Io avevo un cane

A volte penso che sia grazie a quel cane se ora io sono qui. Perché quel cane non era solo un cane era anche una goccia. E quel cane che era una goccia ha fatto traboccare un vaso, e il vaso era la mia vita. Dunque penso che sia merito suo, a quel cane senza un vero nome.
 
Non ne ho mai scritto. Una volta, quando avevo 16 anni scrissi una poesia per lui, subito dopo il fatto. Da allora non ne ho più scritto, e ne ho parlato anche poco. Quando l'ho fatto, l'ho fatto nel modo che si usa tra persone cresciute, e ogni volta ho scoperto che non ero affatto cresciuta in quello specifico caso, e così semplicemente, come fanno le persone cresciute, l'ho rimosso.
E' colpa dell'NG se ora ne scrivo, seriamente, per la prima volta. E mi sa che sarà una roba lunga, perché c'ho dentro un po' di rospi che somigliano tanto a dei Velociraptor, una cassa di birra, e un bel po' di sigarette.
 
LA NASCITA
 
Dunque, avevo un cane senza nome, questo l'ho già detto. Di nomi in realtà ne ha avuti anche troppi, e questo secondo me non è mai un buon segno, l'indecisione su certe cose è significativa. Arrivò a casa dei miei, che allora era casa anche mia, la notte dell'ultimo dell'anno dell'89, tra le mani di un contadino. Il contadino era un conoscente di famiglia, perché viveva nella nostra casa di campagna e amministrava la nostra terra lì attorno. Il cane aveva poche ore di vita, sembrava un topo, a detta di mia madre, che aprì la porta quella sera e lo lasciò entrare.
Il contadino non era solo un contadino, era anche un uomo stupido. A casa sua, come in qualsiasi altra casa che avesse lo stesso fuso orario, si faceva festa. Tavolate imbandite, figli, nipoti, parenti, roba così. Questa gente non pensò alla cagna incinta che dormiva sull'aia. Alla loro cagna incinta. Cominciarono a darci sotto con i mortaretti, finché quella povera bestia non partorì e scappò per i campi, terrorizzata, abbandonando i suoi cuccioli appena nati. Era gente stupida, l'ho già detto.
Quattro cuccioli, tutti uguali, neri come la madre. Quando il contadino e la sua famiglia si accorsero di quello che era successo, la loro cagna era scappata già da un bel po', e tre dei cuccioli erano morti. Uno era vivo. Il mio cane.
Lo portarono da noi, perché avevano dato per scontato che la madre fosse morta, e a loro serviva un nuovo cane da guardia. Dovevamo tenerlo solo per un po', poi se ne sarebbero occupati loro. Solo un po' di tempo.
Non ho avuto nemmeno la soddisfazione di poter guardare in faccia quel contadino stupido, di guardarlo in maniera sprezzante - che è il mio cavallo di battaglia da anni - perché in quel momento ero probabilmente collassata nel soggiorno di qualcuno.
 
LA CONVIVENZA
 
Solo alle otto del mattino seguente, nell'entrare in casa, e più precisamente in cucina, capii che avevo un nuovo cane (Fuffi, il mio cane-salsiccia, era morto nell'estate dell'88, dopo una gloriosa - in tutti i sensi - vita di 12 anni).
C'era una scatola piena di stracci in cucina e quella scatola guaiva. La scatola, gli stracci, e i guaiti vennero immediatamente trasportati in camera mia, e lì restarono, fino al giorno in cui me li strapparono con la forza, dalle mani. C'era sul mobile del soggiorno una giornale di due giorni prima, sulla prima pagina c'era Gorbaciov che parlava di Perestrojka, guardai i guaiti dritti negli occhi e decisi di chiamarli Gorbie, il suo primo nome.
Quello che successe dopo, fu una sedicenne e un cane piccolissimo che avevano deciso che sì, insieme la vita pareva proprio niente male. La sedicenne nei primi tempi gli dava da mangiare con un biberon, il cane dormiva sulla sua mano, il cane piangeva se lei non restava lì con lui, ma il cane non piangeva quasi mai perché era difficile non trovargli la sedicenne appiccicata. Così andò per un po' di tempo.
Una mattina la sedicenne si svegliò molto presto, perché forse aveva sentito un rumore, e si trovò il suo cane addormentato al suo fianco, ormai era un cucciolo dalle zampotte grosse, e lei pensò che presto sarebbe diventato grande e forte, e poi pensò che era bellissimo. E si stupì di quanto fosse facile e naturale amarlo più di ogni altra cosa. Così andò per un po' di tempo.
 
PRIMI PROBLEMI
 
La madre del mio cane non era morta. Era fuggita nei campi e per più di un mese era restata là, a sopravvivere. Nessuno sa cosa o come avesse fatto per restare viva, quando ritornò era conciata da paura, ma stava ritta sulle zampe. Non si fidò mai più dei suoi padroni, e il suo carattere cambiò molto, anche se restò docile e servizievole. Si vedeva però che aveva uno sguardo diverso, e non amava più giocare con tutti come una volta. Tornò al suo posto, sull'aia, a fare la guardia alla casa e a correre dietro alle galline, per quanto la catena glielo permettesse.
Il contadino non aveva più bisogno del mio cane.
I miei genitori non ne avevano mai avuto bisogno.
Solo a me importava.
E io non valevo molto.
Mio padre, quando si faceva vedere in casa, continuava stupidamente a chiamarlo Gringo. Gli avevo ripetuto un milione di volte che il suo nome era Gorbie, che io l'avevo chiamato così, e che lui si era sentito chiamare così dal giorno che era nato.
Era stupido chiamarlo con un altro nome, lo confondeva e basta, ed era ancora più stupida la noncuranza con cui lo faceva mio padre, lo chiamava così perché gli andava, se ne fregava del cane, e se ne fregava anche di me. La ragazzina invisibile con il cane invisibile.
Mia madre lo chiamava Mìmi, che non è un vero e proprio nome, è un vezzeggiativo anconetano che si usa con i bambini piccoli e con le creaturine in generale. Non voglio neppure cominciare ad indagare su come mia madre abbia potuto permettere quel che poi è successo. Non l'ho mai fatto e non lo farò neanche ora, ci sono certe cose nella vita di una persona che non possono essere comprese o giustificate, ma solo giudicate, anche se è sbagliato.
Comunque alla fine cedetti sul nome Gorbie, nessuno lo chiamava così, il cane si sentiva chiamare in duecento modi diversi, e questo non gli faceva certo bene. Presi a chiamarlo Mìmi anch'io, per non confondergli troppo le idee. Continuava a dormire con me nel mio letto, lo facevo giocare con le pallette di gomma e mi occupavo io del suo nutrimento e dei suoi bisogni.
Il cane cresceva, e anch'io.
 
