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Mirco FRANCESCHI

 

Capitalismo naturale

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P. Hawken, A. Lovins e L. H. Lovins

Capitalismo naturale. La prossima rivoluzione industriale

Edizioni Ambiente, Milano, 2001, L. 44.000.

 

Titolo originale: Natural Capitalism. Creating the Next Industrial Revolution, Little, Brown & C., Boston, 1999.

 

Ho avuto tra i primi l’edizione italiana di questo libro, grazie all’indicazione di V. Chioetto, leader dell’associazione Emissionizero di cui faccio parte. Si tratta di un’opera corposa che riprende le analisi dei ricercatori del Rocky Mountain Institute (già apparse in Fattore 4, per i tipi della medesima casa editrice), con il contributo fondamentale di P. Hawken.

Nell’ormai lontano 1981, un conservatore illuminato come C. E. Lindblom sosteneva che il pensiero utopico ha un ruolo preciso nella conoscenza: indicare le mete e sostenere l’azione politica. Sebbene il testo in oggetto non sia propriamente utopistico, o futuribile, gli autori indicano le linee guida di un cambiamento epocale nell’economia mirando, come recita il sottotitolo, ad una nuova rivoluzione industriale, rispettosa dell’uomo e dell’ambiente.

Per gli autori “il capitalismo – così come è stato praticato – è un’aberrazione dello sviluppo umano, finanziariamente vantaggiosa ma non sostenibile. Il cosiddetto “capitalismo industriale” non si conforma pienamente ai suoi stessi principi contabili. Esso liquida i propri capitali e chiama queste entrate redditi. Trascura di assegnare un valore economico ai maggiori cespiti di capitale che utilizza, e cioè le risorse naturali e i sistemi viventi, nonché i sistemi sociali e culturali che costituiscono la base del capitale umano”.

Essi muovono dalla constatazione che l’economia sta spostando l’attenzione dalla produttività umana alla produttività delle risorse. Questo cambiamento sarebbe idoneo a riqualificare l’occupazione, a migliorare le condizioni di vita dei paesi più poveri e a ridurre l’impatto umano sull’ambiente.

Il capitalismo tradizionale non ha mai assegnato un valore monetario alle risorse naturali e ai servizi forniti dagli ecosistemi, che stanno alla base delle attività economiche e della vita. Il capitalismo naturale invece contabilizza questi valori e punta all’uso efficiente delle risorse per soddisfare meglio i bisogni umani, rivolgendosi ad un modello biologico che esclude i rifiuti e spostando la produzione verso la somministrazione di servizi (invece che l’episodica vendita di beni).

Il capitalismo tradizionale è legato all’idea di un libero mercato che usa persone e risorse nel modo migliore, ai grandi impianti che massimizzano le economie di scala, all’idea che l’aumento del PIL migliori le condizioni di vita. Il capitalismo naturale definisce l’ambiente come involucro che contiene, rifornisce e sostiene l’intera economia, guarda all’insostituibilità dei servizi naturali che consentono la vita, considera mal concepiti i sistemi produttivi (che vanno riprogettati tenendo conto di tutte le forme di capitale: produttivo, finanziario, umano e naturale) e punta a realizzare sistemi di governance effettivamente democratici, basati sui bisogni delle persone.

I principi su cui si basa il capitalismo naturale sono:

1.    produttività delle risorse radicalmente superiore (i costi ambientali e sociali sono frutto di un uso antieconomico delle risorse);

2.    bio imitazione (cambiamento dei processi industriali attraverso il costante riuso dei materiali in cicli chiusi continui);

3.    economia di flusso e servizio (superamento dell’economia di merce e acquisto, puntando sul benessere in termini di qualità, utilità e prestazioni, facendo emergere nuovi valori e bisogni delle persone - cioè vendere risultati e soddisfazione, anziché cose);

4.    investimenti nel capitale naturale (per ottenere dalla biosfera il maggior numero di servizi e risorse).

