Workers' Playtime

   I mercoledì che assomigliano alle domeniche assomigliano a loro volta alle eclissi totali di sole che traggono in inganno il vampiro facilone. Avverti a livello atomico l'assenza del sole e inizi a sfarfalleggiare felice fra tombe, automobili, chioschi del centro, edicole.
   Non di rado appartenere a quest'occidente declinante ci offre il singolare e sconsolante spettacolo di cadaveri di vampiri, spinti carbonizzati ai margini della strada da qualche anima caritatevole, stretti in una posizione che esprime un'ultima tardiva sorpresa. Se vi avvicinaste a uno di questi sfortunati nella loro estrema sembianza notereste, all'altezza della gola brunita, un grido strozzato quasi di cenere, rimasto lì per una questione di secondi, e non troppo conciliante con la presenza del divino su questo pianeta. Solo in queste occasioni emerge forte la necessità della sua esistenza. Il vampiro carbonizzato come ultimo stadio della prova ontologica.
    Un'analogia è bella però solo se dura poco; durasse un po' di più risulterebbe palese al lettore che questo blues è blues vero: c'è una unica medesima tonalità nella mia mente che il ritmo lutulento del sangue nelle vene segue con felice rassegnazione. Le poche ore che mi separano dal risveglio son piccole svisate, divagazioni giammai confondibili con stunt men del pensiero che gravitano attorno al sole pigro ma cocente della festa del lavoratore.     Si staccano dalla skeletal framework del sonno attraverso bolle di senso, ondeggianti in una tinozza di afa illustrata. Il sole mi ha raggiunto attraversando i pesanti tendaggi della stanza, sobillando l'accaldamento, suggerendo l'avvenuto anacronismo delle coperte più pesanti, lasciandomi desiderare l'elemento acqueo dello sfero, lasciandomi desiderare un'amaca penzolante fra desiderio e sazietà, con gli insettini attorno e la metà del mio androgino base a cantarmi una canzone di Nick Drake.
   
La mia colazione è mezza bottiglia d'acqua, e due mele, una doccia più tiepida del solito e il respirare gli spazi lasciati dai miei in gita. Poi bicicletta, e rammentare che per chi le preferisce la moto e la macchina la vita è un'ininterrotta ora di punta. Giro per i vicoli, le strettoie, le stradine meno battute, scendo in volata per dolci declivi e grattugiomi le emorroidi per gli acciottolati, e mi fermo a rimirare gli scorci più urbani di prospetive di interni e primi piani. L'attrazione che esercitano su di me gli scorci di abitazioni intravedibili dalla strada difficilmente riuscirei ad esprimere: rimango lì, imbambolato, ricostruendo attorno ad un piccolo dettaglio la storia della famiglia, indietro fino a generazioni, domandandomi mai che tipo possa aver mai arredato in tal modo la propria casa. Se le finestre stanno al secondo piano guardo i soffitti. Se sto affacciato ad un balcone tiro fuori il piccolo monocolo e mi fisso sui mobili, i divani. Se poi capita qualcuno non potrei chieder di meglio.
   La faccia che abbiamo quando siamo a casa da soli, è qualcosa che non esiste in natura. E' l'abolizione di ogni interpretazione di sé stessi. Preferisco le persone che non sanno di essere guardate. Mi ricordano qualcosa di antecedente alla mia nascita che è strano io possa ricordare però ci provo. Poi capannelli di gente in moto. Ovunque. Sembra che tutti gli uomini e tutte le donne della città si siano messi insieme solo per darsi appuntamento stamattina. Non c'è una sola moto che categoricamente non sia composta di uomo davanti e donna abbrancicata dietro. Qualcuno mi segue con la coda dell'occhio mentre gli sfreccio pedalando davanti.
   
C'è qualcosa di terribilmente armonico in quanto vedo. Ho il sospetto di essere io, ho il sospetto che sia una qualità che il mio occhio secerne posandosi sulle cose. Il sole delle 11 mi rende queste persone e i loro prolungamenti tecnologici quasi papaveri ondeggianti in un campo di minuti. Io sono lì, a prendere il sole, osservandoli aspettare la fine del tempo, mentre le ombre si fanno progressivamente più corte.
   
    Vedo un africano al semaforo, davanti ad una scuola. Ha in mano un mazzo di tre/quattro fiori rossi confezionati e li mostra a quella che arguisco essere una coppia all'interno dell'abitacolo di una Lancia Y bianca. Se ne allontana subito dopo. Fa dieci passi e torna indietro. Dice qualcosa al conducente, poi prende il mazzo di fiori e lo spezza una, due, tre volte. Lo getta a terra e gli tira un calcio. Il semaforo torna verde, la macchina bianca scompare ordinata con la sua fila.
   Lui nel frattempo è tornato sul marciapiede, si è seduto su una panchina della scuola e si è preso la testa fra le mani.

 

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