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Saggi e scritture

Maria Grazia Tundo

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Maria Grazia Tundo 1999 :
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La riscrittura delle fiabe:

La camera di sangue di Angela Carter

Scritture/Visioni. Percorsi femminili della discorsività, a cura di Patrizia Calefato, Bari, Edizioni dal Sud, 1996 (pp. 169-197)

 

 

 

 

[Rielaborazione di parte della tesi di dottorato in "Teoria del linguaggio e scienze dei segni" dal titolo, Scrittura letteraria, genere e costruzioni della differenza. Il narrare in Angela Carter, Biblioteche Nazionali di Roma e Firenze, 1994]

 

Riscrivere le fiabe

La raccolta di racconti La camera di sangue (1) del 1979 rappresenta la riscrittura e rielaborazione da parte di Angela Carter di alcune fiabe ben note ad adulti e bambini, la maggior parte delle quali fanno riferimento a quei racconti di fate di Perrault che Carter stessa aveva già tradotto in inglese. Una prima interpretazione di quelle fiabe era già stata dunque da lei attuata, poiché ogni traduzione è una lettura critica che sovrappone al testo originale una sua versione della "verità" dell'opera tradotta, in un inevitabile e talvolta fecondo "tradimento".

Successivamente, con questa raccolta di racconti, assistiamo ad una vera e propria "trasposizione diegetica" (2) che, modificando vari elementi presenti nella narrazione delle fiabe originali, ne produce una vera e propria transvalorizzazione (3), cioè mette in opera una trasformazione di natura assiologica del loro orizzonte di senso.

Possiamo considerare la raccolta un "macrotesto" (4), in quanto vi è un disegno preciso che unisce i singoli racconti, che pur avendo una loro autonomia, arricchiscono le loro significazioni tramite delle reciproche influenze. Riscrivere le fiabe modificandone in alcuni casi la struttura, in altri confondendo le funzioni dei personaggi ed i loro ruoli, in altri ancora operando contaminazioni con altri generi letterari significa per Carter mettere in atto una critica consapevole del proprio orizzonte culturale. Infatti le fiabe sono state spesso utilizzate per rinforzare ciò che Foucault chiama l'ordine del discorso o come mezzo per garantire la coesione sociale, piuttosto che per metterla in questione; non è un caso che la maggior parte di quelle di Perrault vengano concluse da un commento fatto dall'autore che, esplicitandone la morale, ne fa uno strumento didattico in modo da neutralizzare qualsiasi possibile presenza in esse di ambiguità.

 

Tra le braccia di Barbablù

Il titolo della raccolta, La camera di sangue (5) fa riferimento al racconto omonimo, che consiste in una puntuale riscrittura della favola di Perrault "Barbablù".

Come è noto questa fiaba è incentrata sul divieto che un ricco e potente signore dalla inquietante barba blu rivolge alla moglie. Il divieto è relativo all'entrare in una misteriosa stanza, di cui però le viene consegnata la chiave. Approfittando di un'assenza di Barbablù, la donna varca la soglia della stanza e fa la macabra scoperta che essa è piena dei cadaveri delle sue precedenti mogli. Scoperta dal marito a causa di un'indelebile macchia di sangue rimasta sulla chiave, sta per subire la stessa sorte delle altre mogli, ma l'arrivo dei suoi fratelli la salva (6).

Carter rispetta la fabula originaria, mantiene cioè le funzioni narrative inalterate e nella stessa sequenza, ma opera delle variazioni in relazione agli attanti e soprattutto in relazione allo stile narrativo.

La prima evidente deviazione rispetto al testo di Perrault è data dall'introduzione di un narratore autodiegetico (7), che cioè è il protagonista del suo stesso racconto. La narrativa è dunque orientata secondo il suo punto di vista. Invece del narratore impersonale e onnisciente che inizia a raccontare con il consueto "c'era una volta", con cui ogni fiaba viene localizzata in un passato mitico ed assoluto, qui il racconto prende l'avvio con le seguenti parole "Ricordo come passai quella notte nel vagone letto sveglia" (p.7). In questa maniera vi è una duplice e basilare deviazione rispetto al testo di Perrault: la protagonista stessa ci racconta la sua esperienza ed il presente usato nell'atto del rimemorare e nel dare l'avvio alla narrazione crea uno iato temporale rispetto agli eventi, che sono invece narrati al passato. Vi è insomma quella scissione tipica di ogni racconto in forma autobiografica. Si tratta della scissione tra l'io narrante e l'io narrato, che inizialmente risultano separati dalla differenza d'esperienza e che poi giungono a convergere negli ultimi paragrafi del racconto contraddistinti dall'uso del presente (8).

Nell'intero primo paragrafo di apertura sono già rintracciabili tutti gli elementi determinanti della storia:

Ricordo come passai quella notte nel vagone letto sveglia, incantata nel piacere tenero che l'eccitazione mi dava, la guancia in fiamme contro il lino immacolato del cuscino, il cuore che mi batteva forte, all'unisono con i massicci pistoni che con violenza spingevano senza sosta il treno: nella notte quel treno mi portava lontano da Parigi, lontano dall'infanzia, lontano dalla quiete bianca e raccolta dell'appartamento di mia madre, verso i territori imperscrutabili del matrimonio. (p.7)

Vi è un mutamento di stato che la protagonista sperimenta e che viene ricordato nel momento della transizione tra due luoghi dalla pregnante valenza simbolica: Parigi, l'infanzia ed il luogo chiuso, quieto e familiare rappresentato dalla casa materna ed il nuovo, misterioso territorio a cui avrà accesso, che viene prefigurato con eccitazione e delizia, e che appartiene al marito, il Marchese. In genere, ci ricorda Bettelheim, il compito della fiabe è proprio quello di dare espressione simbolica ai riti di passaggio o iniziatici, caratterizzati dalla morte di un sé vecchio ed inadeguato per poter rinascere su un diverso e più alto piano di esistenza (9).

E' da notare che nella descrizione del passaggio tra i due universi la protagonista lascia al treno la funzione attiva di trasportarla, treno che diviene così il correlativo oggettivo del suo desiderio, anch'esso incontrollabile potenza attiva che la spinge verso l'ignoto. Come risulta dal testo sopra citato, la sessualità ricopre un ruolo importante nell'economia del racconto. Il testo di Perrault invece non sembra soffermarsi sulla questione della sessualità, infatti in esso si sorvola sul perché la minore delle tre sorelle chieste in moglie dal ricco e potente signore sembri infine decidersi a sposarlo, malgrado la sgradevole barba blu e la sua cattiva fama.

Tuttavia Bettelheim ritiene che già il testo originale affronti la questione della sessualità e della sua possibile componente distruttiva (10) e che la funzione della fiaba sia proprio di agire da monito rispetto ai rischi legati al cedere alla curiosità sessuale. Infatti le mogli di Barbablu venivano da lui punite con la morte per il non aver saputo resistere alla tentazione di avvicinarsi alla stanza proibita del castello, cioè per aver commesso infedeltà nei confronti del consorte. Per ribadire con più forza la componente didattica della fiaba, Perrault stesso la conclude con un'esplicito commento che è anche un consiglio morale offerto alle donne: la curiosità, malgrado tutte le attrattive, è un ben tenue piacere in confronto ai costi che porta con sé (11).

Malgrado la chiusa normalizzatrice, la fiaba è inquietante anche nella sua versione originale in quanto il paradosso in essa presente è che, senza infrazione del divieto, lo sposo crudele e assassino avrebbe conservato un ruolo di compagno generoso e magnanimo. In qualche modo il narratore sottintende che la responsabilità della trasformazione di Barbablu in un essere malvagio è relativa alla disobbidienza delle mogli, che cedendo al proprio impulso "conoscitivo" (la cosiddetta curiosità), si avventurano nei territori accidentati e pericolosi del desiderio. L'infrazione da loro commessa è dunque relativa al sovvertimento del proprio ruolo sessuale passivo.

Tutti gli elementi della leggenda - e cioè la compresenza di perversione ed innocenza, amore e violenza, legame matrimoniale e morte - la rendono di difficile catalogazione, simile ai testi, di cui ci parla Bachtin, che sono caratterizzati dal grottesco e dall'ambivalenza, pur avendo ormai perso la dimensione giocosa e comica tipica del grottesco popolare medievale e rinascimentale (12); vi traspaiono infatti elementi di paura ed estraneità, che il riso non riesce più a vincere. Nel caso del racconto di Carter tale dimensione grottesca viene amplificata ed accostata al rapporto della protagonista con il proprio desiderio. Infatti si delinea un legame tra eroina ed antagonista contraddistinto dall'ambivalenza. L'eccesso stilistico e verbale che caratterizza il testo riesce inoltre ad introdurrre la valenza anche parodica del grottesco, che la fiaba scritta da Perrault non presentava.