Gli assunti teorici e le dinamiche industriali che stanno alla base della concezione degli autori si possono riferire all’opera di T. Ohno (padre del Toyota Production System) e alla sistematizzazione dell’approccio avverso allo spreco (i ”muda” – qualsiasi attività umana che assorbe risorse senza generare valore) operato da J. Womack e D. Jones nel libro Lean Thinking (Simon & Shuster, New York, 1996).

Gli argomenti su cui spazia Capitalismo naturale vanno dal settore delle automobili (indicando iperauto, propulsione ibrido-elettrica e celle a combustibile), al riciclaggio dei rifiuti, all’impiantistica industriale, ai quartieri cittadini (non solo la casa ecologica, ma anche elettrodomestici e urbanistica attenta alle isole di calore), alla produzione d’energia, alle fibre e i materiali, all’agricoltura e le soluzioni per l’acqua, alle emissioni dei combustibili fossili e i gas serra. Il lettore potrà trovare un elenco minuzioso d’opzioni possibili, rimanendo frastornato dalla poliedricità delle occasioni di risparmio energetico, al punto di rischiare di smarrire la concezione economica sottostante, espressa nel capitolo su come far funzionare i mercati.

Malgrado l’accento critico verso il capitalismo tradizionale, è evidente che gli autori considerano le loro proposte compatibili con l’attuale mondo economico e inserite nel processo d’accumulazione di capitali. In realtà, il lettore cui il testo si rivolge è l’uomo d’affari, attento all’opportunità di risparmiare denaro applicando tecnologie e pratiche commerciali innovative (non solo l’imprenditore del business ecologico, ma anche quello dei settori ad elevato impatto ambientale, che troverà motivo di perdere il sonno pensando alle possibili mosse della concorrenza e ai propri ritardi).

Gli autori, però, si allontanano da chi sostiene che i governi si devono deresponsabilizzare rispetto al controllo dei mercati, in quanto l’economia più austera (com'è insegnata dai teorici accademici) è solo lontanamente in relazione con i veri meccanismi di mercato. Anzi, ricordano che la caratteristica dei mercati è distribuire risorse scarse nel breve periodo; e che essi non sono altro che degli strumenti (ottimi aiutanti, ma pessimi padroni). I mercati sono, infatti, “solo poco più che dei sistemi per scambiare informazioni su ciò che le persone possiedono e desiderano: sistemi di regole per confrontare preferenze e opportunità, cercando un modo di procedere che premi alcuni senza danneggiare nessuno”.

Dopo le convenzionali questioni legate all’oligopolio e al fatto che le persone sono troppo complesse per comportarsi razionalmente come l’homo oeconomicus, gli autori mettono in luce la distorsione derivante dai sussidi (perché i settori che ne beneficiano, esternalizzando i costi, impedendo la trasparenza e monopolizzando il mercato, fanno lobby per ottenere nuove regole che li facilitino ulteriormente).

Anche l’idea del flusso di capitali verso le attività più redditizie viene discussa. Gli interventi di risparmio energetico di solito vengono scelti utilizzando il ripagamento semplice (che calcola in quanti anni gli investimenti cominciano a dare benefici economici) richiedendo una redditività molto superiore a quella degl’investimenti nella produzione ed equivalendo ad una distorsione nei prezzi che ci fa comprare troppa energia e poca efficienza. Così i capitali sono mal investiti; gran parte delle opportunità sono vagliate solo dal lato dell’offerta e non da quello della domanda. In questa distorsione s’annida un’opportunità imprenditoriale: è possibile distribuire miglioramenti di efficienza a costi inferiori dei costi operativi degli impianti esistenti. In generale ogni forma di risparmio di una risorsa scarsa o d’inquinamento evitato può essere considerata un’occasione imprenditoriale...