I PROBLEMI PEGGIORANO
 
Nessuno me lo disse apertamente ma non lo fecero per delicatezza. Semplicemente quello che pensavo io non contava niente, e quindi era inutile che ne parlassero con me. Anzi che ne parlasse con me, perché la decisione fu di mio padre e ne parlò a malapena con mia madre. Un giorno a tavola, all'ora di pranzo, aprì bocca e disse con tutta la naturalezza di questo mondo che il cane non poteva restare, e che era una bella rogna perché ormai il contadino non lo voleva più. Lo disse così, tra una forchettata e l'altra.
Io non sono mai stata una persona docile, ma ho una diplomazia innata che tante volte mi ha salvato il culo. E' una dote utile perché ottengo quello che voglio senza fare troppo casino. Io i muri non li ho mai buttati giù a cornate, io coi muri ci parlo finché non si sbriciolano. Ma con mio padre è sempre stato inutile parlare e così posai la forchetta e dissi "il cane resta" guardandolo dritto negli occhi. Poi ripresi la forchetta e continuai a mangiare. Pensai che dovevo continuare a mangiare, anche se avevo la nausea e tremavo come una foglia, perché avevo appena dato un ordine a un mio diretto superiore e questo si chiama ammutinamento, sissignore, e che io sapessi, nessun capo di una rivolta, nei secoli dei secoli, era corso al cesso a vomitare subito dopo aver dichiarato le sue intenzioni. Era un ammutinamento e mio padre lo prese come un ammutinamento.
Cominciò a dirmi che ero una cretina e che me le avrebbe date, lo disse gridando e io non alzai lo sguardo dal piatto e continuai a mangiare in silenzio, rigida sulla sedia per tutto il tempo. Sentivo che stavo per piangere dalla rabbia e allora mangiavo. Mio padre concluse il suo discorso chiedendomi se avevo capito bene, se era tutto CHIARO, e io - che non avevo sentito una sola parola di quello che aveva detto - non gli risposi, non alzai la testa, come se la sua faccia, le sua urla, i suoi occhi non fossero lì, a un metro da me. Lui si alzò di scatto da tavola e disse a mia madre che aveva una figlia deficiente, poi andò in terrazza a fumare.
Desiderai che morisse e immediatamente ebbi orrore di me stessa per quel desiderio, non trovai soluzione migliore che correre in camera a piangere.
 
APOTEOSI DEL PROBLEMA
 
Ero piccola, anche se avevo già sedici anni.
Forse in molte cose sembravo più grande, e in alcune me la cavavo abbastanza, ma in certe cose avevo proprio sedici anni, e per quel tipo di cose sedici anni sono troppo pochi. Per quello che potevo mi ero documentata: sapevo già che non bastava voler bene a un animale per farlo crescere bene, servivano anche cose più prosaiche, ma infinitamente necessarie come la giusta alimentazione, un adeguato esercizio fisico, un veterinario fidato.
Fuffi il cane salsiccia era entrato in casa mia quando io avevo quattro anni, e per forza di cose non ero stata io ad allevarlo. Anche dopo, quando ero già grande, fu sempre mia madre ad occuparsi materialmente di lui. Ora non potevo contare su nessuno, e quindi toccava a me crescere il mio cane. La cosa non mi dispiaceva affatto, e non mi pesava. Credo che segretamente avessi la speranza di dimostrare una completa responsabilità su di lui, e che di conseguenza non si sentissero negli impicci più di tanto, e mi lasciassero in pace.
Comprai un libro sui cani, e scoprii che Mìmi aveva molte caratteristiche del cane da caccia, anche se ovviamente era un bastardino. Di certo sarebbe diventato un cane grande almeno quanto la madre, e la madre aveva più o meno le dimensioni di un setter. Ormai era Marzo e Mìmi mi arrivava già a metà coscia. Lo portavo a passeggio e gli avevo insegnato ad obbedire ai comandi più elementari come "Alt" e "seduto", era un cane intelligente e sensibile, non faticai molto ad educarlo. Mi seguiva ovunque. A casa, scoprii che il mio ammutinamento stava dando buoni frutti: mio padre se ne stava buono già da un po', e io mi sentivo quasi in salvo.
Ovviamente non era così. Dopo un po' l'argomento tornò alla ribalta, ma non fu lui a parlarmene, fu mia madre. Il portavoce storico. Mia madre mi disse che non potevamo tenere il cane. Cercò di dirmelo nel migliore dei modi, ma non c'era un modo migliore per dirmi una cosa così. Mi disse che il cane sarebbe diventato troppo grande e che non potevamo tenerlo in quella casa. Mi disse che saremmo andati incontro a dei problemi con i vicini per colpa sua, perché era troppo vivace per vivere in una casa come la nostra.
Alle mie orecchie tutte queste buone ragioni suonavano come una raffica di cazzate, e a dire la verità, anche a distanza di dieci anni continuano a suonarmi così. La casa non è mai stata tanto piccola da non poter ospitare un cane di taglia medio-grande, e visto che è sempre stata nostra i vicini potevano anche andare a farsi fottere da uno stercoraro.
Questo grosso modo quello che risposi alle sue osservazioni, e questo grosso modo è quel che le risponderei tuttora. Lei tornava sempre più spesso sull'argomento e io ogni volta le dicevo che doveva smettere di parlarne, perché tanto il cane restava. Questo tira-e-molla durò quasi due settimane, finché un giorno mio padre mi disse che ora si era davvero seccato e io gli risposi che per me poteva seccarsi fino a disidratarsi, ma questa volta l'ammutinamento non funzionò. Scoprii quel giorno che non ci si può ammutinare più di una volta contro la stessa istituzione, e che un solo ammutinamento fatto da una sedicenne non basta.
Lui questa volta non gridò, ma mi disse che non potevo impedirgli in nessun modo di portare via il cane, perché quella era casa sua, e finché abitavo sotto il suo tetto e dipendevo da lui, io avrei fatto quello che lui diceva. E lui avrebbe portato via il cane. Così gli risposi, e questa volta gridavo io, che col cazzo avrebbe portato via il cane, non finché fossi restata in quella casa. E lui rispose che allora lo avrebbe fatto di mattina presto, quando ero a scuola.
Il cane dormiva di là, mentre io dissi a mio padre che lo odiavo e lo avrei odiato per sempre.
 