In "The Bloody Chamber" il motivo della leggenda viene inserito in un contesto che si richiama agli stilemi del romanzo gotico, da un lato, e dell'estetica decadentistica, dall'altro. Il Marchese è un colto libertino dalle raffinate perversioni sessuali, la cui ricchezza poggia su traffici illeciti, che ha scelto la giovane, di umili natali, proprio per la sua innocenza (in questo vi è un esplicito riferimento al Marchese de Sade). Delle tre precedenti mogli, sofisticate signore dell'alta società, non si ha più notizia. Lo sviluppo del racconto è relativo all'iniziazione sessuale della fanciulla che, abbandonata la sua precedente innocenza, si inoltra nel territorio oscuro della conoscenza e del desiderio. Il conflitto che contraddistingue il tono del racconto della protagonista è infatti relativo all'attrazione e repulsione che il Marchese, con la sua testa leonina, il suo volto impassibile come una maschera e non segnato dal tempo, la sua imponente figura ed il suo odore maschile di pelle e spezie, suscita in lei. (cfr. pp. 8-9) Già quando la giovane indossa il collare di rubini che lui le offre come dono di nozze, e che fa pensare ad una gola tagliata, l'immagine di sé che lo specchio le rimanda è di identità con il monile:

Vidi quanto mi si adattava quella collana crudele. E per la prima volta, in quella vita innocente e reclusa che avevo vissuto, capii che in me c'era un tale potenziale di corruzione che mi sentii mancare. (p.14)

Il matrimonio si configura subito come luogo di esilio e solitudine, il cui effetto di seduzione è irresistibile. Tale dimensione viene ben localizzata nell'immagine del castello che costituisce la dimora della coppia. Vengono qui deliberatamente seguite le convenzioni narrative del "Gotico", fissate da quei pionieri del genere nel diciottesimo secolo che sono stati Horace Walpole ed Ann Radcliff, secondo cui gli scenari che fanno da sfondo alle vicende di quel tipo di romanzi devono rapportarsi in maniera diretta alle fantasie ed allo stato d'animo dei personaggi, creando ambienti percepibili come portentosi, ostili o misteriosi, dotati in qualche modo di un loro magico e minaccioso potere (13). Nel caso del racconto di Carter, il castello partecipa anch'esso della duplicità che contraddistingue tutto il testo; infatti è sia il luogo incantato delle fiabe che il contenitore degli orrori e dell'inquietudine del romanzo gotico settecentesco:

Il suo castello. La solitudine fatata di quel posto; quel castello, a casa né sulla terra né sull'acqua, un luogo misterioso, anfibio, incoerente rispetto alla materialità e della terra e delle onde, melanconico come una sirena che per sempre rimane abbarbicata alla sua roccia, in attesa di un amante annegato da tempo, in un luogo lontano. Quel luogo grazioso, triste, una sirena! (p.17)

Questa immagine liquida e rarefatta del luogo che sta per accogliere la giovane è la proiezione delle sue fantasie, dei suoi sogni, del suo immaginario fantastico nutritosi di favole e romantiche meditazioni sull'amore, consegnatole da tutta una tradizione culturale e letteraria. Ma il castello all'interno offre un'altra immagine: è sovrappopolato da specchi dalla contorta cornice dorata e da gigli bianchi dal profumo denso e malsano, mentre la biblioteca è piena di pesanti volumi pornografici ed osceni. E' in questo luogo che si consuma la prima notte di desiderio, vissuta come una lotta corpo a corpo, rifratta dai mille specchi appesi alle pareti che moltiplicano le immagini, lotta da cui lui esce vincitore (cfr. p.18). Ma colui che infligge la pena e il dolore è anche colui che consola e protegge, che si può amare e la cui assenza ferisce:

Tesoro, piccolo amore, bimba dolcissima, ti ha forse fatto male? Gli dispiace moltissimo, così impetuoso, non è riuscito a controllarsi; vedi, lui ne è così innamorato... una dichiarazione d'amore così teatrale mi sciolse gli occhi al pianto. Mi strinsi a lui, come se solo la persona che tanto dolore mi aveva provocato potesse consolarmi per aver così patito. Per un po' mi sussurrò all'orecchio con toni che mai avevo udito prima di allora, toni sommessi e rasserenanti, come quelli del mare. (p.24)

Anche la confusione narrativa di piani temporali e persone del verbo con cui la protagonista riporta le parole del Marchese nel brano sopra citato (dal passato al presente, dal resoconto in terza persona alle modalità del dialogo diretto) aiuta a percepire una delle dimensioni più interessanti del racconto: l'alternarsi continuo di fascino e repulsione da parte della protagonista nei confronti del mondo inquietante a cui lo sposo appartiene, con il carico di trasgressione, piacere e dolore che porta con sé. Più avanti infatti dirà: "Rimasi nel letto distesa, sola. E per lui provai desiderio, disgusto." (p.30). E' da notare la struttura sintattica perfettamente simmetrica delle frasi, soprattutto delle ultime due in cui entrambi i personaggi ricoprono alternativamente il ruolo di soggetto grammaticale, e la connessione paratattica tra le scarne asserzioni, che sembrano suggerire un'alternanza ossessiva di emozioni compresenti ed opposte, non integrabili in un'unità sintattica superiore. La giovane non è dunque succube delle circostanze e di una volontà più forte della sua, bensì gioca e sperimenta insieme a lui il perverso rapporto tra vittima e carnefice e le sue ambivalenze.

Il gioco si fa più incalzante e la narrazione riproduce nella concatenazione dell'intreccio la spirale vertiginosa creata del legame che unisce i due personaggi. Il Marchese, come nella fiaba di Perrault, parte e le affida le chiavi del castello, lasciandole libero accesso a tutti i suoi tesori, tranne ad una stanza, di cui però le dà la chiave. Le regole del gioco sono stabilite, insieme al suo esito. Che la giovane si inoltri nel ventre del castello, verso la stanza segreta è inevitabile: è ciò che la si spinge a fare nel momento in cui viene stabilita la proibizione. Nessuna volontà umana può sottrarsi al desiderio di trasgredire un divieto perché la proibizione rende l'oggetto precluso il fine di ogni ricerca, la sua ossessione insostenibile. Cosa cerca di scoprire nella cavità più profonda del castello, la verità sulla natura dell'uomo con cui divide l'intimità dei corpi, o una verità ancora più crudele su se stessa?

Ciò che vi trova è una camera di tortura, la "camera di sangue", arredata con gli strumenti più perversi per infliggere dolore e morte, ma soprattutto vi trova una connessione con quell'amore di cui aveva già conosciuto qualcosa nel letto coniugale: i cadaveri lacerati e smembrati delle sue tre precedenti mogli, di cui anche lei tra breve avrebbe condiviso la sorte. Infatti la chiave nel frattempo caduta a terra e macchiata indelebilmente di sangue è il segno della trasgressione compiuta dalla giovane che non potrà non essere punita. Il piano ordito dall'uomo si è svolto esattamente secondo la sua volontà:

Sapevo di essermi comportata esattamente come aveva desiderato lui.[...] Si era preso gioco di me spingendomi, attraverso il mio stesso tradimento, in quel buio senza fine in cui, in sua assenza, ero stata costretta a cercare l'origine, ed ora che avevo incontrato quella sua realtà segretamente sorvegliata che risaliva alla luce solo in presenza delle atrocità commesse, dovevo pagare il prezzo di ciò che avevo appreso. Il segreto della scatola di Pandora.[...] Avevo perso. Perso in quella charade di innocenza e di vizio in cui egli mi aveva coinvolta. Perso, come la vittima perde con il boia. (pp.48-49)

Il Marchese è dunque il vampiro che odia la luce del giorno, obbligato a gioire delle atrocità commesse sulle anime e i corpi di chi egli desidera, è l'essere che conosce e attraversa tutte le opache densità dell'amore. Un amore che deve distruggere per possedere, come i corpi delle donne nella stanza proibita che attestano dell'abiezione sottesa alla passione, che attestano di come tra uomo e donna il gioco dell'amore possa rivestire i colori della ferocia inusitata, della distruttività più assoluta. L'oggetto di passione può essere incorporato solo a prezzo della sua distruzione, cioè della sua perdita irrimediabile, soprattutto se l'oggetto appartiene all'altro sesso visto come minaccia da cui doversi difendere, costruzione fantasmatica che ha gli attributi di una potenza irrazionale e asimmetrica da dover schiacciare, ricordo di quella arcaica presenza materna detentrice di un potere vitale e temibile. Ma se l'oggetto è distrutto per sempre, anche l'io che nel cancellarlo pensava di rimarcare la propria differenza e di separarsi una volta per tutte, ha sancito la propria distruzione, si è tramutato in abietto disperso nelle acque dell'insignificabile. Senza che la spirale di amore e morte possa più fermarsi.

La giovane, che ha accettato di sapere, tramite la abiezione del proprio sposo, qualcosa di più della propria, si ritrova nel racconto a dover portare inciso sulla propria fronte e per sempre il marchio di sangue di quella chiave che le dato accesso all'orrore della conoscenza, portandola

a squarciare il velo del mistero comunitario sul quale si costruisce l'amore di sé e del prossimo per intravedere l'abisso di abiezione che li sottende. [...] Perché l'abiezione è in fondo l'altra faccia dei codici religiosi, morali e ideologici sui quali poggiano il sonno degli individui e i momenti di calma delle società. Questi codici ne sono la purificazione e la rimozione. ma il ritorno del loro rimosso costituisce la nostra "apocalisse" (14).