Oltre alle errate allocazioni di capitale, gli autori prendono in considerazione gli errori organizzativi (con un attacco alla gerarchia – definita, con K. Boulding, “un’ordinata catena di cestini della spazzatura, progettata per impedire che l’informazione raggiunga i vertici esecutivi” – a favore di un maggiore rischio individuale), gli errori di regolamentazione (piuttosto che favorire il volume dei consumi è meglio prevedere prezzi regolamentati che portano le aziende a guadagnare sui risparmi energetici effettuati – o passare a un sistema di rincari e sconti legato all’efficienza dei nuovi investimenti) e gli errori d’informazione (perciò è importante l’etichettatura degli apparecchi).

Tutti questi problemi sono considerati ostacoli al risparmio energetico. Le proposte per superarli vanno dal conteggiare le cosiddette esternalità, al modificare la struttura dei prezzi. La prospettiva più innovativa (che rimanda per alcuni aspetti al protocollo di Kyoto), è quella del creare nuovi mercati (come per esempio il mercato dell’energia risparmiata, per indurre a giocare sulla differenza tra il costo del petrolio estratto e del petrolio risparmiato).

Un richiamo, infine, al fatto che la competizione funziona solo se ci sono regole fatte rispettare e cui tutti si adeguano. In questo senso la globalizzazione merita una critica per “la recente tendenza ad affidare la creazione di regole ad organismi sovranazionali, per nulla trasparenti e contabilmente incontrollabili”, che minaccia i principi di base di quel mercato aperto che dovrebbe promuovere.

L’interesse professionale del sociologo viene però catturato dal capitolo sul Capitalismo umano.

L’idea di fondo è che i problemi non possono essere affrontati uno per volta (come consigliava Lindblom), settorialmente, con un’ottica lineare (delinquenza = più carceri; traffico = nuove strade; discariche abusive = sanzioni più pesanti; budget limitato = tagli alla spesa o maggiori tasse...). Solo affrontando una serie di problemi contemporaneamente, in un’ottica sistemica, si possono considerarne i legami causali, individuando i punti chiave che potrebbero trasformare i rischi in opportunità.

Gli autori quindi propongono di governare la società e le città in base agli stessi principi che dovrebbero ispirare la produzione naturale. A loro avviso, una prospettiva sistemica ad ampio raggio potrebbe salvaguardare non solo il capitale naturale, ma anche il tessuto sociale (il capitale umano). Come l’ambiente naturale, i sistemi sociali giocano un duplice ruolo: non si limitano a fornire risorse umane monetizzabili (menti istruite e braccia qualificate), ma offrono anche dei “servizi del sistema sociale” non monetizzabili e altrettanto importanti (cultura, conoscenza, rispetto, amore, valori e comportamenti che definiscono la natura umana e conferiscono dignità alle nostre vite).

Così, come una produzione sbagliata può distruggere l’integrità ecologica di un ambiente, un metodo sbagliato di valutazione delle risorse umane può pregiudicare l’integrità sociale di una cultura, al punto di renderla incapace d’assicurare la serenità e la valorizzazione dei suoi membri. La tesi degli autori (peraltro non originale) è che il capitalismo industriale oltre al capitale naturale sta liquidando il capitale umano: un sistema che si nutre di forza lavoro sfruttata, che penalizza l’essere genitori e che sottopone anche i lavoratori più capaci all’incubo di perdere il posto, corrode la comunità e mina alla base la società civile.

Gli autori si volgono quindi a rileggere i principi del capitalismo naturale in chiave sociale, con una prospettiva molto diversa da quella di chi si chiede se è ancora possibile rispettare le libertà individuali in un mondo pressato dalla globalizzazione...

