, non è stato mai messo in discussione e ha conosciuto un momento di grande fortuna nel secolo XIII, grazie anche a Guglielmo da Occam che con il suo "occamismo" riprende la dottrina aristotelica. Quindi: l’uomo virtuoso e felice sarà sempre e solo il sapiente. Ma proprio nel periodo di gran fortuna per l’aristotelismo, Petrarca, con un gesto importantissimo, scalza Aristotele dal primo posto tra i filosofi, e lo fa in particolare nella sua opera tarda "De sui ipsius ac multorum ignorantia" (scritta nel 1367). Il "De sui ipsius ac multorum ignorantia" è costituito da una lunga e argomentata risposta al giudizio che quattro aristotelici avrebbero dato di Petrarca, allora sessantatreenne, da essi definito uomo ignorante ma buono. Di più non sappiamo.

Possiamo supporre che i quattro rimproverassero a Petrarca la mancanza di cultura scientifica, corrispondente a una sottovalutazione di Aristotele e delle scienza aristoteliche della natura, e considerassero la sua opera come una semplice testimonianza avente ruolo morale. La risposta, infatti, si basa su questi due punti che Petrarca riconosce e conferma pienamente, così che il "De sui ipsius ac multorum ignorantia" può essere definito come l’opera nella quale il poeta fiorentino, affronta in modo definitivo il discorso su Aristotele, e nella quale mostra la dimensione etica della sua concezione del sapere. Non è dunque vero che l’opera abbia come obiettivo polemico l’averroismo, ma obiettivo vero e dichiarato è Aristotele. Petrarca, abbiamo detto, conferma l’accusa che gli viene rivolta, rispondendo ai suoi accusatori: "… so bene di essere ignorante, e davvero non me ne importa nulla, mentre vorrei con tutto il cuore essere buono…"Egli risalta dunque la propria virtus illitterata che trova riscontro nel suo paragonarsi ad una vecchietta ignorante e devota ("anicula sine literis"), e soprattutto nell’affermare di conoscere la vera felicità più di Aristotele. La contrapposizione, però, non sta solo nel confronto tra l’ateo (Aristotele) e il cristiano (Petrarca / vecchietta), ma sta soprattutto nel confronto tra lo scienziato convinto del proprio sapere e l’umiltà di chi non riconosce in sé altra certezza se non la natura morale.

Nella struttura dell’opera riscontriamo tre momenti: prima l’accettazione della propria ignoranza; poi la smentita di tale condizione grazie all’esibizione di una cultura superiore e la condanna della concreta ignoranza dei propri detrattori; infine il riconoscimento della generale limitatezza di ogni sapere umano. Grazie a questi tre momenti, Petrarca focalizza su un punto che nei secoli successivi saranno in molti a riprendere da lui: anche Aristotele fu un uomo, e in quanto tale non ha potuto sapere tutto, e non solo non ha potuto sapere tutto, ma quanto è riuscito a sapere non rappresenta che una misera porzione di una sapienza assolutamente indefinita e per spiegare ciò, Petrarca ricorre ad un aneddoto che fa combaciare l’immagine del filosofo a quella dell’uomo: "Si dice che Aristotele sul punto di morte piangendo abbia detto che nessuno doveva compiacersi o essere orgoglioso del proprio sapere, ma piuttosto ringraziare Dio se per caso ne abbia ricevuto più di quanto ne abbiano ricevuto gli altri". Così Aristotele, il filosofo per antonomasia, torna per Petrarca uomo, non conta più quindi la conoscenza di tutte le scienze, poiché anche il filosofo quando muore precipita in ciò che non sa.

Petrarca è il primo che appassionatamente afferma che il sapere non dà assolutamente la felicità, dal momento che la felicità non è legata alla dimensione del conoscere ma a quella dell’essere. A proposito di ciò Petrarca ricorda che: "E quantunque al principio dell’Etica, io avrò cuore d’affermare –strillino pure quanto vogliono i miei censori- che egli (Aristotele) non ebbe nessun'idea della vera felicità; tanto che su quest'argomento potrebbe essere non dico più sottile ma certo più felice una qualsiasi devota vecchierella o un pescatore o un pastore o un contadino, timorati di Dio". Se ci teniamo strettamente a quanto afferma Petrarca, potremmo osservare che il poeta fiorentino ponga una netta differenziazione tra la possibile felicità di un pagano e quella di un cristiano.

Ma è anche chiaro che il discorso non si può risolvere senza un preciso schema, e che in realtà esso propone un’alternativa diversa, la quale afferma che la scienza che Aristotele egregiamente rappresenta non abbia niente a che fare con l’effettiva natura morale dell’uomo, ma sia tutt’al più un aiuto: un mezzo, insomma, e non un fine. Non esiste dunque alcun rapporto tra la scienza e la felicità umana. Questo è ampiamente dimostrato da Petrarca che ha sempre concepito la conoscenza come una scelta etica di vita e che ha sempre presentato il suo sapere in base al suo modo di essere e di comportarsi. La vera conoscenza è un qualcosa che si riscontra nella natura etica, e solo in quanto tale può comunicare felicità. In caso contrario, nella forma oggettiva della conoscenza scientifica, il sapere non procura affatto la felicità. Così facendo, Petrarca rompe il nesso tra virtù, felicità e conoscenza che era stato tipico del mondo antico e che aveva avuto in Aristotele e nell’aristotelismo la sua definitiva sanzione, riguardo ciò Petrarca dice: "Insegna egli (Aristotele) che cosa sia la virtù, ma la sua lettura non offre che pochissimi stimoli che spingano e infiammino l’anima ad amare la virtù e odiare il vizio".

Da Aristotele in poi resta punto fermo la cosiddetta "ratio recta", alla quale tocca di fissare i criteri sulla moralità, e rispetto alla quale la volontà deve saper regolare i propri appetiti. La volontà buona, insomma, non possiede in sé il fondamento della sua bontà, ma è così solo perché conforme a ciò che detta la "ratio recta". Per Petrarca è esattamente il contrario. Infatti, egli ritorce contro Aristotele le sue stesse parole: "Se la volontà può essere di per sé buona, conoscenza e ragione non hanno più nulla da dire di essenziale, perché il bene può fare a meno della loro verità". Dunque l’unica verità realmente possibile, in definitiva, è quella che deriva dalla certezza del proprio desiderio di felicità, fondato sulla conoscenza di sé.

Letizia Antonio

Gugliandolo Maurizio

Capobianco Michele

De Marinis Roberto

 

BIBLIOGRAFIA :

www.freud-lacan.com/documents/docs/efenzi140798.shtml

www.newearth.it/oc-crit.htm

Enciclopedia multimediale "Encarta 98", 1993 – 1997, Microsoft Corporation

Nuovissima Enciclopedia Generale DeAgostini, Editris S.n.c. Torino, Novara 1991.

Salinari e Ricci "Storia della Letteratura Italiana", Volume I, Tomo 1, Editori Laterza, Bari, 1994