Wirzeit

   Camminavo, passo dopo passo, rapido nel pomeriggio che andava a finire contro il marciapiede, sfumandosi nella morchia delle piastrelle. Se avessi sollevato la testa oltre le movenze dinoccolate della mia stessa ombra non sarei comunque riuscito a confermare la più balzana fra le mie idee della realtà, e in ogni caso rallentare non potevo. Così mi si diceva da una voce che da un po' era andata in loop in una zona imprecisata fra le mie orecchie e il mio naso. Stavo dunque in piedi su quell'alone di certezza. Una voce. Tanto bastava.

   Ma la strada era tutto quanto era rimasto attaccato alla memoria. Mi ripetevo senza sosta di non rallentare. Non rallentare. Ma nient'altro. Non dovevo dimenticare di mantenere il passo. Bene, non avrei mancato. Ero giù in strada a bella posta. E le strade offrivano quell'appiglio ovvio ed elementare dell'essere percorse; non si muovevano, io piuttosto mi ci muovevo, le cambiavo, svoltavo, piccolo atomo di divenire su piste di catrame più lento a solidificarsi.
   Sarei giunto, certo, non si può camminare per sempre.

   Non c'ero solo io. Il mondo s'offriva per continui sobbalzi visivi. Fiumane di anime tardopomeridiane fluivano in un mesto ossequio alla confusione nella e della moltitudine, all'ipnosi dell'ora, verso una qualche meta prevista, sottratta all'ansia della ragion sufficiente prima ancora d'esser sufficiente a se stessa.
   Noi tutti, tutti noi, nella nostra epoca, l'epoca di Noi, epoca del Noi, sul tapis roulant del giorno morente, che ci avrebbe scaraventati sottosopra alla fine della grande tavola imbandita, o forse semplicemente nel consueto oblìio dinamico di una notte sognante. Armate di violinisti raggiungevano il numero dei tavoli dei caffè, per l'aria torbida della sera ogni spina era in viaggio verso la sua rosa. Ma si andava spediti. Tutti insieme, per quanto lo sguardo potesse abbracciare, in una sarabanda lucidamente dipanata nel sempre più scettico caso della convivenza infinita.
   Noi nasciamo con una città dentro. E mille città fioriscono dentro di noi; e sono tutte diverse, a percorrerle una volta.
   Ma il tamburo del diavolo ci spinge ancora giù in strada, ci fa percorrere tutte le rampe di scale sputandoci nudi in faccia al nostro compito. Lo sentiamo attraverso ogni parete, come spiffero di gioia identitaria, che s'inlatebra giù sotto le porte o s'insinua verso i nervi dalle toppe delle chiavi. Il nostro cuore ha espanso la sua cassa di risonanza. Come globuli o come virus, svolgiamo la nostra corsa nell'organismo più grande. Ero stato salvato una volta e sapevo che sempre più difficilmente sarebbe capitato di nuovo.

   Era un caso che fossi ancora vivo; seguivo la mia ombra da una finestra secondaria. Io per la precisione ero il vicino di casa, che s'accosta senza far rumore alla sua finestra, qualche secondo dopo aver udito lo sparo. Vista la sagoma sul selciato, ritrattomi dalla finestra, indugiato pochi sul divano sul da farsi, tremando. Le sirene della polizia e dell'ambulanza supplivano perfettamente al semplice gesto che non avrei mai compiuto.
   Ho aspettato dentro di me. Ho aspettato che facessero i loro rilevamenti e portassero tutto via. Ho aspettato in apnea. Ho pensato che nulla sarebbe mai potuto cambiare.
   C'era solo da decidere se io ero in casa o non ero in casa, perché sarebbero venuti a fare delle domande, e nel primo caso avrei dovuto pure rispondere. Ad esempio sarebbe risultato che non avevo chiamato la polizia. E come avrei potuto?
   Non so come feci a passare, avvolto nel mio cappotto scuro, non visto attraverso la ressa dei curiosi, di fianco agli sbarramenti della polizia. Per un attimo temetti che potessero avermi preso il numero di targa. Solo dopo aver svoltato alla seconda traversa sorrisi di tale pensiero.
   Tutto ciò che avrebbero fatto sarebbe stato suonare al mio campanello, farsi bastare il silenzio di una casa vuota come risposta, appuntare il dato su d'un registro indifferente e infine suonare al campanello accanto. Pensai che sarebbe potuto star già avvenendo nel momento in cui lo pensavo, perché io ero già lontano, via, perso per vie di cui non conoscevo il nome, ma sicure come condotti della mia anima, come vene delle mie braccia. La città mi avvolgeva, e mi colorava del buio morente dei marciapiedi.

   Camminai fino a che la mia ombra scomparve. La gente si fece sempre più rada. Tornai a casa.
   I sigilli alla porta mi riportarono a me stesso.



 

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