IN CERCA DI UNA CASA
 
Non mentii. Mi presi l'ultimo ceffone della mia vita per aver detto la verità. Mio padre non deve avermi dato più di cinque schiaffi da quando sono nata, e quello fu l'ultimo. Probabilmente me lo diede non perché gli avevo detto che lo odiavo, ma perché si vedeva che era vero, e una cosa così detta da un figlio non può considerarsi un successo. Non mi pento di averglielo detto. Mi riprenderei quello schiaffo un'altra volta preciso identico. L'odio che provai per lui in quel periodo era sacrosanto e se lo meritava tutto. E' mio padre e gli voglio bene, ma quando ripenso a lui che mi dice che mi avrebbe portato via il cane quando ero a scuola io lo odio ancora, sì, credo che per quella cosa lo odierò anche dopo che sarà morto.
Sapevo che non c'erano più speranze di tenere Mìmi con me. Piansi, minacciai e supplicai, finché mi resi conto che qualsiasi cosa avessi fatto sarebbe stata del tutto inutile. Capirlo e sentire il mio cuore che andava in pezzi fu un tutt'uno. Dovevo trovargli una nuova casa, un buon posto dove vivere, se dovevo transigere sulla mia felicità assolutamente non volevo farlo con la sua.
I miei volevano portarlo dal contadino stupido, nella capanna che mio padre si era costruito vicino alla casa, dove teneva un orticello che curava di persona, giornalmente, appena staccava dal lavoro. Per me era inaccettabile. Quell'uomo aveva già nuociuto alla madre del mio cane, ed era ovvio che avrebbe fatto lo stesso con lui. Di mio padre mi fidavo meno che del contadino stupido. Non sprecai fiato in opposizioni e lo impiegai per mettere annunci sul giornale, per la strada, negli ambulatori veterinari. Sparsi la voce prima tra i miei amici, poi tra i conoscenti, alla fine a chiunque incontrassi. Passavo i pomeriggi ad attaccare volantini e ad aggiornare gli annunci sul giornale, utilizzavo i pochi soldi che avevo in tasca per farlo. Per ironia della sorte nessuno voleva il mio cane, e io che avrei dato tutto per tenerlo non potevo.
Fu una settimana orribile. La mattina andavo a scuola e uscivo alle due, ogni giorno tornavo a casa con il terrore che mio padre avesse messo in pratica quello che mi aveva minacciato. Il pomeriggio portavo Mìmi con me e cercavo disperatamente di trovargli dei padroni. Tornavo a casa all'ora di cena e cenavo in camera mia, perché non sopportavo di dividere il pane con i miei genitori. Ormai non parlavo più con nessuno dei due. Mia madre era molto triste per questo ma io me ne fregavo, se soffriva le stava bene.
La sera mi coricavo presto perché ero distrutta, e fantasticavo di andarmene via di lì con il mio cane, di scappare, in pratica non avrei saputo dove andare perché ero senza soldi ed ero piccola, mi sentivo impotente, e avevo paura. Così ribattevo la faccia nella realtà e abbracciavo Mìmi più che potevo, e ogni volta pensavo che presto non avrei più potuto abbracciarlo prima di dormire, così gli piangevo addosso e lo stringevo, finché non mi addormentavo.
 
LA PARTENZA
 
Non mi ricordo il giorno preciso in cui Mimì abbandonò la mia casa. Credo di aver rimosso un sacco di particolari, perché a volte quello è l'unico modo per continuare a campare dignitosamente. Ricordo vagamente di essere salita sulla macchina di mio padre, e di averlo accompagnato fino alla fottuta casa di campagna. Non ricordo il viaggio di ritorno.
Una volta lessi una frase in un fumetto di Peanuts: Lucy stava tentando in tutti i modi di buttare fuori di casa suo fratello Linus, e proprio quando c'era riuscita sua madre aveva partorito un nuovo fratellino. Esasperata Lucy commentava la faccenda dicendo che non si poteva spalare l'acqua con un forcone. Nelle settimane precedenti alla partenza del mio cane a me era sembrato di spalare continuamente acqua con un forcone. Per quanti sforzi facessi la situazione non cambiava, fino al giorno in cui non ci fu più niente da fare.
Nessuno aveva voluto il mio cane, e il cane non poteva più restare. Ero diventata una schiacciasassi, come solo una sedicenne può diventare: litigavo furiosamente con tutti quelli che tentavano di convincermi che quella era l'unica soluzione, non avevo più paura delle minacce e degli insulti di mio padre, perché semplicemente niente sarebbe stato peggio che vedere andar via il mio cane. Eppure mi toccò vederlo.
Venne portato nel posto in cui era nato, poche decine di metri più in là, nella capanna di mio padre. Lui pensava si trattasse di una gita e correva tutto contento dietro alle galline. L'ultima cosa che ricordo di quella giornata sono i suoi occhi mentre mi vedeva andare via in macchina. Il contadino lo tratteneva per il collare e io lo vedevo rimpicciolirsi dal finestrino sul retro. Anche quando non riuscii più a scorgere chiaramente la sagoma continuai a sentire i latrati per un bel po'.
Io ero crollata sul sedile di dietro a sperimentare una nuova gamma di brutte sensazioni, molte delle quali sconosciute, e mi sentivo febbricitante e debole. Mi sentivo malata. Nelle ossa. Malata di una malattia che ti fa marcire dal di dentro ma che ti lascia viva, così mi sentivo. Era un dolore fisico, nelle ossa.
Misero una catena al collo del mio cane, che fino ad allora non ne aveva nemmeno mai vista una. Fu costretto a dormire in terra, chiuso nella capanna, da solo, dopo aver passato tutta la sua vita, fino a quel giorno, a dormire in un letto con me vicina. Non voglio immaginare quello che deve aver provato quella prima notte, quanto deve aver pianto e guaito senza capire perché non c'ero più, perché l'avevo lasciato solo. Quel pianto io non l'ho mai sentito ma è lo stesso nel mio cervello, e non credo che se ne andrà tanto facilmente. Come Clarisse nel Silenzio degli innocenti, anch'io ho un innocente che grida nella mia testa, e non ho nessun serial killer da fermare per farlo smettere.
 
QUEL CHE SUCCESSE DOPO
 
Lo andavo a trovare tutti i pomeriggi. Prendevo l'autobus all'andata e certe volte andavo direttamente lì da scuola, senza passare da casa. Ogni pomeriggio gridavo contro mio padre e il contadino perché non accettavo che il mio cane fosse legato ad una catena. Loro non dicevano niente, mi assecondavano come si fa con una pazza, tacevano finché non smettevo di maledirli. Scioglievo il mio cane e ci giocavo insieme finché era buio, poi percorrevo i soliti venti minuti di auto con mio padre per tornare a casa. Sedevo sempre nel sedile di dietro perché non sopportavo l'idea di avere mio padre tanto vicino. Credo che non volessi stargli vicino perché avevo paura che se me lo fossi trovato a tiro avrei potuto fargli qualcosa.
Sentivo che avrei potuto farlo. Sentivo che avrei voluto. In quei tragitti in macchina, dove il silenzio era tanto fisico che aveva anche un odore, avvertivo che il confine che esiste fra il desiderare una cosa e farla era troppo sottile.
 
