Giulio De Mitri

 

 

La poesia del frammento, il frammento della storia, la sfibrata stratificazione della materia pittorica che Giulio De Mitri fa interagire con altra materia, sono le costanti care all’artista che oscilla nel dualismo trasformazione/conservazione per sottolineare il meccanismo di difficili processi cognitivi: ora oscillanti nella direzione simbolico-sacrale (di natura mentale), ora in quella corporale (di natura fisica).

Legni, pietre, schegge di vetro, fili d’oro, piume, reliquie del passato, scarti di una cultura materiale, segnano lo scorrere di un tempo antropologico nella dimensione d’una spazialità percepibile come deriva di un trascorso da superare nella condizione di ultima frontiera, di ultima conseguenza, per poi entrare in un’atemporalità dove l’agire diventa meditazione, spiritualità.

Per questo - nel lavoro appartenente alla collezione “Franco Spaggiari” - la forma arcuata di un’icona al nero si fa sacrale supporto di friabili sedimentazioni cartacee (interagenti col derma pittorico) su cui spiccano due tronchi lignei: qui il richiamo alla natura si fa simbolo di una sospensione in grado di alitare sul presente l “anima mundi”, quell’essenza che è sorgente di vita  e che si pone come allegoria della ricostruzione di qualcosa che si è perduto e che si è ritrovato.

Un lavorare, quello di De Mitri, che se tende ad evidenziare un’esperienzialità dolce (morbidità piumate, gonfiori d’ovatta, turgidità cartacee…) sa anche visualizzarne una amara (lame vitree, chiodi, ferraglie arrugginite…) nel tentativo di incarnare l’eterna oscillazione esistente tra gli opposti, speculazione che concerne il tema della dualità come l’alternarsi della luce e ombra,  sacro e profano, reale e virtuale, vita e morte.

Questo, attraverso un’operosità tattile suggestiva che si ripropone anche nel Libro, posto in centro ai piedi dell’opera, quale elemento oggettuale comune, capace però di suggerire contenuti singolari.

 La scarsa ricerca dell’effetto, un poverismo di base, le tonalità ctonie, la naturalità delle paglie, abbinati a un sottilissimo raffreddamento del reale (con la sofisticata azione dell’ordine compositivo), tutto conduce a un passaggio linguistico, a una liaison che collega l’artista ai luoghi dell’infanzia (la campagna tarantina) con una riflessione su se stesso, sul contesto in cui si è formato e sulla cifra antologica, che è poi la sua carta d’identità.

 

 

                                                             Miriam Cristaldi