I bisogni umani sono soddisfatti da combinazioni di prodotti, forme d’organizzazione sociale, valori e norme, spazi e contesti, comportamenti e attitudini. Il capitalismo industriale si focalizza sulle modalità di soddisfazione materiali e tangibili, premiando la vendita di beni e servizi monetizzabili. Il benessere della società, però, non dipende solo dalla scelta di mezzi idonei a soddisfare i bisogni, ma anche dalla comprensione dei modelli associati a quei mezzi. Nel capitalismo industriale esistono prodotti che competono in mercati di nicchia per soddisfare bisogni che in buona parte non possono essere soddisfatti da beni materiali. Nelle culture tradizionali, dotate di risorse scarse, i bisogni vengono soddisfatti col minore spreco: è necessario che le azioni intraprese soddisfino molteplici bisogni. Questa logica globale è premiante in particolare nei paesi in via di sviluppo dove, prima che altrove, è arrivata la grande questione del nuovo modello di scarsità (grande popolazione e scarsa natura). La domanda quindi è: “a parità di sforzi, a quanti più bisogni si potrà dare risposta?”.

In questo contesto gli autori fanno riferimento ad un’esperienza brasiliana che costituisce un modello di città sostenibile in un paese in via di sviluppo. La pericolosa condizione di Curitiba, che combina povertà di risorse e quadro demografico esplosivo come molte altre città, è stata affrontata senza che diventasse un centro di squallida povertà. Essa ha raggiunto livelli di istruzione, salute, benessere, stabilità democratica, senso civico e rispetto dell’ambiente superiori a molte città del primo mondo.

Il traguardo non è stato raggiunto con pochi megaprogetti, ma con centinaia di iniziative poco costose, semplici, locali e centrate sulla persona, nelle quali la popolazione ha assunto il valore di una preziosa risorsa.

Il “metodo Curitiba” si riscontra sia per i trasporti e l’uso del territorio (con un servizio di autobus veloci e un’edificazione correlata ai servizi disponibili – riducendo la congestione da traffico, risparmiando energia, favorendo la vitalità dei quartieri e lo sviluppo del senso civico), sia per l’ambiente naturale (acqua e verde pubblico sono stati visti in modo coordinato, destinando a parco le aree fluviali), sia per l’industria e la comunità (l’equilibrio tra industria leggera, commercio e servizi è stato perseguito favorendo la localizzazione delle imprese in prossimità temporale degli insediamenti urbani), sia per la salute (collegata al grado d’igiene e di nutrizione della popolazione), sia per la scuola (collegata al mondo del lavoro attraverso attività part time)...

Purtroppo, al di là d’un generico riferimento alla democrazia (ritenuta isomorfa e consustanziale al nuovo modello socio-economico naturale), gli autori non approfondiscono le dinamiche che hanno dato luogo e mantenuto in vita l’esperienza (rimandando all’iniziativa di un pater patriæ illuminato). Inoltre, l’amministratore e l’operatore sociale di una città del primo mondo in gran parte non potranno applicare i progetti e le azioni sociali di Curitiba (per esempio lo scambio di rifiuti contro cibo)...

Il sociologo non troverà poi indicazioni sulla metodologia della progettazione e dell’attuazione dei programmi sociali, o sulle condizioni che rendono possibile ottenere un uso pubblico dell’interesse privato. Nemmeno troverà lo specifico sociologico che alcuni ritengono necessario all’affermazione della propria identità...

Il rischio è però attendersi più di quanto la cultura degli autori possa dare. Val quindi la pena di sorvolare su alcuni passaggi naif e sul fatto che la questione centrale è, alla fin fine, quella della congestione da traffico. Anche perché non possiamo imparare il nostro mestiere dagli economisti...

Alla fine il lettore non potrà dimenticare l’analogia ecosistema - società; né resterà insensibile al richiamo d’una produzione rispettosa dei rapporti sociali. Alcuni troveranno poi conferma della propria prassi partecipativa e attivatrice delle reti sociali, per la quale s’avrà una definizione più chiara dell’importanza e del valore epocale.

 

 (Mirco Franceschi)

 
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