Vidi il mio cane impazzire, di giorno in giorno. Non si abituò mai alla sua nuova vita, e impazzì. Non potevo stare tutto il giorno con lui, e non sapevo cosa succedeva quando io non ero lì. Avevo dei sospetti, e anche se erano dei sospetti li trasformavo in accuse, tanto per essere sicura. Il contadino aveva paura di me: una volta trovai una ferita sul corpo di Mìmi, alla base del collo. Era una ferita non grande ma piuttosto profonda. Non poteva essersela fatta da solo. Dissi al contadino che non mi importava di sapere cosa gli aveva fatto, ma che se risuccedeva io avrei fatto la stessa cosa a lui.
Seppi poi da mia madre che il contadino parlò con mio padre quella sera, e gli disse che ero una ragazzina cattiva, e che non c'era da meravigliarsi che il cane si lasciasse avvicinare solo da me, perché ero cattiva quanto lui. Mio padre non fece parola con me di questo episodio, probabilmente pensava la stessa cosa, ma ero pur sempre sua figlia. Il contadino aveva paura di me almeno quanto aveva paura del cane.
Mìmi dopo un mese di quella vita era molto cambiato. Abbaiava furiosamente e digrignava i denti se qualcuno tentava di avvicinarglisi, lo faceva con tutti, tranne che con me. Con me era lo stesso cane di sempre. Giocavamo per delle ore insieme, gli portavo la pappa e lui cominciava a fare le feste non appena sentiva i miei passi sullo sterrato, e cioè almeno cinque minuti prima che arrivassi. Spesso quando mi sedevo sull'erba mi si accovacciava sulle gambe e mi metteva il muso in grembo, come faceva quando era piccolo. Ormai era un cane piuttosto grande e non riusciva mai del tutto ad accovacciarmisi sopra senza far spuntare una zampa. Spesso restava lì e si addormentava. A volte mi addormentavo anch'io. Non so da dove mi arrivi questa certezza, ma credo che Mìmi non avesse mai sonno quando si addormentava, in pieno pomeriggio, sulle mie gambe. Credo che lo facesse per avere un sonno tranquillo, e per dimenticare la paura.
Sentivo la sua paura, era sconfinata. Aveva paura dal momento in cui apriva gli occhi al mattino finché non tornava a chiuderli la sera. Gli animali hanno modi misteriosi per comunicarti le cose, ma sempre inconfutabili. La sua vita era cambiata troppo, e troppo in fretta. Non era una cosa difficile da capire. Era un animale sensibile e intelligente, e queste due cose l'hanno fregato, proprio come succede alle persone. Fosse stato più stupido probabilmente ce l'avrebbe fatta.
Di giorno in giorno, non potevo fare a meno di vedere l'atteggiamento che riservava agli altri: era evidente che se qualcuno si fosse avvicinato più del dovuto lui l'avrebbe morso. Così passava le giornate solo finché non arrivavo io, e più restava solo più aumentava la sua paura.
Io cercai di parlare con mia madre, di dirle che Mìmi stava impazzendo, e che doveva tornare subito a casa nostra. Prese questa cosa come l'ultimo tentativo di una ragazzina che cerca di spuntarla. Allora un pomeriggio la portai con me, e così vide Mìmi ringhiarle contro e mostrarle i denti, con gli occhi pazzi. Mia madre non è mai stata stupida, non lo è adesso e non lo era nemmeno allora, rimase male per quel che vide e seppe che avevo ragione, non pensò che Mìmi fosse un cane cattivo, pensò che era un cane terrorizzato, e sapeva che l'unica cosa giusta da fare sarebbe stata farlo tornare con noi. Penso che per un secondo sia stata lì-lì per farlo.
Mia madre non è mai stata stupida, ma è una di quelle donne che nascono con l'idea della missione a tutti i costi. Lei trova sempre una missione da compiere, e deve compierla fino in fondo, anche se le fa schifo.
Ha sopportato sua suocera per quarant'anni passando sopra ad accuse, cattiverie e umiliazioni, fino al giorno in cui quella donna infernale non si è decisa a tirare le cuoia, e lo ha fatto perché aveva dato la sua parola di farlo. Non esiste il patteggiamento per mia madre. Non esiste la diserzione intelligente. Mia madre non è stupida, ma certe volte riesce quasi a farti dimenticare che non lo è.
Riportare a casa il cane significava andare contro le decisioni di suo marito. E questo entrava in conflitto con la sua missione principale, e cioè amarlo e rispettarlo finché morte non li avrebbe separati. Visto che la prima cosa era stata accantonata già da tempo era fermamente convinta nell'essere ligia almeno nella seconda. Ha cercato di inculcare lo stesso senso del rispetto a priori verso di lui anche a me e mia sorella, ripetendoci fino alla nausea che lui era nostro padre, che ci manteneva nella sua casa e non ci faceva mancare niente, per questo meritava rispetto e l'ultima parola sulle decisioni importanti.
La realtà delle nostre vite era in evidente contraddizione con quello che lei diceva, mia sorella all'epoca aveva già 28 anni e io 16, nessuna delle due era più una bambina. E anch'io, che ero molto più piccola, ormai avevo capito come funzionavano le cose a casa nostra. Nostro padre non passava né aveva mai passato tempo con noi, non si era mai curato di parlarci, di ascoltarci, di aiutarci se ne avevamo la necessità. Mia madre ci aveva cresciute praticamente da sola, e da sola si occupava della casa e delle nostre vite. Mio padre lasciava che fosse mia madre a sbrigare la maggior parte delle cose, e in linea di massima si disinteressava completamente della sua famiglia. L'unica cosa vera era che ci manteneva, e materialmente non ci mancava nulla.
Ha sempre tenuto una vita da single pur possedendo una famiglia. Aveva il suo lavoro e il suo orto da accudire e così passava gran parte della giornata fuori casa, quando c'era non parlava mai con me e se lo faceva era per rimproverarmi o vietarmi qualcosa, spesso per dimostrare semplicemente che esisteva ancora o per esercitare il suo diritto al comando. Senza dubbio ci amava, a modo suo, e credo che ci ami ancora. Ma non ci ha mai amato abbastanza da rinunciare al suo ermetismo e ai suoi interessi. Siamo sempre stati secondi per lui. E mia madre che l'ha sempre saputo - anche se all'epoca non l'avrebbe ammesso nemmeno sotto ipnosi - negava l'evidenza e si comportava come se fossimo una famigliola felice, si sforzava di tenere in piedi quella menzogna perché quella menzogna era l'unica cosa che contasse, sembrare una famiglia felice se proprio non riuscivamo ad esserlo: la missione di tutte le missioni.
E così se mio padre si pronunciava su qualcosa quella era legge. Mio padre non si pronunciava quasi mai, e mia madre pensava che fosse giusto premiare quel sovrumano sforzo con l'accondiscendenza incondizionata, quando capitava. Mio padre si era pronunciato molto chiaramente nei riguardi del cane, lei era l'unica che avrebbe potuto contrastarlo, ma mia madre non lo contrastò per non dispiacerlo.
Fu così che condannò a morte il mio cane.
 