Nel racconto si inserisce, inoltre, un personaggio non menzionato nella fiaba di Perrault, che prende il posto di quella sorella Anna che fungeva da tramite tra il mondo claustrofobico del castello e l'esterno: l'accordatore del pianoforte che la giovane amava suonare nelle lunghe ore di solitudine. Tramite lui, cieco e mite, si delinea la possibilità di una forma diversa dell'amore. Forse è proprio la sua cecità, a rendere possibile una relazione diversa, non basata sulla ferocia della visione che seziona e delimita i contorni, che vuole conoscere per possedere, che distingue e oppone sé all'altro. L'uomo, il cui sguardo è spento, non può più valutare, dominare, controllare, conosce e accetta la propria dipendenza: lo squilibrio di potere che usualmente caratterizza il rapporto eterosessuale può essere colmato.

Il finale del racconto, con la sua esagerazione melodrammatica, inserisce una dimensione parodica nei temi dell'orrore e della morte. La dimensione definitiva del racconto rimane infatti indecidibile, mantenendo quest'ultimo un'ambivalenza di fondo, un'oscillazione sospesa tra l'orrore e il carnevale, tra il terrore e il riso. Il finale infatti appartiene completamente alla madre dell'eroina, che arriva a cavallo armata di tutto punto nel momento cruciale in cui la figlia sta per essere decapitata e la salva uccidendo il Marchese con la sua pistola. Si tratta di una figura non prevista nel disegno di alcuna fiaba tradizionale, che di solito riserva la funzione del salvataggio a seguito di una lotta ad un uomo, ma la descrizione del suo arrivo è assolutamente identica alle descrizioni riservate all'eroe maschile:

Mai avevo visto nulla di tanto sfrenato quanto mia madre, il cappello impigliato nel vento era volato via nel mare così che i capelli erano la sua bianca criniera, le gambe nere inguainate in filo di Scozia scoperte fino alle cosce, le gonna rimboccata a vita, con una mano teneva le redini del cavallo impennato, con l'altra stringeva il revolver d'ordinanza di mio padre.[...] Il giorno del suo diciottesimo compleanno mia madre aveva sistemato una tigre divoratrice di uomini che aveva razziato nei villaggi delle colline a nord di Hanoi. Ora, senza un attimo d'esitazione, alzò la pistola di mio padre, prese la mira e colpì con un unico colpo letale mio marito alla testa. (p.57)

Nel contempo questa figura materna, che sembra porsi come risoluzione didattica e capovolgimento in senso scopertamente femminista della fiaba, risulta soprattutto una rappresentazione parodica della figura dell'eroe, non certo così ingenua come alcune interpretazioni preferiscono pensare (15). Non è l'idillio madre-figlia che qui si celebra (16); vi appare invece l'esemplificazione di come sia possibile capovolgere l'effetto di senso di una struttura rigida come quella fiabesca modificandone solo alcuni elementi: in questo caso basta dare alla madre della "vittima" il ruolo di artefice della liberazione, ribaltando le aspettative legate al topos, perché il meccanismo si inceppi ed il senso si sposti in una direzione più chiaramente ludica e demistificante.

 

I due volti de "La Bella e la Bestia"

I due racconti "La corte di Mr. Lyon" e "La sposa della tigre" costituiscono due contrastanti versioni della fiaba "La bella e la bestia". Il primo si conforma maggiormente alla versione tradizionale della fiaba di Madame Marie Leprince de Beaumont, nel secondo la deviazione dall'originale è molto più evidente.

La fiaba originaria inizia col presentare tre sorelle, di cui due malvagie e tremendamente invidiose della terza, la più bella e buona di tutte. Quest'ultima, per salvare la vita del padre, accetta di sacrificarsi e di offrirsi come vittima ad una orribile Bestia, che è però in grado di comportarsi come un essere umano e che possiede un meraviglioso castello ed immense ricchezze. Ma la Bestia (in realtà un meraviglioso principe vittima di un incantesimo) la tratta con enorme gentilezza e rispetto e quando la Bella lo vedrà sul punto di morire per causa sua, scoprirà di essere innamorata di lui, malgrado il suo aspetto repellente, e così facendo scioglierà l'incantesimo (17).

Il racconto "La corte di Mr. Lyon" è narrato in terza persona, ma spesso secondo le modalità del discorso indiretto libero, il che già di per sé implica uno spostamento di prospettiva rispetto alla narrazione onniscente della fiaba originale. Il discorso indiretto libero, in quanto "fusione interferenziale di due atti di parola diversamente orientati" (18), inserisce una nota di ambivalenza e dialogicità all'interno della struttura narrativa: narrazione e discorso dei personaggi si confondono e sovrappongono. Inoltre questa tecnica narrativa dà una evidenza di "modernità" all'organizzazione testuale, poiché è ormai frequentemente utilizzata in tutta la letteratura contemporanea, e quindi acuisce lo scarto temporale tra il racconto e la fiaba di riferimento.

Il titolo, già indizio interpretativo come ogni titolo, sarà determinante nel cogliere l'orientamento valutativo dell'"autore implicito" (19) rispetto alla narrazione.

Il racconto si apre con un'immagine in qualche misura tipica per un personaggio femminile in una struttura narrativa tradizionale: la giovane e graziosa ragazza che attende con trepidazione il ritorno del padre, ormai in ritardo, guardando attraverso le finestre della cucina mentre svolge i suoi lavori domestici. Eppure non vi è nessuna traccia di ironia nella descrizione di questo topos, anzi il linguaggio fluisce incantatorio mentre tratteggia l'ansia della giovane che si mescola al cadere soffice dei fiocchi di neve nella luce fioca di un pallido tramonto invernale.

La seconda immagine, come in un cambio di scena effettuato da una cinepresa, ci mostra il padre della Bella, bloccato nella neve a causa della vecchia macchina che non parte più, di cui subito sappiamo, ancora una volta secondo le modalità del discorso indiretto libero, che è definitivamente rovinato economicamente, al punto da non potere neanche regalare alla figlia adorata la rosa bianca che lei gli aveva chiesto in regalo. Ed ecco comparire all'orizzonte l'immagine di una casa in stile palladiano, sicuramente di proprietà di una ricco eccentrico, a cui l'uomo si rivolge per cercare aiuto. Ma la casa gli appare vuota: nessuno lo riceve, tranne un cane con un collare di diamanti, benché le porte gli si aprano misteriosamente davanti e tutto sia predisposto per accoglierlo e farlo rifocillare. Superata la soglia della casa, le leggi ordinarie del mondo (insieme a quelle della narrazione realistica) non sono più applicabili.

L'azione che fa modificare il tranquillo svolgersi del racconto è il "furto" da parte dell'uomo di una rosa bianca del giardino del ricco signore, che, offeso per ciò che considera un atto di ingraditudine da parte dell'ospite, gli compare dinanzi in tutto il suo poderoso aspetto leonino, presentandosi a lui come "la Bestia". In cambio della rosa chiede allora di poter avere la Bella presso di sé.

La scena successiva vede di fronte la Bestia e la Bella, la cui presenza nella casa di lui sarà il prezzo che garantirà, secondo una sorta di reciprocità magica, la ricchezza del padre. Ciò che appare con evidenza è la differenza tra le due figure: la terribile e ferina alterità di lui contrasta con l'innocenza sacrificale dell'Agnello che Bella rappresenta:

Un leone, in fondo, è sempre un leone, un uomo è sempre un uomo e, benché i leoni siano di gran lunga più belli di noi, pure appartengono ad un diverso ordine di bellezza e per di più non ci rispettano: perché dovrebbero? Eppure le fiere hanno di noi un terrore assai più razionale di quello che noi proviamo per loro. (p.106)

 

La differenza tra il leone e l'essere umano viene affermata come assoluta, il conflitto tra le due specie visto come inevitabile, ma in qualche modo la maggiore razionalità della paura per l'altro viene, con un subitaneo capovolgimento della prospettive, attribuita al leone. Nel contempo l'orrore che la Bestia provoca anche nella Bella non è dovuto ad una qualche mostruosità del suo aspetto, bensì a quella bellezza che, essendo di un ordine differente da quella umana, non può essere misurata secondo gli usuali criterio di giudizio antropomorfici.

Ma la differenza assoluta che tra i due appare si stempera lentamente, nel corso del tempo e grazie ad una reciproca conoscenza, che fa sentire infine Bella felice in quel luogo dove "ogni legge del mondo naturale si era come sospesa" (p.110), benché la stranezza di lui la faccia ancora rabbrividire.

Poi, come nella fiaba originaria, Bella si allontana per far visita al padre promettendo alla Bestia di tornare alla fine dell'inverno, promessa che non sarà mantenuta. In qualche modo la vita nella dimora della Bestia, benché felice, apparteneva ad un'ordine dell'esperienza verso cui non si poteva provare che ambivalenza, infatti appena la Bella torna alla propria quotidianità rassicurante contrastanti sono i sentimenti che prova. Il ritorno nella casa del padre, oramai ricco ed in grado di viziarla, provoca una modifica nella Bella, che cede al fascino della vita agiata e confortevole. Ci dice il narratore, nel suo commentare le trasformazioni che si stavano lentamente verificando in lei che "quella [sua] bellezza s'andava mutando nell'irresistibile grazia che caratterizza certi squisiti, viziati gatti di lusso" (p.112).

Quindi si delinea un'opposizione tra la bellezza della giovane, che solo gli occhi della Bestia riuscivano davvero a riflettere, e la leggiadria viziata che gli specchi del suo mondo le rimandano. Le due diverse forme di felinità a cui si accenna (il leone ed il gatto) implicano che in qualche modo anche la Bella condivide qualcosa dell'animalità della Bestia, che con tutta la sua distante ed inquietante alterità, può rimandarle un'immagine in grado di rivelarle la ferinità nascosta in se stessa, cioè quell'alterità che anche lei ospita dentro di sé.

