IDENTITA’
IN DIVENIRE ( o IN DISSOLVENZA)
Un busto femminile dipinto si offre alla luce con caratteristiche d’immagine sfocata, come se un vento avesse soffiato sulla persona in posa o come se la macchina fotografica (nell’atto di ritrarla), avesse subito un urto al momento dello scatto dando così origine a un’immagine “mossa”.
E
proprio questo viso luminoso appena percepibile nei lineamenti, dipinto da
Marcello Mogni con criteri realistici e tratto da fotografie di giornali alla
moda, appare alla visione come un’enigmatica e inquietante presenza che si
sottrae all’operazione di codifica poiché i tratti distintivi denunciano
evidenti rimozioni.
Un
po’ come succede quando si alita
sullo specchio: si appanna l’immagine riflessa pur individuandone le fattezze.
Ma
c’è di più, oltre ad un complicato processo nebulizzante che agisce da
diluente sugli elementi connotativi si sovrappone l’idea mentale di un campo
magnetico percepibile alla visione attraverso la sequenza di “bande”
verticali (od orizzontali) che solcano la superficie pittorica allo stesso modo
dei “disturbi” televisivi.
Disturbi
che offendono la visione e ottenuti “tirando” la pittura coi peli del
pennello, in modo che il colore debordi dai limiti compositivi.
Avviene
allora un’uscita di campo da parte del segno, capace di abilitare effetti
speciali attorno al ritratto con la materializzazione di uno spazio lucente,
mobile, energetico, connesso a un’impressione d’aura.
Naturalmente
qui i passaggi dalla forma rifinita a quella più soffusa dell’alone (che
elimina le linee di contorno) sono graduali così da
produrre il non facile esito di dissolvenza, leggibile per esempio
nelle deformazioni delle icone fotografiche, filmiche o quelle tecnotroniche da
video.
Come
del resto le evocano anche i colori a olio, tenuti sui registri aggressivi degli
aranci, verdi, viola (sovente accostati ai complementari che hanno il compito di
aumentarne la forza timbrica), tipici delle accensioni cromatiche a carattere
digitale.
Si
attiva allora un immaginario flou in cui l’identità delle persone (un
campionario di giovani metropolitani tratti da riproduzioni mediali) diventa
sfuggente, irriconoscibile, irraggiungibile.
Nell’arte
contemporanea, questo linguaggio caratterizzato dalle dissolvenze e
dialogante con la tecnica fotografica è senz’altro riconducibile alla figura
pop dell’inglese Richard Hamilton o ancora a quella carismatica del tedesco
Gerhard Richter i cui dipinti sembrano cogliere soggetti in movimento o
caratterizzati da violente sfocature.
Che
è poi quello a cui tende lo stesso Mogni attraverso il lavoro paziente di
pittore mentre per alcune soluzioni tecniche di sfumato, dove appunto i
connotati fisionomici perdono nitore, s’ispira anche ai plastici esiti dello
storico Medardo Rosso.
E’
sua infatti la scultura innovativa, antimonumentale di fine ottocento e primi
novecento: egli muove da una forme chiusa che, idealmente percossa dallo
spazio circostante, pare dissolversi nell’ambiente aprendosi ad esso.
Questo
avviene in funzione della luce che sdrucciola facilmente su piani non rifiniti,
non pienamente modellati, concretizzando in virtù di ciò quel senso
scivoloso delle forme.
Anche
Marcello Mogni individua sagome non pienamente concluse e ne rafforza gli
effetti concentrando l’attenzione sui guasti prodotti dalle “bande visive”
che attraversano la superficie pittorica affinché concorrano a sconvolgerne le strutture.
Una
pittura quindi come riproduzione di un reperto fotografico ulteriormente
distrutto spostando il senso da uno stato d’ istantaneità a quello di
costruzione codificante, “di pittura sulla pittura”, quasi immagine di luce
che si dissolve per fornire la sua intima quintessenza.
Naturalmente
tali figuralità sembrano assumere
valore totemico nell’esaltante aura che le circonda; aura
quale segno significante di un’interiorità psicologica e quale energia
galvanica capace di roteare nel vasto magma dell’inconscio
Ma
proprio in quest’accezione, l’abile manipolazione pittorica
dell’artista contribuisce ad evocare quegli specifici stati del profondo
atti a suggerire possibili e probabili identità.
Identità
ovviamente in germinazione, proposte esclusivamente a livello embrionale e che
attendono d’ inverarsi negli identikit di prossime, future generazioni.
Una
simbolica manipolazione genetica, dunque, capace di prefigurare
un’umanità in divenire anche se contemporaneamente non ci si esime dal
rispondere a inquietanti interrogativi cui ci sottopone
l’odierna scienza delle biotecnologie, investendo la sfera
dell’etica.
Sono
di questi giorni infatti le diatribe etico-scientifiche nate attorno alla volontà
di clonare l’uomo e di manipolare i suoi codici genetici.
Allo
stesso tempo, questi inquietanti personaggi, a metà tra apparizione e realtà
fisica, tra interiorità dell’essere ed esteriorità mondana, sembrano
transitare eterei sulla scena della pittura, ora abbagliati dalle luci di
vetrine ora da fari d’automobile o da vetri specchianti delle abitazioni, o
ancora, immersi in fosche e funamboliche atmosfere così da oltrepassare i
confini della materia per suggellare un abbraccio tra immanenza e trascendenza,
tra Eros e Thanatos, tra vita e morte.
D’altra
parte il filosofo Paul Virilio ci suggerisce che stiamo assistendo ad
un’apocalisse, cioè “alla fine di un mondo che vede la nascita di quello
nuovo”: da qui il pericolo “di un’estetica siderale della sparizione e non
più dell’apparenza”. Per questo motivo l’arte “… nella fase della
globalizzazione, per tentare di esistere può fare riferimento al corpo,
l’ultima cosa che resiste”.
Ed
è certamente quello a cui pensa Marcello Mogni quando colloca in ambiti urbani
le sue fantasmatiche figuralità come possibili habeas corpus, vale a
dire personaggi che portano il loro corpo: una sorta di parvenze
spettrali che denunciano sì la sparizione, ma al contempo sanno proporre una
futuribile identità, sebbene in dissolvenza.
Miriam
Cristaldi
Genova,
22 marzo 2001