QUEL CHE FECE IL CANE
 
Erano passati due mesi da quando il mio cane mi era stato portato via, era Giugno.
La scuola stava per finire, e io quell'anno ne ero particolarmente felice perché avrei potuto passare più tempo con Mìmi. Ormai da qualche settimana covavo un pensiero segreto: ero più che decisa a toglierlo da lì e riportarlo a casa. Senza la scuola tra i piedi avrei potuto badare a lui continuamente, e cercare di riparare ai danni che quella permanenza traumatica gli aveva causato.
L'avrei riportato a casa, e nessuno avrebbe potuto impedirmelo perché ero pronta a tutto. Erano passati solo due mesi da che Mìmi era lì, ormai era considerato da tutti un mostro.
E in un certo senso ero diventata un mostro anch'io. Non ero più spensierata come prima e mi sentivo invecchiata di cent'anni, ero infelice e sentivo che un bel po' di cose, che prima erano dentro di me, si erano rotte per sempre. Al loro posto era arrivata una sicurezza gelida e crudele, che mi faceva paura e faceva paura a mia madre.
Ero cresciuta. L'avrei riportato a casa, e avevo già pronti gli espedienti più meschini e biechi per tenercelo. Non avevo più paura di mio padre, se mai aveva avuto un ascendente su di me, dopo aver visto gli occhi della creatura che amavo di più al mondo cambiare dalla felicità alla pazzia, l'aveva perso completamente. Era come se all'improvviso il punto di vista da cui lo osservavo fosse cambiato, come se avessi subìto una velocissima zoomata all'indietro e lui ne fosse uscito completamente ridimensionato.
In parole povere mio padre era diventato uno stronzo qualsiasi, uno di quelli che quando sei nella merda se ne frega, uno che non fa nessuno sforzo per cercare di capirti, un egoista cosmico che pensa solo ai cazzi suoi anche se è la figlia a stare male. In quei due mesi avevo realizzato che lui non mi avrebbe mai protetto se ne avessi avuto il bisogno, e che dunque avrei dovuto sempre cavarmela da sola nella vita.
E' un uomo qualsiasi, mi dissi, e nemmeno della miglior specie. Posso tenergli testa ormai.
Successe qualcosa prima che potessi attuare il piano. Il mio cane ormai era pazzo, dentro di me io lo sapevo, anche se non lo ammettevo. Mi dicevo che ci sarebbe voluta molta pazienza e fatica, ma sarebbe tornato sano e felice una volta lontano da lì. Probabilmente invece ormai era troppo tardi. Sapevo anche questo. Era un informazione sepolta nella mia coscienza che non volevo accettare, ma lo sapevo.
Io continuavo ad essere l'unica persona che lo poteva avvicinare, la novità era che per due volte era riuscito a rompere la catena. La prima volta aveva tentato di aggredire la moglie del contadino e la seconda il contadino stesso. Non ci era riuscito per pura fortuna. Però era riuscito ad arrivare all'altro cane (che poi era sua madre) e a morderlo gravemente.
Dopo questi exploit Mìmi era stato rinchiuso in uno sgabuzzino semibuio che dava sull'aia, incatenato e con la porta sprangata. Quando arrivavo, lo liberavo e lo portavo a passeggiare, ma al guinzaglio, perché ormai era effettivamente pericoloso per gli altri lasciarlo sciolto, e prima di aprire la porta dello sgabuzzino dovevo parlargli a lungo per farmi riconoscere. Appena capiva chi ero si calmava immediatamente, ma conservava nello sguardo un qualcosa di malato che non se ne andava mai del tutto. Certe volte non riuscivo a guardarlo senza mettermi a piangere, era come assistere giorno per giorno all'agonia di una persona amata, agli sgoccioli della sua malattia terminale. Alla fine della giornata, in certi giorni benedetti, sembrava essere quello di un tempo, quello sguardo se ne andava per un po', e quello era il mio unico appiglio per credere ancora che potevo salvarlo. Gli ripetevo continuamente "ti porto via, ti porto via. Un po' di giorni ancora, una settimana, e ti porto via".
 
La campagna era al massimo splendore e spesso la mia famiglia al completo si trasferiva lì nel pomeriggio, e per la cena. A volte avevamo ospiti e io odiavo tutti loro quanti erano, con i loro sorrisi stupidi e i loro vestiti estivi, a mangiare e ridere e scherzare a pochi metri dal mio cane malato.
Era colpa loro se ora lui stava così e non se ne curavano affatto, dicevano "così è la vita" come se fosse stato uno scherzo della sfortuna a ridurlo in quel modo. Li odiavo, e si vedeva.
Mia madre in quei mesi aveva tentato in tutti i modi di ristabilire un contatto con me, ma da me aveva solo ricevuto veleno. Una volta mi si mise a piangere davanti e ne fui terrorizzata, la vedevo piangere e intanto sentivo tutto un mondo di piccole certezze che si sbriciolavano e scivolavano via con le sue lacrime. Anche se ero furiosa con lei, lei era tutto quel che mi rimaneva della mia famiglia, lei era sempre stata il punto di riferimento, la roccaforte, il bastione. Era lei la persona importante. Oltre quello c'era il mondo vero e io ne avevo paura, ci camminavo in mezzo, ma come tutti gli adolescenti ogni tanto mi voltavo per vedere se lei era ancora lì, a proteggermi. Avevo bisogno di mia madre, non poteva crollarmi davanti così. Ero sconvolta.
 
Successe di mattina, io ero a scuola, uno degli ultimi giorni.
Nessuno mi ha spiegato mai per bene quel che successe. L'unica cosa che so, è che venne il figlio del contadino a trovare i genitori. Aveva portato con lui, oltre alla moglie, anche i due figli: un ragazzino di circa di dieci anni e un bimbo di tre. Il bimbo di tre deve essere rimasto attaccato alla la madre per tutto il tempo della visita, per fortuna, ma quello di dieci no. Quello di dieci non si sa per quale motivo andò da Mìmi. Forse la porta non era chiusa bene, fatto sta' che Mìmi gli si avventò contro, e se non fosse stato legato probabilmente lo avrebbe ucciso. Se la cavò con un morso al braccio destro e una caviglia slogata. Il cane nel buttarglisi addosso riuscì a morderlo ma contemporaneamente lo spinse per terra, fino a farlo uscire dal suo raggio d'azione. Il ragazzino nel cadere si slogò la caviglia, ma è grazie a quella caduta se è vivo.
 