Dal mondo confortevole e tranquillo appartenente al padre, la Bella prenderà nuovamente le distanze. Sarà condotta dal cane della Bestia accanto al suo capezzale; infatti la Bestia sta morendo a causa della promessa che lei ha infranto, a causa della sua assenza che lo ha reso così infelice da spingerlo a rinunciare al cibo e alla caccia per lasciarsi morire. Il racconto, in queste ultime pagine, si sviluppa in un crescendo drammatico, che riesce a creare tensione in chi legge insieme ad una sensazione di coinvolgimento commosso, ottenendo quegli stessi risultati che la struttura tradizionale della fiaba era in grado di ottenere. Sembra quindi che non ci sia una grossa presa di distanza critica nei confronti della narrazione originaria, ma è proprio con le ultime due frasi che l'effetto di senso dell'intero racconto si capovolge. Infatti nel momento in cui la Bestia morente ode queste parole, pronunciate con tutta la forza dell'amore dalla Bella: "Non morire bestia! Se mi vuoi, non ti abbandonerò mai più!" (p.115), si tramuta in uomo e le risponde: ""Sai," disse Mr. Lyon, "credo che potrei fare una piccola colazione, oggi, Bella, se vuoi favorire qualcosa con me.""(ibidem). Il racconto poi si conclude su quest'ultima immagine: "Mr. e Mrs. Lyon passeggiano nel giardino, la vecchia spaniel sonnecchia sull'erba tra cumuli di petali caduti".

Abbiamo dunque solo alla fine del racconto quel capovolgimento ironico che, nel suo essere estremamente brusco, sviluppa un efficacissimo effetto di straniamento rispetto al pathos precedentemente sollecitato. La dimensione animale ed inquietante della Bestia viene prontamente riassorbita dalla modifica della sua dimensione animale in un dignitoso cognome (Mr. Lyon) di cui anche la Bella, a seguito dell'istituzionalizzazione del loro rapporto, potrà fregiarsi. Ed infatti il signore e la signora Lyon cammineranno nel giardino, ormai stabilizzati nella loro identità, emblemi di una serena felicità domestica, tra una pioggia di petali caduti, come si conviene ad ogni finale romantico.

Ben diverso è l'universo erotico che si costruisce nel secondo racconto della raccolta ispirato alla medesima fiaba, "La sposa della tigre". Stavolta non è un uomo mascherato da leone che compare, bensì una tigre mascherata da uomo.

Il punto di vista narrativo è dato dalla voce della protagonista, che racconta gli eventi in prima persona, a differenza del precedente racconto, ed a cui non viene mai attribuito il nome proprio "Bella", nome che suggerisce una posizione femminile di puro oggetto voyeuristico. Infatti ci appare come una donna differente dalla protagonista dell'altro racconto: malgrado la sua posizione nella rete di relazioni patriarcali che la rendono oggetto di scambio, ha una sua resistenza e la capacità di porsi anche lei come soggetto di sguardo (20).

La frase di apertura del testo, che ne costituisce anche il primo paragrafo, nella sua laconica incisività (è assente qualsiasi marca di modalizzazione) sintetizza la dinamica dei rapporti tra i personaggi principali, secondo uno schema triangolare: "Mio padre mi perse giocando a carte con la Bestia" (p.116). Abbiamo un soggetto maschile, il padre, che consegna un oggetto femminile ad un essere che, a giudicare dal nome comune reso proprio, "la Bestia", appartiene ad una strana dimensione intermedia tra l'umano e l'animale, a seguito di un conflitto tra i due, giocatosi simbolicamente a carte. Il premio in palio che il vincitore riceve è dunque il possesso della donna protagonista e narratrice del racconto, che immediatamente, freddamente nomina la sua reificazione. Tale forma dell'enunciazione crea immediatamente una scissione tra il soggetto narrante ed il mondo che viene evocato nelle sue parole, di cui è però parte integrante.

Poi, nel paragrafo successivo, veniamo a sapere qualcosa di più dei personaggi, in un'alternanza continua di tempi commentativi e narrativi. Il padre e la figlia provengono dalla Russia ed è in Italia che il destino della ragazza si compie: dopo aver dilapidato l'eredità di lei, il padre perde la figlia stessa alle carte, consegnandola così alla Bestia, che viene da lei descritta in questo modo:

Soltanto da una grande distanza si può ritenere La Bestia non poi molto diversa da un uomo qualunque, nonostante la perfetta maschera dipinta, che egli porta sul volto. Un viso stupendo, senz'altro; ma dotato di una simmetria troppo precisa per essere del tutto umana. Un profilo di quella maschera è lo specchio esatto dell'altro, troppo perfetto, quasi soprannaturale. Porta anche una parrucca.[...] Un pupazzo carnascialesco fatto di cartapesta, con i capelli di crespo. (p.119)

L'inquietante stavolta appartiene alla perfetta simmetria della maschera, a quell'aspetto umano che nasconde qualcosa di imperscrutabile. Ma la donna si chiede quale possa essere la esatta natura della sua bestialità, al di là di ogni travestimento, mentre la carrozza la conduce nel suo vasto e labirintico palazzo, in qualche modo incuriosita da una stranezza che non riesce a definire.

La prima sorpresa che l'attende è scoprire che la Bestia vive in un luogo disabitato, circondato solo da esseri meccanici che fungono da servitori, niente altro che simulacri. Ed in una di queste bambole meccaniche la giovane riconosce se stessa, in "quella mia gemella meccanica" (p.128), la cui stessa vita fittizia ella conduce.

A differenza dell'eroina della fiaba originaria, questa protagonista è una donna fiera ed orgogliosa, ben cosciente del fatto che essere una donna in una società patriarcale, dove i patti e le alleanze si stipulano tra gli uomini, significa essere considerata priva di anima e di ragione, come le bestie e come tutti gli altri esseri che alla loro immagine non si conformano, niente più che una gradevole bambola meccanica.

La Bestia, intanto, detta le sue condizioni: l'unica cosa che lui desidera da lei è poterla vedere nuda in tutta la sua verginità, e per una sola volta. In cambio sarà riconsegnata al padre, in possesso inoltre di una cospicua ricchezza. Questa è la posta del gioco, del nuovo gioco che stavolta vede di fronte due esseri che sono "oltre l'umano": una donna e una bestia. Ma proprio per questo il gioco può essere giocato in una situazione di parità; anche la donna detta le sue condizioni: si denuderà dalla cintola in giù, in una stanza senza finestre e con il volto coperto da un panno, ma per una sola volta, e senza che per questo debba ricevere più denaro di quello che sarebbe usuale dare a qualsiasi altra donne nelle medesime circostanze (cfr. p. 59).

Tuttavia il gioco non si svolge secondo quanto previsto. Sarà la Bestia a domandare alla donna di potersi mostrare nuda di fronte a lei, in una sorta di gioco al rialzo, e, liberandosi del suo pesante travestimento, lascerà apparire le sue possenti fattezze di tigre selvaggia, che più nulla ha di umano. Tale immagine di potenza e bellezza, che umilmente si offre allo sguardo di lei, rendendola soggetto di visione in un capovolgimento degli usuali ruoli sessuali, spingerà anche la donna, stavolta non per un patto, ma a seguito del proprio desiderio, a liberarsi degli abiti, a mostrarsi nuda e orgogliosa davanti agli occhi della Bestia, nel ricordo forse quella cosa selvaggia e indomabile che era da bambina, quando la governante, per costringerla alla sottomissione, la minacciava con il racconto dell'uomo-tigre che ingoia i bambini ribelli, provocandole un delizioso, eccitante terrore. Vi è dunque una profonda affinità tra i due: ciò che li avvicina è in qualche modo la loro posizione di "diversi", di estranei alle regole del mondo, che sono pronti, entrambi, a sovvertire e modificare.

Il desiderio della Bestia di poter vedere nuda la giovane, in apparenza richiesta banale da voyeur, ora acquista un nuovo spessore nella partita che tra loro si gioca, infatti ella comprende che "la Bestia aveva chiesto l'abominevole" (p.137): è una nudità quasi insostenibile quella che gli occhi della Bestia sanno guardare. Dice la giovane: "Non ero avvezza alla mia nudità, tanto poco abituata al mio corpo che togliermi tutti vestiti era come scuoiarmi."(ibidem). Liberandosi dell'abito fattosi pelle, tramutatosi in natura, si lascia indietro la falsità di un erotismo (e di una vita) che si nutre del rituale dell'abito che copre e scopre, abito che serve a ricordare la differenza sessuale ed a negarla contemporaneamente, con il suo valore di feticcio, che serve a camuffare e sanitizzare una spinta pulsionale altrimenti insostenibile.

Con quell'abito, ormai inutile, rivestirà la bambola meccanica che verrà mandata al padre perché prenda il suo posto; lei invece rimarrà nel mondo della tigre, il mondo in cui risuona l'ammonimento della governante:

Farà di te un solo boccone.

