Otto Hofmann

 

“Otto Hofmann, Berlino 1951” è il titolo della splendida mostra, composta di 60 opere quasi tutte inedite - pensata sia per l’incontro mondiale del G8 a Genova sia come progetto nell’ambito delle manifestazioni dedicate dal Goethe-Institut Genua alla città di Berlino - esposta contemporaneamente in due sedi: a Genova alla galleria Martini & Ronchetti (via Roma 9) e a S. Margherita Ligure nel Castello cinquecentesco, fino al 31 luglio.

La mostra documenta l’operato che il pittore Otto Hofmann  ha realizzato nel ‘51 a Berlino ovest nel dopoguerra, dopo essere fuggito (nel’50) dalla Germania orientale a causa delle divergenze politiche del DDR.

La vita di quest’artista tedesco, sperimentatore e innovatore, è alquanto burrascosa.

Nasce a Essen, nella Ruhr, nel 1907 e vive la sua infanzia in Turingia, vicino a Weimar.

Studia architettura a Stoccarda e s’iscrive al Bauhaus di Dessau. Qui segue i corsi di Klee e Kandinsky, mantenendo con quest’ultimo stretti rapporti artistici; nel ‘30 espone la sua prima personale all’interno del Bauhaus sperimentando le tecniche del collage e della fotografia. Intanto abbandona la Germania nazista e fugge a Zurigo dove frequenta il gruppo dadaista , poi va a Parigi. Nel ’39 viene arruolato nell’esercito e viene inviato in Francia, da qui al fronte russo. Lì viene fatto prigioniero fino al ’46: sono di quegli anni gli esemplari disegni e acquarelli astratti inviati alla moglie. Liberato si rifugia nella sua Turingia, ma nel 50 lascia definitivamente la Germania orientale. Dal ’66 al ’75 insegna all’istituto di Belle Arti di Torino finché, da lì in avanti, trascorrerà la maggior parte dell’anno in Liguria dove si dedicherà totalmente alla sua pittura astratta. Muore nel’96. Un ampio ed esaustivo catalogo realizzato dai Martini & Ronchetti, con testo critico di Markus Krause, documenta l’operato in mostra.

Si tratta di straordinari disegni a carboncino con, in alcuni casi, piccoli interventi di pastello colorato. In particolare, nei carboncini è possibile cogliere l’estrema essenzialità del segno aniconico capace di evocare un immaginario creativo e fantastico fortemente mentale, al contempo consapevole delle ricerche antitradizionali raggiunte dalla scuola tedesca del Bauhaus. Un segno, questo, steso nella sua massima tensione plastica e dall’aspetto formale quasi in rilievo.

 Infatti, Hofmann incide i suoi alfabeti con estrema precisione, senza ripensamenti, richiamando profondità spaziali e fughe prospettiche: i triangoli, gli angoli acuti, le forme circolari, stringono o allargano gli spazi attraverso un fitto trend di picchi e discese.

E ancora, il trascinamento col pennello dei segni (a carboncino) produce un fatto singolare: esso genera sul foglio innumerevoli scie di carbone fornendo così, alla percezione visiva, un ulteriore senso di moto che si aggiunge alla già movimentata sintassi del lavoro, per quei tempi, estremamente innovativa.

 

                                                                        Miriam Cristaldi