CONSEGUENZE
 
Il contadino e la sua famiglia odiava il mio cane già da molto tempo, avevano tentato di cacciarlo quasi subito dopo il suo arrivo, e so per certo che si lamentavano con mio padre della sua presenza. Credo che avrebbero tentato di ucciderlo se solo si fosse lasciato avvicinare, e di certo lo picchiavano quando io non potevo vedere. Lo odiavano quando non c'era motivo per farlo e ora che aveva morso il loro nipote il motivo c'era.
Mi dispiacque per quel bambino che non c'entrava nulla, ma tutti loro ne fecero l'espediente perfetto per sbarazzarsi di Mìmi una volta per tutte, e irrazionalmente non potei fare a meno di detestarlo.
Ora che aveva una ferita quasi del tutto rimarginata sotto la fasciatura, e zoppicava solo un po', la sua famiglia aveva smesso di preoccuparsi per lui e cominciava a vedere i lati positivi della faccenda.
Noi venimmo informati immediatamente dell'accaduto, e tenuti in costante aggiornamento finché il bambino non tolse la fascia e ricominciò a correre senza fatica. Ogni giorno il contadino parlava con mio padre, e sua moglie teneva mia madre al telefono almeno mezzora tutti i giorni. L'argomento era sempre quello: via il cane dalla casa. Non potei sentire le telefonate, ma qualche discorso del contadino a mio padre sì, e vidi il suo atteggiamento cambiare, dalla vera preoccupazione dell'inizio fino all'enfasi simulata, quando suo nipote guarì. Ogni giorno questa sceneggiata, sempre più ricca di dettagli e di pathos. Per due settimane. Mia madre non faceva niente, presa com'era ad interpretare Ponzio Pilato. Mio padre non faceva niente perché l'importante era che il cane non stesse tra le balle a lui.
La situazione però era tesa in campagna e per quelle due settimane sembrava di essere a teatro, ognuno a recitare la propria parte.
 
Ero dietro la capanna di mio padre e facevo il bagno a Mimì. Era sciolto e si lasciava insaponare docilmente, ogni tanto tentava un accenno di gioco. Sembrava un uomo invecchiato in prigione che non si ricorda più come si deve fare per divertirsi. All'improvviso sentii questa voce. Subito non capii le parole, era una voce piagnucolante, patetica.
Il contadino.
Per un attimo credetti che stesse parlando da solo. Poi sentii la voce di mio padre, i monosillabi di mio padre. Stavano discutendo davanti la capanna a pochi metri da me, un'altra delle loro inutili discussioni. E in questa inutile discussione stavano decidendo le sorti del mio cane. Appresi in questo modo che avevano chiamato un veterinario, e che a giorni lo avrebbero abbattuto.
 
QUEL CHE FECI IO
 
Asciugai il mio cane, lo ricondussi alla sua cuccia. Avrei dovuto portarlo a passeggio ma lo coccolai un po' e lo chiusi dentro. Non volevo fosse intorno a me in quel momento. Aveva già avvertito il mio cambiamento d'umore e aveva cominciato ad agitarsi. Non volevo fosse lì vicino a me. Avrebbe morso per difendermi e io non l'avrei fermato.
Piombai di fronte a loro quando ormai parlavano d'altro. Non fecero in tempo a fare niente. Acchiappai il contadino per la camicia e con tutte le forze lo spinsi a terra. Non se l'aspettava. Cadde giù immediatamente. Né mio padre né lui sapevano cosa fare. Prima che venisse loro in mente qualcosa cominciai a gridare. A urlare. Urlavo minacce e insulti e maledizioni a quel contadino steso ai miei piedi. Non so quanto durò. Poi mio padre mi prese per un braccio. Probabilmente voleva solo fermarmi, non strinse, ma io lo colpii lo stesso. Un manrovescio. Una botta d'avambraccio mentre mi liberavo dalla sua stretta. Lo colpii in pieno viso. Cominciai a dirgli di non toccarmi, di non toccarmi brutto bastardo, che non gli fregava niente di me, e io non ero più sua figlia, sua figlia era morta era chiaro? TUA FIGLIA E' MORTA HAI CAPITO?
 
Insomma feci la mia sparata.
E dieci secondi dopo averla fatta non sapevo più che altro fare. Potevo minacciare ma non potevo mettere in pratica le mie minacce, potevo mettere in pratica certe minacce che però erano proporzionalmente insufficienti alla situazione.
Mi sentivo morta, era vero. Come un soldato mandato in guerra con una cerbottana.
Più semplicemente ero troppo piccola, non avevo mezzi, non avevo alleati. Avevo solo nemici. Quando sento le persone rimpiangere l'adolescenza e quel tipo di gioventù acerba io penso che siano tutti pazzi. E' orribile essere giovani. Essere ragazzi è una crudeltà.
Forse quella gente non ricorda bene cosa significa essere del tutto irrilevanti davanti alle cose che succedono. Cosa significa non avere la possibilità di cambiare le cose, quando ti succedono. Mai più capiterà di trovarsi in una situazione simile, se non forse in estrema vecchiaia, o in malattia. Essere del tutto e completamente impotenti di fronte agli eventi che ti preme cambiare. Ed è una condizione che sei costretto a vivere quando hai ancora le ossa fragili, senza nemmeno il libretto delle istruzioni che ti spieghi come si rimontano i pezzi.
 
Non piansi. Senza piangere lasciai lì mio padre col naso sanguinante e il contadino col culo per terra. Tornai dal mio cane e lo feci passeggiare a lungo quella sera, e gli parlai molto. Lo portai lontano per i campi e lo avrei lasciato scappare, ma Mimì non sapeva scappare. Lo avrebbero ripreso di sicuro, perché avrebbe lasciato dietro di sé una scia di animali e cristiani feriti.
Quella sera, più di tutte le altre, mi fu difficile lasciarlo solo nella casa di campagna. Lo riaccompagnai che erano le nove passate e ad aspettarmi c'era mio padre con un cerotto sul naso, il contadino si era volatilizzato. Avevo sperato che mio padre se ne fosse andato, ma ovviamente era ancora lì e con un'aria molto preoccupata. Mi chiese molto duramente dove diavolo ero stata. Era stato in pensiero, ero una disgraziata, si vergognava di me.
Io mi vergogno di te, gli risposi.
Alzò appena una mano per cercare di colpirmi e io gli dissi che se lo faceva avrei lasciato il guinzaglio. Mimì aveva cominciato a ringhiare non appena lo aveva visto e ora abbaiava furiosamente. Mio padre riabbassò la mano e non disse niente. Mi guardò soltanto.
Come si guarda un mostro.
 
RITORNO A CASA
 
Dissi a mio padre che sarei tornata a piedi, e così feci. Rincasai che erano quasi le undici. Non sarei voluta tornare mai più. Sapevo cosa mi aspettava. Nel tragitto piansi molto e pensai a mille cose tutte insieme, ma sopra ad ogni cosa pensai a quello che avevo detto a mio padre e a come lui mi aveva guardato.
La condanna a morte di Mimì era un pensiero che aleggiava a pochi centimetri dal mio cervello, era un pipistrello nero che mi svolazzava davanti senza posa e senza senso. Era un pensiero che non si lasciava acchiappare.
 