Le paure dell'infanzia divenute realtà; la prima e più arcaica delle paure, quella di essere divorati. la bestia nel suo giaciglio carnivoro pieno di ossa e poi io, pallida, tremante, acerba che mi avvicinavo come ad offrirgli, con me, la chiave di un regno di pace in cui il suo appetito poteva non costituire la mia estinzione. (p.138) [tr.it. con variazione nostra]

Fantasie di un luogo dove l'erotismo si possa dispiegare in tutta la sua potenza, non addomesticato, dove anche il divoramento, l'oralità, gli spazi arcaici della sessualità polimorfa possano far parte di un gioco che non miri alla distruzione reciproca, in cui la violenza meschina e perversa del mondo degli umani ceda il posto ad un incontro d'amore feroce come la forza della natura e nel contempo mansueto perché basato su di un patto reciproco: "La tigre non giacerà mai con l'agnello; non riconosce alcun patto che non sia reciproco. L'agnello deve imparare a correre con le tigri." (134) [tr.it. con variazioni nostre]. La tigre e l'agnello potranno giacere insieme solo se l'uno sarà in grado di condividere qualcosa dell'altro, solo se non si porrà come vittima sacrificale, ma imparerà a correre insieme alle tigri. Restando agnello, mutandosi in tigre esso stesso? Può esistere un luogo dove l'innocenza dell'uno e la potenza dell'altro non abbiano bisogno di negarsi a vicenda, ma esistano come aspetti coesistenti e pacifici di un'unica realtà?

Il racconto di Carter termina con la descrizione dell'incontro dei corpi della giovane e della bestia, che ha luogo mentre tutt'intorno il palazzo, i suoi muri, le sue stesse fondamenta - i segni della ricchezza e dello status sociale - cominciano a vacillare ed a crollare. In questo scenario in cui ogni cosa si disintegra,

Si faceva sempre più vicino, finché sentii la sua testa irsuta contro la mano e la sua lingua rasposa come la carta vetrata. "Mi leverà via la pelle!"

Ad ogni leccata, la pelle si lacerava a brandelli, ogni strato di pelle della mia vita mondana lasciava spazio ad un nuovo vello di pelo lucente. I diamanti dei miei orecchini tornarono ad essere acqua e mi scesero giù per le spalle. Ne scossi le gocce lontano dalla mia pelliccia incantevole. (p.139)

L'effetto abrasivo della lingua della tigre sul corpo di lei la libera da quelli strati sovrapposti di pelle morbida e bianca - segno della sua identità culturale - tramite cui si è determinata la sua socializzazione, la sua trasformazione in donna (21); ne verrà fuori la magnifica pelliccia della sua effettiva alterità, quella sessualità nascosta e repressa che non ha nome né identità di genere.

 

Le varie identità di Cappuccetto Rosso

Gli ultimi tre racconti della raccolta fanno riferimento alla famosissima fiaba di Perrault "Cappuccetto Rosso" (22), di cui costituiscono tre "variazioni sul tema", che è necessario considerare nel loro stretto legame reciproco.

Il primo racconto ha per titolo "Il lupo mannaro", il secondo "La compagnia di lupi" ed il terzo "Lupo-Alice", quindi la figura del lupo è posta in posizione assolutamente centrale in ogni racconto, a differenza della fiaba tradizionale che invece attribuiva uno statuto privilegiato alla bambina.

 Il racconto "Il lupo mannaro" è incentrato sulla presenza e descrizione dell'esistenza di quella figura immaginaria così sconcertante che è il lupo mannaro, essere intermedio tra l'animalità e l'umanità, che, trasgredendo l'opposizione uomo/animale, sposta ancora una volta la dimensione della narrazione dal meraviglioso fiabesco al "perturbante" (23) del racconto fantastico (24).

L'inizio del racconto, che è minuziosamente descrittivo, crea le condizioni della verosimiglianza, per provocare incertezza rispetto allo statuto di realtà di quelle figure immaginarie che va a presentare. Nei paesi del nord, dove il freddo è intenso e la vita difficile, anche il Diavolo è vero: la gente che vive nei boschi lo vede con i propri occhi organizzare i suoi riti macabri e necrofagi. L'inizio del racconto, con la precisione quasi sociologica della descrizione delle abitazioni di questi abitanti del nord, condotta con l'obiettività della "terza persona", in qualche modo ci invita a pensare che anche il Diavolo, insieme alle streghe ed ai vampiri, possa realmente esistere in quelle terre. Si pone subito dunque il problema del confronto tra la verità dei fatti e la "realtà" dell'immaginazione poiché, come Sartre sostiene, "l'immaginario rappresenta in ogni momento il senso implicito del reale" (25).

Dopo l'accurata descrizione dello sfondo su cui si va ad innestare la narrazione, ci viene presentata una bambina mandata dalla madre a far visita alla nonna malata nel freddo dell'inverno. Anche in questo caso, come nella fiaba di "Cappuccetto Rosso", la bambina viene invitata dalla voce di un'istanza superegoica a non lasciare il sentiero che attraversa la foresta: "Non allontanarti dal sentiero, ci sono gli orsi, il cinghiale, i lupi affamati" (p.73), ma nel contempo le viene dato il coltello del padre per difendersi in caso di pericolo. Quando infatti la bambina incontra un lupo feroce che cerca di assalirla senza scomporsi afferra il coltello e gli mozza la zampa destra anteriore, che poi conserva nel cestino. Il povero animale va via sconsolato e zoppicante: "Al lupo scappò un mugolio, quasi un singulto; sono meno corraggiosi di quanto sembri, i lupi"(ibidem). Dunque ecco il primo capovolgimento rispetto allo sviluppo canonico della fiaba tradizionale: una bambina coraggiosa di fronte ad un lupo più pavido di quanto potesse sembrare a prima vista.

La bambina si rimette in cammino e giunge a casa della nonna, che è realmente molto malata. Nel cercare nel cestino un telo per farle un impacco freddo, le cade la zampa del lupo sul pavimento e sorprendentemente si scopre che è la mano della nonna. Il lupo incontrato sul sentiero era dunque la nonna stessa, ora febbricitante per la mano mozzata. Naturalmente la bambina non si perde nuovamente d'animo e, tenendola a bada con il coltello, fa accorrere i vicini che, riconosciutala per una strega, la uccidono a bastonate e sassate. Il finale del racconto ricalca quello tranquillizzante di ogni fiaba: "Dopodiché la bimba visse nella casa della nonna; felice e contenta"(p.74).

Questo racconto presenta una strana commistione di toni: l'inizio, con i suoi isomorfismi sintattici, con il suo periodare spezzato e ripetitivo, scarno come il freddo invernale e la desolazione descritta, evoca un'atmosfera di sospensione e paura tipica del racconto fantastico, che però si converte poi, in modo inespettato, nell'ironia di un racconto macabro raccontato con la cinica levità di tono che solo le fiabe conoscono. Questa Cappuccetto Rosso senza cappuccio è tutt'altro che una povera bambina indifesa; è piuttosto il lupo a provocare la nostra pietà insieme alla povera nonna della cui casa la bambina si impadronisce per vivervi a lungo felice e contenta. Il licantropo è qui dunque il miserevole essere, soppresso dalla compagine sociale, costretto alla doppia identità di donna e lupo, che ponendosi come ricettacolo del negativo della comunità, come capro espiatorio, ne permette il consolidamento.

Ellen Cronan Rose interpreta il racconto secondo una modalità che potremmo definire "alla Bettelheim", infatti secondo lei la bambina, scoprendo l'animalità della nonna, si rende conto della sessualità di quest'ultima e, per questo, terrorizzata, la fa sopprimere. Alla fine però, rimanendo nella casa di lei, accetta la sua stessa animalità e dunque la sua maturazione sessuale. Ci sembra che tale lettura non tenga affatto conto delle caratteristiche del testo in questione e che preferisca interpretarlo secondo un facile simbolismo piuttosto stereotipato, inerente ad un processo lineare di crescita ed accettazione del proprio ruolo sessuale (26).

Al contrario, qui la bambina rappresenta la compagine sociale nell'atto di liberarsi di quell'"inquietante estraneità" che si annida proprio nei luoghi più familiari, per rinforzare le proprie frontiere. Certo non è più la vittima indifesa della fiaba tradizionale, è piuttosto una Cappuccetto Rosso che è passata attraverso tutte le fasi dell'emancipazione femminista, ma ciò non ne cambia la funzione nell'economia del racconto. La bambina è solidale con l'ordine simbolico (non a caso è del coltello del padre che si serve per mutilare il lupo) che, una volta espulsa ogni forma di alterità vissuta come minacciosa, può riprodursi e durare nel tempo.

 

Il successivo racconto, "La compagnia di lupi", si apre con la descrizione del lupo e della sua ferocia. Il lupo riempie con i suoi ululati la foresta di notte; astuto e feroce non può rinunciare al sapore della carne di cui soltanto si nutre. La descrizione della spietata e disumana ferocia del lupo appartiene a quel sapere comune tramandatosi di generazione in generazione con lo scopo di avvertire e proteggere dal pericolo chi si avventura incauto in quei territori che del lupo sono il regno. Come le storie raccapriccianti e deliziose ascoltate da bambini, il racconto quasi materializza con la sua descrizione questi foschi membri di una congregazione d'incubo, che si riuniscono intorno al malcapitato, colpevole di essersi attardato nella foresta in maniera decisamente poco prudente, perché attratti dal suo odore di carne.

