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Saggi e scritture

Maria Grazia Tundo

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Maria Grazia Tundo 1999:
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I NOMI

(incipit di Raffaele La Capria)

Prendo la penna per scrivere un romanzo, ma non mi va di scrivere un romanzo dove i personaggi si chiamino Giacomo, Antonio, Maria o Giuseppe, e però questi sono i nomi - o altri simili a questi - che uno scrittore ha a disposizione per raccontare una storia italiana. Ma non so perché, il semplice suono di questi nomi, che appartengono in genere a persone che conosco fin troppo bene, mi fa passare subito la voglia di scrivere.

Preferirei avere a disposizione dei personaggi che si chiamano Julien Sorel, Rascol'nikov o Alesa Karamazov, e invece ho a disposizione personaggi che si chiamano, come ho detto, Francesco, Maria o Giuseppina, e non so perché a me sembra che a questi personaggi non possa capitare proprio niente di interessante...

Il punto è che di inserire i volti che conosco e che vedo continuamente anche nel mio romanzo, beh non mi va proprio. Giacomo, per esempio, se appena sospettasse di poter diventare, anche con il solo suo nome, pretesto per il personaggio di un racconto, quantunque marginale, non starebbe più in sé nella pelle. E comincerebbe a raccontarsi ancora di più di quanto gli capita di fare normalmente. Migliaia di storie di sesso rubato o perverso e poi millanterie di ogni tipo, no grazie, ne ho già abbastanza. Per non parlare di Giuseppina con tutte le sue manie persecutorie, immaginatevi che broncio farebbe per ogni aggettivo che non ritenesse consono al suo personaggio.

Non si è detto che si scrive letteratura per agganciarsi all'universale e dimenticare i dettagli della quotidianità che non lascia tracce? Purtroppo l'ossessione del particolare che non si innalza a paradigma o che, se lo fa, si condensa in stereotipo, non mi dà tregua. Ed allora cerco disperato dei personaggi dai grandi tormenti, posti di fronte a scelte assolute, dilaniati da conflitti morali irresolubili. Ma mentre vedo uno sguardo obliquo, una fronte imperlata di sudore, ed una strana luce accendersi tra le pieghe del sorriso del mio protagonista, ecco che mi ricordo che si chiama Giuseppe e che Giuseppe in questo momento è travagliato dalla scelta tra il viaggio a Marrakech o a Parigi, perché Parigi d'agosto è piena di turisti italiani e, Dio mio!, non c'è niente di peggio dei turisti italiani, ma in Marocco fa un po' troppo caldo in questo periodo.

Guardo sconsolato il mio foglio sgualcito, senza più speranze di grandi universi e grandi orizzonti. Sono condannato al mio mondo di piccole storie italiane che non permettono l'illusione del sublime o del tragico.

E in questo brusio di nomi e spazi vuoti e silenzi e nomi ancora la penna scivola dalla mano, la mia buona vecchia stilografica fidata si impenna sul foglio, il pennino ruota su se stesso, una macchia comincia ad allargarsi... Compone una lettera, una E.

E... Emma mi sorride. Mi chiedeva felicità, passione ed ebbrezza. Le offrivo certezze, carezze sicure, un amore discreto, ma duraturo. Era così graziosa Emma, con la sua aria da signora raffinata e la risata infantile. Facevo l'amore con lei ogni sabato pomeriggio, lo ricordo ancora. La vita è così imprevedibile e spaventosa nella sua caoticità che era piacevole crearsi dei piccoli riti da innamorati. Cosa avete contro le abitudini? Vi illudete di poter dominare il tempo affrontando indifesi le idiote impennate della passione? Emma, la piccola signora che mi sfuggì un giorno, sembrava felice, serena, soddisfatta quando era mia moglie. Seppi solo molto più tardi, quando la vidi nel suo letto d'ospedale a lottare contro una dose eccessiva di barbiturici e contro lo squallore di una efficace lavanda gastrica, che si era innamorata di un tipo losco, un certo Rodolfo, pieno di fascino e soldi.. La mia piccola Emma, cosa ero riuscito mai a capire di lei? Il suo desiderio di passione si concludeva tra il vomito e la vergogna, insieme al nostro matrimonio.

Come potrei scrivere mai di me ed Emma in un romanzo? La storia è insulsa, se pure a suo modo tragica. I temi: la banalità dell'amore, l'irrequietezza femminile, la superficialità maschile. Stereotipi, vedete bene.

La macchia d'inchiostro mi sorride, mi macchierò la manica della camicia appoggiandomi al foglio, ma sento questo torpore tremendo, le palpebre di piombo. Chiuderò gli occhi solo per un secondo. Ed i nomi vorticano ancora.

Carlotta, Carlotta. La prima volta che vidi Carlotta distribuiva delle fette di pane spalmate di Nutella ai suoi nipoti, che le sciamavano intorno urlando da fare impazzire. Una festa di bambini, non c'è situazione peggiore per conoscere qualcuno. Una mia amica mi aveva già parlato della pacata bellezza di Carlotta con toni accalorati e consigliandomi di non cedere al suo fascino. La vidi, ricordo, proprio lì tra quei bambini e me ne innamorai follemente - se ancora così si può dire. Ma Carlotta non mi rivolse mai lo sguardo quella sera. Poi feci di tutto per possederla, il numero di telefono prima, poi l'indirizzo. L'inseguivo all'uscita dal lavoro, facevo finta di capitarle per caso davanti, benché gli appostamenti fossero in realtà lunghissimi, e lei poi compariva lì davanti a me, serena, a mala pena sorpresa dal mio concitato intrecciare frasi poco plausibili per salutarla. Credo non abbia mai neanche notato che ogni volta che tentavo di incontrarla mettevo quel gilet giallo che indossavo la prima sera del nostro incontro. Finii anch'io in ospedale - dopo un bel po' di mesi di appostamenti passati ad accumulare stress - a vomitare la mia vergogna. Avevo combinato davvero un casino quella sera: un sacco di Martini e poi quei maledetti tranquillanti, ma mi era così difficile dormire in quel periodo. E tutto quel sangue dalla testa per aver sbattuto contro lo spigolo dello scrittoio nel cadere a terra, mi sembrava che il cervello ne schizzasse fuori; il mio povero gilet completamente imbrattato di sangue, una stupida lettera interrotta proprio a metà.

Anche stavolta una lavanda gastrica aveva impedito a me ed a Carlotta di tramutarci in personaggi da romanzo. O forse è davvero solo colpa dei nomi se non mi riesce di scriverlo. Sono solo i nomi, i nomi, i nomi...

Certo se conoscessi un Julien Sorel, o un Alesa Karamazov ci sarebbe qui, proprio davanti a me, su questo foglio, l'inizio di un grande, grande romanzo...

 

 (Maria Grazia Tundo, "I nomi", in Continua tu, Roma, Edizioni minimun fax, 1996, pp. 43-46)

 

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