A casa c'era mia madre che mi aspettava, in vestaglia, seduta in soggiorno. Aveva una tazza di camomilla in una mano e la sua testa nell'altra. L'unica luce della stanza era quella della televisione. Mi squadrò da cima a piedi e per un attimo non seppi se aveva intenzione di uccidermi o di mettersi a piangere.
Invece parlò. Mi chiese come stavo.
Stò bene, mamma. Le dissi.
Mi chiese di sedermi, poi si alzò e andò in cucina. Tornò pochi secondi dopo con una tazza identica alla sua e me la mise davanti. Poi si sedette.
Mi aspettavo una chiassata imperiale, anche qualche schiaffo a dire la verità, ma non mi aspettavo quello.
Mi abbracciò fortissimo e mi disse che non capiva cosa mi stava succedendo, che non capiva e non avrebbe mai capito perché ero troppo diversa da lei, e non sapeva come fare per cambiare le cose. Che stava impazzendo a vedermi ridotta così.
Poi mi disse Cristiana tu sei forte ma anche troppo sensibile. Cambia una delle due cose figlia mia, sennò starai sempre male.
 
MIMI A MORTE
 
Mio padre aveva paura di me, ma sapeva che comunque non avrei potuto fare niente. La paura che aveva verso di me era una cosa che andava aldilà di quella specifica vicenda, continuò ad aver paura di me anche successivamente, ed è una paura che non lo ha mai abbandonato. Semplicemente, credo che sia lo sconvolgimento che prova un genitore nel capire che suo figlio è cresciuto, e che ormai è fuori dal suo controllo. E' una paura che certe volte si trasforma in rispetto col passare degli anni, e infatti mio padre da allora mi ha sempre rispettata e anche oggi, nonostante la sua malattia, tiene in gran conto quel che dico. Praticamente sono l'unica persona che ascolta, o che non fa finta di ignorare.
Ma se quell'episodio di violenza fu paradossalmente il primo passo verso la mia credibilità ai suoi occhi, d'altro canto fu del tutto inutile ai fini di questa specifica vicenda. Mio padre sapeva quali erano i punti deboli delle mie offensive. Potevo spaventarlo ma non comandarlo, perché ero ribelle ma non avevo nessuna autorità su di lui, l'autorità non si conquista con la ribellione. Avevo ottenuto la stessa intoccabilità che prima era solo sua, ma non l'autorità. Era sempre lui che portava i pantaloni in casa. Li portava malissimo ma questo non cambiava il fatto.
Per un po' non successe niente ma alla fine mio padre riuscì a farsi morsicare da Mimì per via dei suoi modi. Un giorno mi spuntò alle spalle all'improvviso mentre stavo giocando con il mio cane, per dirmi che era ora di andare. Lo fece con un tono di voce molto brusco e avvicinandomisi troppo in fretta. Mimi credette che volesse farmi del male e per difendermi lo aggredì.
Io in quel momento ero seduta sull'erba con il guinzaglio in mano e non ero nella posizione ideale per trattenerlo. Riuscii a bloccarlo subito, ma mio padre si prese comunque un morso su una mano. Non molto grave a dire il vero, una ferita piuttosto superficiale, ma che divenne l'esempio emblematico della malvagità del mio cane. Mio padre mi urlò chiedendomi se ero soddisfatta ora, se ero contenta. Mi disse che era un cane pericoloso e pazzo, che mordeva anche i suoi padroni e che prima o poi avrebbe morso anche me. All'improvviso mio padre si preoccupava molto della mia incolumità, guarda guarda che novità. Il fatto che lui non fosse mai stato il suo padrone, e che Mimi non si sarebbe mai sognato di mordermi fu considerato irrilevante, e così Mimi venne abbattuto pochi giorni dopo.
 
FINE DEL MIO CANE
 
Fu fatto di mattina, una mattina qualsiasi, senza specificarmi quale. Il giorno prima Mimi era vivo, il giorno dopo Mimi era morto.
 
La scuola era finita, e ormai io andavo a trovarlo anche al mattino, soprattutto dopo quel che era successo con mio padre. Sapevo che avrebbe chiamato il veterinario e che lo avrebbe fatto uccidere, e pensavo che se avessi piantato un bel casino, ma di quelli parecchio grossi, il veterinario se ne sarebbe andato scandalizzato. Non era un gran che come piano, ma era tutto quello che potevo fare.
Purtroppo mio padre pensò la stessa cosa, e considerò quante probabilità ci fossero che io tramassi qualcosa di abominevole contro le sue volontà. Deve aver concluso che le probabilità erano elevatissime, e così tenne un comportamento da ladro. Sapeva che non arrivavo mai prima delle undici, perché la sera uscivo e il mattino dopo raramente mi svegliavo prima delle dieci.
Così lo fece fare alle nove di mattina, mentre io ero a casa a dormire.
 
Non fu difficile per lui far finta di niente la sera prima, a cena, e così quella notte andai a dormire con la solita ansia, ma senza sospettare che mio padre me lo stesse mettendo dritto dritto nel culo.
Così facendo mi tolse di nuovo il mio cane, e questa volta definitivamente. Mi impedì di salvarlo, e nel caso peggiore, di farlo morire sulle mie ginocchia, con le mie carezze sul corpo, e la mia voce nelle orecchie.
Invece morì sotto gli occhi freddi dei suoi nemici, senza di me, che gli avevo promesso di non lasciarlo mai. Gli venne fatta un iniezione letale, che gli lasciò qualche minuto di vita, in cui forse ha avuto tempo di odiarmi per averlo tradito. Non ho mai saputo dove si trova la sua tomba, se ne ha una.
 