Si accumulano gli avvertimenti ed i consigli, ma anche comportandosi in maniera sensata e non esponendosi al pericolo, non sempre è possibile salvarsi dalla minaccia dei lupi: si insinuano anche nelle case che spesso non costituiscono una protezione sufficiente contro il male che incarnano. L'unica maniera per difendersene è averne paura e fuggirli.: "Temi e fuggi il lupo; perché c'è dell'altro: quel che sembra del lupo può non essere tutto." (p.61). Il vero pericolo dunque è che il lupo nasconde una qualità misteriosa del suo essere che, non essendo definibile, può sconvolgere e distruggere in maniera imprevista la tranquillità della propria esistenza.

Il vero pericolo rappresentato dal lupo è che esso si nasconde tra di noi, che non è possibile tenerlo lontano, perché appartiene in qualche modo alla nostra razza umana: il licantropo è segno della presenza continua del lupo tra di noi e della sue imprevedibili metamorfosi. Con un'ultima apostrofe al destinatario della narrazione ed un ultimo consiglio a fuggire lontano da un qualsiasi uomo nudo visto tra i boschi, poiché la nudità è il segno iniziale della metamorfosi dell'umano in animale, il racconto mette fine al suo lungo preambolo e la narrazione vera e propria può iniziare.

Come è usuale in queste storie di lupi, il periodo dell'anno in cui la vicenda ha luogo è il solstizio d'inverno, uno dei periodi più pericolosi dell'anno, ma la bambina è decisa ad attraversare il bosco e non sente ragioni. Ecco dunque un'altra coraggiosa "Cappuccetto Rosso" con un coltello nel cestino, pronta ad attraversare il bosco e ad affrontarne le minacce per poter far visita alla nonna malata. Ci viene subito comunicato che però la bambina ha già cominciato a conoscere il rosso mensile della sua sessualità, quel rosso che lo scialle brillante fattole dalla nonna ricorda, come un presagio sinistro di sangue sulla neve. La sua sessualità è però ancora chiusa e inattaccabile. La verginità, rendendola un sistema chiuso e sigillato, protegge la bambina dalla paura. Ma forse è proprio la curiosità, che la verginità conserva e sviluppa in sé, a spingerla ad attraversare i boschi minacciosi senza timore. Nella foresta incontra un giovane attraente, più bello degli zotici del suo paese, e a lui si accompagna volentieri, benché il giovane cerchi di convincerla a lasciare il sentiero conosciuto per seguire una scorciatoia.

Fanno allora una scommessa: chi prima arriverà alla casa della nonna dovrà pagare un pegno ed il pegno consisterà in un bacio. La bambina, ci viene detto, fece di tutto per attardarsi e perdere, in modo da essere "obbligata" a pagare il suo pegno al giovane così seducente. Tutt'altro che ingenua, la bambina conosce dunque le strategie dei giochi d'amore e lascia che il ragazzo arrivi prima, ma chi altri è il ragazzo se non il lupo della fiaba che divora la vecchietta e si sostituisce a lei nel suo letto?

Il racconto si sviluppa, a questo punto, seguendo la falsariga della fiaba di Perrault, ma con una serie di sottili variazioni parodiche che mettono in luce il diverso atteggiamento della bambina rispetto alla sua più nota antenata. La bambina si accorge che la nonna non è più in quella stanza e che ora si trovano solo loro due di fronte: lei e lo strano essere, contemporaneamente uomo e lupo, dai grandi occhi e dalla grandi braccia, con cui intreccia il famoso dialogo di agnizione:

Che occhi grandi hai.

Per vederti meglio.[...]

Che braccia grandi hai.

Per abbracciarti meglio.[...]

Che denti grandi hai! [...]

Per mangiarti meglio. (pp.68-70)

L'imprevista variazione sul tema è che, durante lo svolgimento dello scambio di battute appena citato, la bambina si sveste e getta i suoi indumenti nel fuoco seguendo i suggerimenti dell'uomo-lupo, mentre i suoi fratelli ululano nella notte il loro lugubre canto. Quando è poi del tutto nuda, liberamente lo bacia ed infine, scoppia in una grande risata:

La ragazza scoppiò in una fragorosa risata; nessuno ami avrebbe fatto di lei un boccone. Gli rise in faccia, fu lei a strappargli la camicia e a buttarla nel fuoco. (p.70)

Con la sua risata liberatoria la bambina supera l'abisso che li divideva e si accosta allo spazio erotico che il mondo del lupo disegna, pronta a offrirgli il suo corpo immacolato ed a godere del suo.

Tra i due esseri prima divisi solo dalla paura si crea ora un legame erotico e feroce, tenero e selvaggio, possibile solo perché la bambina sa di non essere cibo per nessuno, sa che nessuno può fare un boccone di lei. La tormenta può placarsi e la bambina dormire serena tra le zampe del suo amorevole lupo.

E' la paura che crea l'orrore dell'altro, che trasforma il possibile piacere dell'incontro tra due "diversi" nel luogo mortale di uno scontro all'ultimo sangue. In questo racconto si delinea invece un luogo di possibilità per un desiderio femminile polimorfo, che non ha paura della propria stessa animalità, se per animalità intendiamo una sessualità imprevedibile e non edulcorata dalle codificazioni del simbolico, piuttosto che un luogo di pacificata "naturalezza".

Il lupo non rappresenta qui la naturalità dell'istinto, quanto uno spazio metamorfico (in fondo ci troviamo di fronte a licantropi, non ad animali puri e semplici), dove l'incontro dei corpi crea impreviste configurazioni sessuali, dove anche la morte non fa più paura, perché fa parte di quel movimento di trasformazione dell'esistente di cui l'erotismo è componente essenziale.

 

L'utimo racconto, "Wolf-Alice", ci presenta ancora una volta un personaggio dall'identità incerta: la bambina allevata dai lupi a cui il titolo si riferisce. Benché umana, la bambina ha appreso le modalità di vita e di comunicazione tipiche dei lupi che l'hanno teneramente allattata e ci viene detto che lei stessa, se sapesse parlare, si definirebbe un lupo. Dunque la bambina non possiede alcun linguaggio che possa definire realmente suo, poiché quello umano le è estraneo e quello dei lupi può utilizzarlo senza però essere in grado si comprenderlo realmente.

La bambina è l'incarnazione di una differenza incodificabile: condivide le caratteristiche morfologiche dell'umano, ma non essendo stata sottoposta ad alcun processo di socializzazione, la sua rappresentazione della vita quotidiana è abissalmente diversa da quella degli altri esseri umani; con i lupi invece ha in comune il rapporto con l'Umwelt, poiché ha sviluppato quei sensi che servono maggiormente ad orientarsi di notte come l'olfatto, mentre la vista, così importante per gli umani, non ha alcun rilievo particolare nella sua esistenz. Anche il suo senso del tempo è ben diverso dalla temporalità lineare e progressiva, orientata verso il futuro e sorretta dal ricordo, che gli esseri umani si sono data; un eterno presente, che si snoda al di là della disperazione così come della speranza, è ciò che orienta le sue giornate. Nondimeno non è un lupo.

Dopo essere stata trovata, ci viene poi detto, accanto al cadavere crivellato di colpi della madre adottiva fu condotta presso un convento, le cui suore cercarono in ogni modo di insegnarle un po' di decenza, ma senza alcun risultato; per questo fu condotta dal Duca.

Viene ora introdotto nella narrazione un nuovo personaggio, anch'egli dalla dubbia identità. Veniamo a sapere che vive in un castello, definito dimora funesta e sconsacrata, che odora di zolfo; lui stesso ha ben poco dell'umano, da quando lo specchio ha cessato di restituirgli la sua immagine: "Vive in un triste maniero, completamente solo fatta eccezione per la nostra bambina la quale, come lui, ha ben poco in comune con tutti noi"(p.77). Si struttura subito l'opposizione tra i due esseri ambigui e solitari residenti nel castello, abitanti di un mondo intermedio ed indefinibile, e tutti noi altri, i lettori, il narratore ed il resto dell'umanità, che condividiamo la certezza di un'identità comune.

Il Duca ha attraversato lo specchio e vive dall'altra parte della realtà, vestito solo dei suoi grandi occhi famelici che divorano il mondo. Egli appartiene al mondo capovolto dello specchio, quel mondo inquietante attraversato dall'Alice di Lewis Carrol, a cui il titolo del racconto si richiama, quel mondo oltre il visibile, oltre l'immagine, che delinea la topografia di zone oscure da cui qualsiasi cosa può emergere. L'isotopia dello specchio, insieme a quella della visione, sarà sempre presente in tutto il racconto, portando con sé la molteplicità di letture possibili che l'area semantica dello specchio da sempre suggerisce. I suoi occhi che non vedono, che divorano se stessi ed il mondo, sono il corrispettivo degli specchi che non riproducono immagini, ma celano un mondo diverso dietro la propria superficie riflettente.

L'attacco alle convenzioni della razionalità occidentale, che fa della visibilità ciò che garantisce l'esistenza e l'intellegibilità della realtà, è qui sferrato in maniera evidente. L'occhio che vede è l'occhio che cerca di possedere e controllare, ma l'occhio affamato che brilla nel buio ci suggerisce quell'universo inquietante e solitario di dipendenza dall'istinto e dalla paura precedente allo "stadio dello specchio", cioè alla socializzazione, il luogo del corpo in frammenti del bambino travagliato dalla fame e dall'impotenza (27).

Il Duca è il soggetto asociale e non integrabile in una comunità a cui è stato affidato il ruolo di incarnazione del male e della trasgressione più turpe:

Sulle sue fragili spalle porta il peso sinistro della paura; il ruolo che gli è toccato è quello di consumatore-di-cadaveri, il ladro di corpi che fa irruzione nelle estreme private dimore dei morti. (p.78)

E' il capro espiatorio obbligato a portare su di sé il peso della violenza e delle paure di una comunità. E' una metafora vivente, l'incarnazione dell'asserzione homo hominis lupus, e per questo è estraneo anche alla comunità animale che ulula nella notte contro di lui, quasi i lupi stessi sapessero che "la sua metamorfosi è la parodia della loro condizione" (p.79).

La bambina, al contrario, appartiene ad un mondo di saggezza incomprensibile agli umani: mentre il Duca è l'uomo che simula il lupo, in una distruttività ben più perversa della naturale ferocia dell'animale, la bambina dal lupo ha appreso un linguaggio che, benché incomprensibile per la nostra realtà umana che ha orecchie solo per ciò che le somiglia, ha un suo senso ed una sua dignità. Solo in un mondo non antropocentrico la vita della bambina acquisterebbe valore:

In un mondo in cui fossero gli animali e i fiori a parlare, lei sarebbe il bocciolo carnoso che il leone amorevole terrebbe tra le fauci: ma una volta che la mela è stata morsa, in che modo se ne rimarginerà la ferita? (p.79)

Se si riconoscesse esistenza e valore a forme di vita diverse dall'umana, dotate anch'esse di un loro linguaggio, la bambina non sarebbe più l'essere emarginato ed indefinibile espulso dalla comunità sociale perché incapace di apprenderne le regole; forse il suo linguaggio potrebbe raccontare di altre possibilità di esistenza se solo si provasse ad ascoltarlo, rinunciando alla pretesa di comprenderlo. E' davvero la specie homo sapiens la più perfetta, quella a cui spetta regnare sull'universo perché si trova gerarchicamente più in alto nella scala della vita? Oppure la sola esistenza di altre forme di vita ci dicono che la nostra non è l'unica nè forse la migliore?

E' difficile stabilire cosa è la vita di Lupo-Alice (la bambina viene chiamata così nel racconto) ora che si trova in esilio tra cose che non solo non è in grado di nominare, ma neanche di percepire, perché percepire è già interpretare secondo quelle coordinate di senso che costituiscono il sapere condiviso di una comunità. Cos'è un essere umano che non è in grado di nominare le cose o di misurare il tempo?: "Noi, per paura della sua imperfezione, la segregammo nella sua solitaria esistenza animale; quell'imperfezione ci faceva infatti vedere quello che noi avremmo potuto essere" (p.80).

Si esilia chi temiamo più di ogni altra cosa perché ci rimanda qualcosa di noi stessi che preferiamo non ricordare, si esclude chi nella sua differenza così totale in realtà è a noi più simile di quanto amiamo pensare. La bambina arruffata, sporca, indecente, priva di vergogna per il suo corpo e per i suoi escrementi, non è altro che ciò che eravamo prima di trasformarci in ciò che ci definisce "esseri civili"; l'asserzione dell'istanza narrante del racconto, cioè che noi l'abbiamo segregata, include i destinatari del racconto nella complicità in un'azione di esclusione che travalica le barriere tra il mondo possibile narrato ed il nostro mondo attuale. Ci sembra dire che ognuno di noi ha esiliato quella bambina, che, lungi dall'essere solo un personaggio fantastico, acquista uno statuto di verità che trascende i limiti della narrazione.

Tuttavia la reale variazione nell'esistenza della bambina, fino ad ora fatta solo di un fluire di impressioni mutevoli, è data dall'elemento di una temporalità legata al corpo che fa improvvisamente la sua comparsa: la prima perdita di sangue, inizio di una ciclicità con scadenza lunare, che la sconvolge perché imprevista ed immotivata. Nessuno può spiegarle di cosa si tratti e deve trovare da sola una soluzione al problema. In contemporanea a questa novità fa un'altra scoperta: si imbatte in uno specchio, oggetto incomprensibile che non viene preso per una superficie riflettente, bensì per il luogo della presenza di un essere estraneo, separato da lei da una gabbia invisibile ed irremovibile. La bambina è felice di scoprire la presenza di un "altro" che potrebbe liberarla dalla sua solitudine.

La doppia scoperta dello specchio, luogo di una strana e amichevole alterità, e della luna, che scandisce il suo ciclo mestruale, portano dei mutamenti importanti nella vita della bambina. Il mondo inizia ad assumere una forma, poiché lei inizia a percepire se stessa come differenziata dal resto dell'ambiente che la circonda, che non è più un'emanazione di se stessa, ma possiede una sua realtà concreta e differente da lei.

Nel momento in cui inizia a percepirsi come separata dal mondo, anche il suo rapporto con lo specchio si modifica, infatti l'identità di movimenti che la sua compagna riflessa riproduce le insinua dei dubbi sulla effettiva esistenza di un altro da sé. Infine, trovati dei vecchi abiti da ballo appartenuti alla nonna del Duca, la bambina li indossa e così completa il suo processo di differenziazione dal mondo dei lupi.

Mentre il processo di crescita, sia fisica che cognitiva, si articola nel corpo e nella mente della bambina, oramai trasformatasi in adolescente, qualcosa accade anche al Duca, che viene infatti ferito da una fucilata che avrebbe dovuto eliminarne la presenza mortifera dal mondo dei vivi. Lupo-Alice lo prende in cura per alleviarne il dolore, quello stesso dolore che doveva avere patito la sua mamma adottiva uccisa anch'essa da un colpo di fucile. E' anch'egli un povero essere ferito, abitante, come Lupo-Alice, di un mondo transitorio ed indefinibile, ma nient'affatto sovrannaturale; piuttosto un mondo imperfetto, irregolare. E' descritto come un lupo intrappolato in una tagliola, come una donna in travaglio e sanguinante, (cfr. p.86) e dunque i due personaggi che la narrazione ci ha presentato si avvicinano ora per analogia: entrambi condividono qualcosa sia dell'animalità malinconica del lupo che della femminilità vicina al sangue ed al dolore.

Abitanti di un mondo dove le identità sono indefinibili, ed in fondo non necessarie perché si dia un incontro, Lupo-Alice si avvicina al Duca ferito ed amorevolmente gli lecca il sangue e lo sporco dal volto, senza disgusto, mentre nel frattempo lo specchio, al chiarore della luna, riflette solo l'immagine della fanciulla. eppure la stessa razionalità dello specchio deve infine arrendersi ed accettare che lentamente appaia sulla sua fredda superficie anche il volto del Duca, come portato alla luce ed alla vita dalla lingua morbida ed amorevole di lei. Con il volto del Duca finalmente visibile nello specchio il racconto si conclude.

Entrambi i personaggi, Lupo-Alice ed il Duca, inizialmente abitanti del mondo estraneo che si nasconde dietro lo specchio, attraversano quelle fasi di crescita che sono le fasi della conoscenza. Il dolore e l'esperienza del sanguinare (la "ferita" che entrambi condividono) è la tappa fondamentale che li porta a ritornare dall'altra parte della superficie riflettente: per Lupo-Alice lo specchio diventa un oggetto quotidiano e non più misterioso nel momento in cui riesce a guardarvi dietro ed a trovarvi solo polvere (cfr.p.84); invece per il Duca è il riconoscimento del suo corpo come corpo degno d'amore, e non più repellente, a permettergli di recuperare la sua immagine riflessa. Abbiamo due esseri per cui lo specchio non è in questo caso il luogo mortifero di Narciso, ma il testimone del riconoscimento reciproco, e quindi, anziché intrappolarli in una specularità alienata senza via d'uscita, si pone come tappa per una reale nascita all'intersoggettività.

Qual è allora la connotazione dello specchio (oggetto sempre sovraccarico di significati, anche contraddittori, nella nostra enciclopedia) in questo racconto, qual è la sua funzione? E' il luogo della razionalità impietosa, il luogo dell'autocoscienza e della ricerca di un'identità, il luogo dello sguardo e del riconoscimento? Forse tutto questo ed altro ancora.

Guardarsi allo specchio è sempre guardarsi con gli occhi di chi ci ha guardato e quindi la sua impietosa superficie non può che restituire quello sguardo originario di accoglimento o di negazione. Alice-Lupo, allattata amorevolmente dai lupi, risponde in maniera giubilatoria alla sua immagine allo specchio, in cui distingue un altro essere con cui poter entrare in relazione; il Duca, a cui è stato attribuito il regno del non essere, cioè dello sguardo mancato, non può vedersi restituire alcuna immagine da quello stesso specchio, bensì soltanto il vuoto di una negazione di esistenza. E' la bambina che, accostandosi al suo dolore ed alla sua animalità senza ribrezzo, può farlo nascere allo sguardo e dunque all'immagine, riconoscendogli un corpo tangibile e reale:

Io mi vedo perché mi si vede. Il che significa che io ho coscienza di me non in quanto soggetto residuale, unità psicologica o biografica, ma in quanto il mio fondamento è fuori di me. Io per me sono solo puro rinvio ad altri. [...] Io sono, al di là di qualsiasi conoscenza, quel me che un altro conosce. [...] Basta che un Altro mi guardi perché io sia ciò che sono. Non per me stesso, ma per l'Altro. Questa metamorfosi si compie per il solo fatto che mi si conferisce un di fuori, un'identità (28).