CONCLUSIONI
 
Quel che successe dopo è scontato.
Piansi molto e per molto tempo. Quel dolore andava e tornava a ondate imprevedibili, e mi lasciava ogni volta debole e convalescente, come dopo una malattia che ti ha fatto molto male ma che non ha avuto la faccia tosta di ucciderti.
Quel dolore se ne andò lentissimamente, impercettibilmente, giorno dopo giorno, fino a che non sparì quasi del tutto e venne sostituito da altre cose.
Forse mio padre si aspettava una crisi isterica da parte mia, al suo ritorno, quel giorno. Una crisi isterica violentissima a cui avrebbe dovuto far fronte, e così si era preparato una faccia consona da sbattermi davanti, una volta varcata la soglia di casa. Sapeva di averla fatta marcia. Almeno così penso io. Quella è l'impressione che mi diede quando lo vidi rincasare: con una placidità quasi annoiata, fintissima, tradita dagli occhi neri come due punte di spillo.
Ma quella crisi isterica non arrivò mai.
E non arrivò più nulla per lui, da parte mia, per molto molto tempo - fino a quando gli riscontrarono la malattia - circa quattro anni fa'.
Non lo minacciai e non gli dissi quel che pensavo di lui, né che lo volevo morto né che lo odiavo, semplicemente vivevo come se lui non ci fosse più, o se non ci fossi più io.
Una volta, tre anni prima, mi aveva trattata malissimo a tavola, davanti a tutti, senza un motivo valido, e io avevo deciso che non gli avrei parlato più. Così avevo fatto. Ci avevo messo molto poco a capire che la situazione non era cambiata molto rispetto a prima, che era inutile non parlargli, perché non gli avevo mai parlato e lui non aveva mai parlato a me. Ne rimasi sconvolta perché all'epoca gli volevo molto bene e cominciavo a dubitare che lui ne volesse a me.
Questa volta però non mi sconvolsi di nulla, erano passati solo tre anni da quell'episodio ma sotto certi punti di vista ne erano passati mille.
Questa volta ignorarlo non mi pesava affatto. Questa volta pesava a lui.
Cercò a suo modo di rimediare, lo avvertivo. Ma la porta che avevo lasciato aperta - a volte disperatamente - per sedici anni, si era chiusa.
 
Io avevo un cane.
Se non ci fosse stato le cose sarebbero andate diversamente. Forse sarei arrivata lo stesso a certe conclusioni, ma più tardi, e con meno violenza, di certo con meno dolore, e questo mi avrebbe scoraggiato dal prendere certe decisioni.
Non appena presi la Maturità, due anni dopo, me ne andai di casa e venni a vivere qui.
Ho avuto la vita più facile perché mia madre ha potuto mantenermi, ma so che se non avesse potuto sarei partita lo stesso, a diciotto anni ero già abbastanza grande da sapermela cavare, se serviva. E soprattutto, al di sopra di ogni cosa, volevo andare via. Non mi è mai mancata la casa ad Ancona, neppure i primi tempi, quando qui era tutto nuovo e non conoscevo nessuno, tranne Marika che era partita con me.
Il primo mese vidi spesso Marika piangere di nascosto, per nostalgia, e io in un certo senso la invidiavo. Lei era partita, io ero scappata.
Dopo la morte del mio cane, feci come se fossi sola. Passavo del tempo con mia madre, volendole sinceramente bene, ma non mi fidavo più neanche di lei, perché lei sbagliava, come chiunque altro, lei sbagliava esattamente come sbagliavo io, e allora tanto valeva che della mia vita me ne occupassi personalmente. Non mi appoggiai più a lei quando mi sentivo insicura, quando mi sentivo sola. In realtà non mi appoggiai più a nessuno.
Il mio cane mi aveva insegnato ad essere autonoma, e un'altra cosa ancora, importantissima. Mi aveva insegnato i miei limiti. A sedici anni si pensa di poter fare tutto, cambiare il mondo è una meta raggiungibile. Più tardi si scopre che non è così. Io invece lo scoprii subito.
Scoprii che ero indifesa e debole, scoprii cosa vuol dire perdere quel che si ama, che è una cosa che può succedere e quando succede non puoi farci niente. E nonostante vai avanti e continui a vivere, il peggio può ferirti ma non ti uccide mai.
Ecco quello che aveva fatto quel piccolo cane. E' principalmente grazie a lui se, nel bene e nel male, oggi io sono così.
 
A volte penso se fosse arrivato a casa mia più tardi, qualche anno fa, o adesso. Se avessi avuto ventisei anni invece di sedici.
E' un pensiero che placa un po' il grande senso di colpa che mi porto dentro, perché a quest'ora sarebbe vivo e felice grazie a me, e non morto ammazzato a causa della mia impotenza.
A volte penso che se avessi fatto scelte diverse forse sarebbe ancora vivo, e non c'è nessuno nella mia testa che mi dice "no, escludilo".
Non ho mai perdonato mio padre per quel che ha fatto, ma non ho mai perdonato neppure me stessa per quello che non ho saputo fare.
 
EPILOGO
 
Mio padre ha l'Alzheimer.
I primi sintomi della malattia si sono manifestati circa quattro anni fa, ma quella è una malattia che sa aspettare prima di fare cuccù. Probabilmente ce l'aveva già da qualche anno prima.
Attualmente ha perso molto della sua lucidità, il controllo degli stimoli e in parte l'uso delle gambe.
Ogni volta che vado a trovarlo nella vecchia casa ad Ancona lo vedo sempre un pochino peggio, e so che quel che provo è affetto per lui.
Quando sono lì passo del tempo con lui, lo aiuto ad alzarsi e lo accompagno sulla terrazza quando vuole fumare, faccio attenzione che prenda tutte le pillole dopo i pasti.
Nonostante sia mia madre che si occupa di lui continuamente è a me che presta attenzione, come se dipendesse da me, e non da lei.
Mi ritrovo ad osservarlo in certi momenti, e credo che capisca ancora molto, più di quello che mia madre o mia sorella credano, a volte si comporta da persona dispettosa, fa i capricci e si impunta, e se loro pensano che sia tutta colpa della degenerazione della malattia, beh, non io. Credo che a volte ci faccia apposta per esprimere il suo dissenso, i suoi umori e quel poco che resta dei suoi desideri.
Ho pensato molto a lui negli ultimi tempi.
Ora sono abbastanza grande da capire certe cose che prima mi sembravano assurde. Posso non perdonarle, ma posso capirle.
Quel che so di lui è quel che mi ha detto mia madre, e quel che vedevo con i miei occhi. In entrambi i casi non si tratta di testimoni imparziali.
Quel che penso di lui è più una speculazione mentale che si è strutturata con gli anni, e quindi forse è una menzogna, mio malgrado.
Non so perché mio padre si comportasse così con me, e con mia sorella. Quando avrei potuto chiederglielo ero troppo piccola e debole, ora che vorrei farlo è lui ad essere debole, e così, non lo saprò mai.
Le persone crescono e perdonano, se son riuscite a crescere bene. E così forse penso che su certe cose io non ci sia riuscita, perché vedo il mio cane ucciso da mio padre, dal suo egoismo e dal suo modo insensibile di trattare le cose, e non riesco a perdonarlo perché lui trattava me allo stesso modo, anche se non mi ha ucciso.
Lui trattava tutti allo stesso modo.
Vorrei sapere le sue ragioni, vorrei delle giustificazioni, anche se so che non ne esiste una buona.
Vorrei sapere perché stò qui a scrivere su di lui, e a colpevolizzarmi per lui, vorrei sapere se ne vale la pena tutto sommato. Invece ho la sua tuta da ginnastica sformata e i suoi occhi indecifrati, e il suo culo secco stampato sul divano di casa, ecco tutto.
 
E ho una foto del mio cane, una sola, dove eravamo ancora cuccioli tutti e due.
Cap. Ripley

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