Il racconto in fondo ci dice di una possibilità d'incontro tra due "diversi", la cui differenza non è quella codificata per opposizione, ma quella singolarità errante che non ha paura di attraversare i luoghi inquietanti che anche l'Alice di Carrol aveva sondato, e che solo in questo cammino può accostarsi ad un altro da sé, senza più paura, rendendolo degno di quello sguardo che può farlo nascere al mondo. E' come se, solamente assumendo completamente la propria atopia, ed il dolore che essa porta con sé - la propria ferita - sia realmente possibile ipotizzare dei luoghi d'amore non mortiferi, forse ancora tutti da inventare.

Un solo dubbio può sorgere a questo punto, se decidiamo di non lasciarci del tutto convincere dal finale un po' troppo consolatorio e pacificato. Ci si può chiedere se invece tutto il racconto non sia stato altro che la narrazione di un'operazione di addomesticamento, avvenuta attraverso i simboli che socialmente associamo alla femminilità: lo specchio, l'antico abito bianco da ballo, la vergogna ed il pudore relativa al proprio flusso mestruale, che porta Lupo-Alice a cercare dei panni per tamponare il sangue senza sporcare in giro ("Imparò ad attendere le perdite di sangue, a premunirsi preparando gli stracci, e a seppellire, in maniera ordinata, quando tutto era finito, ciò che si era sporcato" pp.82-83).

Quando anche il lupo mannaro torna ad essere visibile, grazie all'operazione di "mediazione" della bambina, quando abbandona cioè l'area innominabile che appartiene all'altra faccia dello specchio, in qualche modo il simbolico ottiene la sua vittoria. Sono due esseri ormai umanizzati, resi comprensibili, che possono probabilmente riunirsi in coppia ed entrare nell'ordine sociale. In questo caso il racconto celerebbe un'ironia sottile e raffinata, che può essere compresa solo alla luce dell'"enciclopedia" dell'epoca in cui è stato scritto e che solo un raffronto con altre opere della scrittrice consente di riconoscere in maniera definitiva. Il finale, nel caso di una sua lettura troppo consolatoria, non farebbe che doppiare la tranquilizzante chiusa di ogni fiaba. Vi è però un inciso labile ed a prima vista trascurabile, benché enigmatico, presente nell'ultimo paragrafo del testo:

E mentre lei apportava le sue cure, quel vetro, con lentezza infinita, s'arrese ai poteri riflettenti della sua stessa materia. Al suo interno, poco per volta, come l'immagine di una fotografia che sulla carta sensibile affiora, in un primo momento una ragnatela di nervature sottili, la preda imprigionata nella sua stessa rete, poi con un contorno più preciso tuttavia ancora sfumato fin quando, infine, vivido come nella realtà stessa, come portato alla luce dalla lingua morbida, umida, amorevole di lei, per ultimo, apparve il volto del Duca. (p.87)

 

Il riferimento alla preda imprigionata nella sua stessa rete non sembra essere solo una metafora utilizzata per descrivere oggettivamente il processo di fissazione di un'immagine sulla carta fotografica; al contrario, essendo peraltro rafforzata dal lessema "rete" che la precede di poco, l'isotopia dell'intrappolamento diventa significativa, e ci permette di reinterpretare tutto il racconto anche in questa chiave. Tale interpretazione sarebbe in qualche modo confermata da un'intervista all'autrice stessa, ma il valore del racconto consiste proprio nella sua ambiguità costitutiva che lascia spazio ad interpretazioni anche non del tutto omogenee.

Non potremo mai sapere da quale parte dello specchio sia meglio abitare; forse non abbiamo scelta, non vi è nessun'altra alternativa realmente praticabile per un essere umano che non sia l'"addomesticamento". Pur sapendo che far parte del simbolico e delle sue leggi implica quella rinuncia pesante e dolorosa alla felicità di cui Freud ci ha parlato nel suo famoso saggio "Il disagio della civiltà", non è certo preferibile la deriva psicotica e l'esilio assoluto. Se però Alice-Lupo può accostarsi con affetto e senza orrore al lupo mannaro, punito dagli abitanti del villagio per la sua alterità, è anche perché conserva un ricordo del suo stesso essere inqualificabile, che nessuna operazione di addomesticamento potrà mai cancellare del tutto.

Note

1.       A. Carter, La camera di sangue, Milano, Feltrinelli, 1984 [3^ ed.1985].

2.       Genette usa in questi casi anche il termine transdiégétisation. (Cfr. Gerard Genette, Palimsestes, Paris, Seuil, 1982, p. 420).

3.       Cfr. ivi, p. 483.

4.       Per il concetto di "macrotesto" si rimanda a M, Corti, Principi della comunicazione letteraria, Milano, Bompiani, 1976.

5.       A. Carter, "La camera di sangue", in La camera di sangue, cit., pp. 7-57. (I riferimenti successivi alle pagine del racconto verranno messi tra parentesi, accanto alle citazioni.).

6.       Cfr. C. Perrault, "La barbe-bleue", in Les Contes de Perrault, de Madame D'Aulnoy, et de Madame Leprince de Beaumont, (a cura di H. Le Gai), Paris, Passard, 1860, pp.1-11.

7.       Utilizziamo il termine "autodiegetico" nel senso di G. Genette, Figure III, Torino, Einaudi, 1986, p. 293.

8.       Cfr. ivi, pp. 268-269.

9.       Cfr.B. Bettelheim, The Uses of Enchantment, Penguin, 1979, p. 35.

10.     Cfr. ivi, p. 30.

11.     Cfr. C. Perrault, "La barbe-bleue", in Les Contes de Perrault, de Madame D'Aulnoy, et de Madame Leprince de Beaumont, cit., p.11.

12.     Cfr. M. Bachtin, L'opera di Rabelais e la cultura popolare, Torino, Einaudi, 1979, p. 46.

13.     Cfr. R. Fowler, Linguistics and the Novel, London and New York, Methuen, 1977, p.107.

14.     Cfr. J. Kristeva, Poteri dell'orrore, Milano, Spirali, 1981, p. 243.

15.     Cfr. per es. P. Dunker, "Re-imagining the Fairy Tales: Angela Carter's Bloody Chamber", Literature and History, vol. 10:1, spring, 1984, pp. 6 e 12.

16. Naturalmente questa forma del legame tra madre e figlia ricorda quello che univa le mitiche figure della dea Demetra e della figlia Persefone rapita da Ades e trascinata da lui negli Inferi (Cfr. K. E. Lokke, "Bluebeard and The Bloody Chamber: The Grotesque of Self-parody and Self-Assertion", Frontiers, vol.X, n.1, 1988, p. 11).

17.     Cfr. M.me Marie Leprince De Beaumont, "La belle et la bête", in Les Contes de Perrault, de Madame D'Aulnoy, et de Madame Leprince de Beaumont, cit., pp.520-544.

18.     Valentin. N. Volosinov (Bachtin), Marxismo e filosofia del linguaggio, cit, p. 230.

19.     Utilizziamo il termine "autore implicito" secondo la terminologia di W. C. Booth (The Rethoric of Fiction, Chicago-London, University of Chicago Press, 1961) per riferirci all'autore che si rivela nella struttura dell'opera, e che da questa viene determinato, e non all'autore biologicamente e biograficamente reale, le cui "vere" intenzioni ci sono inaccessibili.

20.     Cfr. S. Briant, "Re-Constructing Oedipus Through Beauty and The Beast", Criticism, vol. XXXI, n.4, Fall 1989, p.448.

21.     Cfr. E. Cronan Rose, "Through the Looking Glass", in Fictions of Female Development, a cura di E. Abel, M. Hirsch, E. Langland, Hanover and London, University Press of New England, 1983, pp. 224-225.

22.     Cfr. C. , "Le petit Chaperon Rouge", in Les Contes de Perrault, de Madame D'Aulnoy, et de Madame Leprince de Beaumont, cit., pp.12-16.

23.     Rispetto alla nozione di "perturbante" si fa in questo caso riferimento al famoso saggio di Freud.(Cfr. S. Freud, Il perturbante, in Opere, vol. IX, Torino, Boringhieri, 1980, pp. 269-307).

24.     "Nel fantastico lo scontro si produce tra due ordini inconciliabili.[...] La natura del fantastico, a questo livello, consiste nel proporre, in qualche modo, uno scandalo razionale, in quanto non c'è sostituzione di un ordine con un altro, ma sovrapposizione. Da qui nasce la connotazione di pericolosità, la funzione di annientamento - o incrinatura, almeno - delle certezze del lettore" (ROSALBA CAMPRA, "Il fantastico: una isotopia della trasgressione", Strumenti critici, n.54, giugno 1981, p.203).

25.     Cfr. J. P. Sartre, Immagine e coscienza, Torino, Einaudi, 1980, p.288.

26.     Cfr. E. Cronan Rose, op. cit., p. 225.

27.     Cfr. J. Lacan, Scritti, Torino, Einaudi, 1974, pp.87-94.

28. P. Magli, "Sotto quello sguardo", in AAVV, Strategie di manipolazione, a cura di C. Sibona, Ravenna, Longo, 1981, p. 90.

 

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© Maria Grazia Tundo 1999